L’iniquo compenso. Tassa ingiusta sulla musica liquida legale

Quanti si sono accorti che quando compriamo un computer, un masterizzatore o una memoria di massa una parte del prezzo è indicata come “equo compenso”? E quanti, fra quelli che se ne sono accorti, hanno realmente capito di cosa si tratta?
di Andrea Monti – Audioreview febbraio 2017

Nella lotta infinita alla “pirateria multimediale” (termine fuorviante per indicare l’utilizzo non autorizzato di opere protette) e su pressione delle major dell’audiovisivo, fin dal 1992 e negli anni a seguire, il Parlamento ha inserito nella legge sul diritto d’autore il cosiddetto “equo compenso” (volgarmente noto come “tassa sui supporti”) che è un pagamento anticipato del diritto d’autore a fronte della copia-fai-da-te di musica e video.
Questa norma si è resa necessaria perchè, come ricorderete dalla lettura dell’articolo pubblicato sul numero di gennaio 2017, siamo i proprietari soltanto dei supporti che contengono la musica che acquistiamo e non della musica in quanto tale. Questo significa che se intendiamo duplicare il “nostro” disco, dovremmo pagare un’altra volta i diritti d’autore agli – passatemi il gioco di parole – “aventi diritto”.
Ma come si fa?
Oggi, con la musica liquida, gestire un pagamento del genere non sarebbe un problema insormontabile (anche se il concetto è inaccettabile, e vedremo perchè). Ma ai tempi della “musica solida” – essendo impossibile controllare gli acquirenti dei supporti – non si trovò di meglio che aumentare il prezzo di cassette, CD e DVD e degli strumenti di riproduzione in modo da ottenere un pagamento anticipato. In altri termini, se si copia(va) un’opera audiovisiva (da un supporto o da un’emittente radiotelevisiva) su un supporto vergine, i diritti d’autore erano già stati pagati e la copia era perfettamente lecita perchè il titolare dei diritti aveva già ricevuto il proprio compenso.
Quando si è manifestata la possibilità di registrare le canzoni su hard disk, schede e chiavette l’approccio riservato a nastri e CD è stato applicato in modo automatico anche ai nuovi supporti. I diritti d’autore continuarono a fruttare e gli autori vissero felici e contenti…
Fine della favola, inizio della cruda realtà.
L’equo compenso (che meglio sarebbe chiamare “iniquo”) è una misura intrinsecamente sbagliata e lesiva dei diritti degli audiofili onesti che pagano la musica che ascoltano e non ferma i “portoghesi” del suono che mai hanno pagato, e mai lo faranno, per il diritto di ascoltare.
Se è vero, come è vero, che quando acquisto un disco acquisto il diritto di ascoltarne il contenuto, non c’è scritto da nessuna parte che per fare una copia ad uso personale (per esempio per evitare di danneggiare l’originale, o per sentire i file su un player di rete o portatile) devo pagare nuovamente. Il diritto di fruizione dell’opera è attribuito alla persona e non al numero di sorgenti audio che utilizza per goderne, e dunque non si capisce perché si dovrebbe pagare l’iniquo compenso. L’iniquo compenso, infatti, nasceva per “risarcire” i titolari dei diritti per le registrazioni di trasmissioni radiotelevisive o per la copia eseguita da un supporto appartenente a qualcun altro (la classica duplicazione della cassetta) e non per la copia privata da originale, che è sempre lecita.
Inoltre, non è affatto detto che se acquisto una memoria digitale la utilizzerò per caricarla di musica liquida. E dunque non è giusto pagare l’iniquo compenso anche su supporti non destinati alla musica.
Infine, non è detto nemmeno che io vada a caricare la memoria digitale di musica a “listino SIAE”, perché potrei scegliere di ascoltare pezzi distribuiti direttamente dagli autori, o semplicemente di artisti che non hanno nulla a che vedere con la nostra “royalty collecting agency”.
Un momento… che c’entra ora la SIAE con l’iniquo compenso?
C’entra, c’entra eccome, perchè l’enorme quantità di soldi generata dall’iniquo compenso finisce grandemente nelle casse della SIAE, e poco importa se il flusso di denaro sia generato da memorie usate per il backup di dati aziendali, o di canzoni scritte da musicisti indipendenti. Anzi, questi ultimi non vedranno mai un centesimo dei proventi dell’iniquo compenso perché, non facendo parte della SIAE, non hanno diritto alla loro fetta di torta.
La morale della storia, dunque, è che continuiamo a pagare più di quanto dovremmo, degli oggetti che potrebbero costare molto meno, e che molti autori non ricevono la loro quota di (doppiamente) iniquo compenso.
Ma in questa storia c’è un lato paradossale che le major dell’audiovisivo non amano che sia evidenziato: l’iniquo compenso mette in discussione il concetto che scaricare musica online sia vietato.
Il ragionamento è molto lineare: come detto, l’iniquo compenso è un pagamento anticipato dei diritti d’autore per la copia di un’opera della quale non necessariamente si è proprietari del supporto originale. Se questo è vero, allora non importa se duplico il CD prestatomi da un amico, o se scarico sull’hard-disk della musica trovata in rete. I diritti d’autore sono già pagati grazie all’iniquo compenso sulle memorie di massa, e dunque scaricare musica non può essere in violazione del diritto d’autore. Questo, però, a condizione che il supporto di memoria sia stato acquistato o commercializzato in Italia e dunque assoggettato all’iniquo compenso. Diversamente, cioè se i supporti di memoria sono acquistati all’estero, scaricare musica senza avere gli originali torna ad essere un atto illegale.
Siccome, però, è abbastanza complesso tracciare la provenienza di tutti i supporti di memorizzazione utilizzati in Italia, sarebbe logico abolire l’iniquo compenso in modo da rimettere automaticamente fuori legge ogni atto di riproduzione eseguito senza possedere l’originale. I titolari dei diritti potrebbero così continuare la loro guerra ai “pirati” e gli audiofili onesti potrebbero tutelare adeguatemente i loro investimenti in musica liquida o liquefatta (cioè digitalizzata da vinile).
Certo, questo significherebbe per i titolari dei diritti dover rinunciare alla (sicura) quantità di soldi derivante dall’iniquo compenso, e affidarsi agli (incerti) esiti dei processi per duplicazione abusiva.
Secondo voi cosa accadra?

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