Processo per stampa clandestina: la parola alla difesa

Interlex n. 174

di Andrea Monti

Signor giudice,
l’imputato è tratto a giudizio davanti a questo tribunale in quanto reo – a dire del pubblico ministero – di avere violato gli articoli 2 e 5 L.47/48 così come richiamati dall’art 1 comma III legge 62 /2001. In particolare egli sarebbe colpevole di avere diffuso informazioni con regolarità tramite prodotti editoriali realizzati su supporto informatico destinato alla pubblicazione o, comunque, alla diffusione presso il pubblico con mezzo elettronico. Cioè tramite siti web, mailing list, canali IRC caratterizzati dal titolo comune “Il pensiero imbavagliato”. Il tutto, senza appartenere alla casta dei giornalisti o – peggio – senza averne mendicato la protezione offerta dall’istituto della “direzione responsabile”.

Lo si accusa, in altri termini, di non avere “rispettato” la categoria. O, se preferite, di avere tentato – crimine atroce – di usare uno strumento per far sentire la propria voce anche al di la dei ristretti confini spaziali e culturali del mondo in cui vive.
Chi potrebbe mai innalzarsi a tutelare un delinquente di simile schiatta?
L’atrocità del gesto non trasforma il processo in un mero adempimento amministrativo, in una tappa necessaria prima di poter spalancare le porte del carcere?

Eppure l’azione delll’imputato non è priva di ragioni.
Egli potrebbe abbarbicarsi al dato testuale della norma e sostenere bizantinisticamente che nella diffusione in rete le informazioni “migrano” da supporto a supporto e non sono cedute come “incorporate” in qualche medium. Per cui, in assenza del “veicolatore fisico” non ci sarebbe “prodotto editoriale” e dunque non ci sarebbe violazione di legge per carenza di tipicità.
Oppure potrebbe invocare a propria discolpa che ha fatto ciò che ha fatto seguendo un’interpretazione normativa sostenuta anche da eminenti uomini politici – ma evidentemente divergente dalle convinzioni di questa procura della Repubblica – che subordina l’applicabilità della legge e dei suoi rigori all’esercizio di attività economica o imprenditoriale.

Oppure ancora, all’altro estremo, il “giustiziando” potrebbe cercare di frapporre fra sé e la pena l’oggettiva incertezza nella comprensione di una legge superficiale, tecnicamente carente e culturalmente preistorica. Che troppo lascia all’interpretazione e troppo poco alla certezza del diritto. Specie a fronte del colpevole silenzio del legislatore che prima fa danni e poi cerca di rimediare con “dichiarazioni politiche” notoriamente non annoverabili fra le fonti del diritto.

Potrebbe inoltre far rilevare l’imputato come sia quantomeno curioso che la violazione di una norma penale dipenda soltanto dalla contemporanea presenza di semplici requisiti formali. Vale a dire un nome e di una ricorrenza nella pubblicazione dei contenuti. Se veramente così fosse, per andare esenti da pena basterebbe eliminare uno dei due requisiti (o entrambi, perché come è noto, quod abundat non vitiat) e fare, come si dice, “fesso e contento” il legislatore. Se così veramente fosse, però, saremmo al cospetto non di una legge ma di un calembour da salotto.

Invocando Giustizia, l’imputato avrebbe infine anche motivo per chiedere il rispetto della Costituzione e dei diritti della persona. Considerato che non sta scritto da nessuna parte che per manifestare il proprio pensiero bisogna essere in possesso di una tessera o di appartenere ad un ordine.
Certo, l’imputato potrebbe fare tutto questo e anche altro, con possibilità di successo – cioè di assoluzione – non trascurabili.
Ma rinuncia, per ottenere il triste primato di essere il primo soggetto condannato nell’Italia repubblicana per avere esercitato un diritto garantito dalla Costituzione.
Avanti il prossimo.

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