“Fare informazione” e “dare informazioni” sono cose diverse

Interlex n. 205

di Andrea Monti

E’ abbastanza facile naufragare nel mare di polemiche suscitate dalla famigerata legge 62/01, specie perché gli argomenti si sovrappongono disordinatamente, aumentando la confusione invece di eliminarla. Mi riferisco in modo particolare alla continua artificiale contrapposizione fra “informazione professionale” (quella dei giornalisti) e “informazione non professionale” (quella del resto del mondo). Contrapposizione nella quale la prima dovrebbe prevalere sulla seconda, sulla base della (presunta) migliore qualità offerta dai giornalisti, delle maggiori garanzie per il pubblico derivanti dalla “vigilanza”, della protezione offerta dal sindacato nei confronti degli “sfruttatori”. Quasi che tutto ciò che non proviene da un iscritto all’Ordine non abbia “dignità informativa”.

Se questo discorso può andare bene a chi vuole fare il giornalista (ma non mi sembra che ci sia omogeneità di opinioni anche all’interno della categoria), tuttavia non significa attribuire validità più ampia al teorema: “al giornalista il monopolio dell’informazione”. La conseguenza – o meglio, il non sequitur – delle premesse è una generalizzazione indebita sotto il profilo dell’argomentazione e inaccettabile dal punto di vista dei diritti di libertà.
Per non parlare poi di quanto sia francamente riduttivo e offensivo negare valore al preziosissimo lavoro svolto da chi ha l’unica colpa di avere un tesserino numerato.

Ovviamente non si tratta di innescare per l’ennesima volta la polemica sul ruolo e la funzione dell’Ordine dei giornalisti, con tutto quello che ne segue. Si tratta, più modestamente, di prendere atto che le mutate condizioni sociali e culturali – queste, e non l’internet – hanno ampliato da un lato il numero delle persone che “hanno qualcosa da dire” e dall’altro creato un terreno fertile per esercitare dei diritti fondamentali che, fino a non molto tempo fa, rimanevano confinati nelle pagine dei manuali di diritto costituzionale.
Ora, mentre nessuno nega al giornalista il diritto di fare informazione, non si capisce perché dovrebbe essere impedito a chiunque di dare informazioni (a condizione, beninteso, che sia possibile individuarne l’autore). E non si capisce perché la valutazione di una sentenza compiuta da un avvocato debba avere inferiore dignità rispetto a quella proposta da un giornalista, anche se non dotato di specifiche competenze sul punto.

Messa in questi termini, allora, la questione non riguarda più tesserini, ordini e provvidenze, ma il grado di preparazione specifica di chi scrive su un certo argomento. E allora, se cerco informazioni sul funzionamento di un certo apparato le vado a cercare nei luoghi in cui i tecnici del settore danno informazioni. Non perchè vogliono giocare a “piccoli giornalisti crescono”, ma perchè semplicemente migliorano le proprie conoscenze tramite la condivisione del sapere. Ma questa preziosissima opportunità è sempre più minacciata non solo da chi ha paura di perdere i propri privilegi e di “rimettersi in discussione”, ma anche da chi, per la smaccata protezione di interessi di parte, sta cercando di mettere il bavaglio a tutto ciò che è informazione indipendente. Mi riferisco – per essere precisi – alla lobby del software e dell’audiovisivo, che è praticamente riuscita a far approvare un vero e proprio arsenale sanzionatorio contro chi commette l’”atroce reato” di diffondere e condividere informazioni tecniche sui sistemi di sicurezza informatica (basta dare un’occhiata alla legge sul diritto d’autore e all’art. 29 del DDL 816/01 in discussione al Senato).

Ebbene, la sfida che ci troviamo di fronte per quanto riguarda la informazione è riuscire a garantire la tutela dei diritti civili, dei diritti costituzionali, e quindi fondamentalmente della libertà di manifestazione del pensiero, anche e soprattutto per chi non può farsi scudo dell’appartenenza ad un ordine.
 

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