Vendere CD copiati? Per il tribunale di Roma è lecito se serve a sopravvivere

di Andrea Monti – PC Professionale n. 121

Il 15 febbraio 2001 con una sentenza che farà sicuramente discutere, il tribunale penale di Roma ha assolto un extracomunitario sorpreso a vendere CD abusivamente duplicati perché – secondo il giudice – il fatto sarebbe stato commesso “in stato di necessità”. Cioè in quella condizione particolare prevista dall’articolo 54 del codice penale per la quale non può essere condannato, chi commette un reato per evitare un danno grave alla persona.

Estendendo parecchio questo concetto, il magistrato ha ritenuto che “Quanto ai venditori di cd per strada è fatto notorio che trattasi di soggetti privi di lavoro, in condizioni spesso di schiacciante subordinazione… Si aggiunga che dalle carte processuali non emergono elementi per dedurre che il prevenuto avesse altre forme di sussistenza e si può, quindi, presumere che la vendita del prevenuto oggi incriminato sia fatta esclusivamente per il proprio sostentamento vitale. Nel caso di specie è innegabile che il venditore di cd è un extracomunitario che agisce spinto dal bisogno di alimentarsi.”

Per quanto umanamente condivisibile, tuttavia, il ragionamento del giudice deve essere valutato con estrema cautela. Soprattutto per evitare il diffondersi della convinzione – errata – che basti invocare un disagio economico (anche modesto) per “giustificare” la commissioni di atti illeciti. Lo stato di necessità è infatti una condizione che deve essere provata in modo estremamente rigoroso e che sicuramente non si applica a chi sostiene di essere costretto a copiare perché il software “costa troppo”.

Ma l’aspetto più interessante della sentenza riguarda una importante “dichiarazione di principio”, e cioè la “presa d’atto” da parte di un tribunale del mutato rapporto fra la collettività e il diritto d’autore.

Scrive il giudice: “Nel caso di specie la norma repressiva di base, la protezione penalistica – e non meramente civilistica del diritto d’autore – è desueta di fatto per l’abitudine di molte persone di tutti i ceti sociali, che, in diuturnitas, ricorrono all’acquisto di cd per strada o li scaricano da Internet. Anche grossi network come Napster si sono mossi da tempo in senso anticopyright e hanno permesso copie di massa dell’arte musicale. Fenomeno appena sfiorato dalle recenti sentenze degli USA che si sono espresse nel senso di regolamentare la materia della riproduzione di massa, ma con un pagamento ridottissimo in un nuovo mercato dove il guadagno dei produttori è quantificato su “minimi diffusissimi”. In linea con questa strategia si è espresso recentemente il Parlamento europeo con la direttiva per “la protezione del diritto d’autore nella società dell’informatica” avanzando al più l’ipotesi di un equo compenso per gli autori per la diffusione globale della loro opera.”

In altri termini, sembra voler dire il giudice, lo sviluppo della rete e la creazione di abitudini sociali nuove, hanno posto i titolari dei diritti d’autore di fronte alla necessità di modificare i modelli di business dai quali traggono utili economici. Il sistema basato sulle royalty da percepirsi sulla cessione in licenza di musica, film, programmi e testi è semplicemente inadatto a logiche di mercato che sperimentano nuove forme di applicazione del diritto d’autore (come ad esempio il freeware e l’open source).

Ancora una volta, il ragionamento è sicuramente suggestivo, ma da qui a legittimare la violazione dei diritti d’autore ce ne corre. E’ vero, infatti, che al mutare del sentire sociale deve corrispondere un cambiamento della legge. Ma è altrettanto vero che questo cambiamento non può avvenire senza avere predisposto adeguate cautele e salvaguardie per gli operatori del settore, che hanno tutto il diritto di essere ricompensati per il loro operato. Ma resta da capire il “come” raggiungere questo obiettivo.

Una possibile soluzione potrebbe essere l’estensione del pagamento “a monte” di un equo compenso per la copia privata – già previsto dalla legge per i supporti vergini – al hardware e agli apparati di registrazione.

E’ vero che in questo modo anche chi non ascolta musica o vede film si trova a “pagare per gli altri”.

Ma come si dice, mal comune, mezzo gaudio.

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