C’è un filo rosso che collega i tentativi (finiti male) di modernizzare il rapporto fra Stato e Cittadini grazie alle tecnologie dell’informazione: l’abuso cieco della tecnologia commesso dal legislatore e dall’esecutivo a danno degli istituti giuridici dei quali si voleva consentire la fruizione online.
di Andrea Monti – Interlex del 9 gennaio 2017
Le vicende legate all’inviluppo della firma digitale e della carta di identità elettronica sono, da questo punto di vista, realmente paradigmatiche perché sono state caratterizzate dalla confusione sistematica fra identità e identificazione.
Ho scritto diversi articoli sul tema dell’identità personale e della progressiva privatizzazione dei criteri e dei metodi (uso la parola “metodi” con un fine preciso) per certificarla. Volutamente, ho parlato e parlo di identità tout-court e non di identità “virtuale”, “online” e di altri “aggettivi 2.0” perché da un punto di vista giuridico il soggetto è uno (la persona), e una è la sua identità a prescindere dal metodo che viene utilizzato per verificarla.
L’identificazione è un atto giuridico, non un fatto tecnico, e in quanto tale non ammette “gradazioni”: quando un poliziotto mi ferma per un controllo documenti o quando stipulo un contratto delle due l’una: o io sono io, oppure non lo sono. Il tertium genus, nel diritto, non esiste.
D’altra parte, è un fatto che le teorie giuridiche dell’identità e dell’identificazione sono state pensate in un periodo storico dove lo Stato aveva avocato sé il controllo sociale e l’identificazione del cittadino obbediva, innanzi tutto, a logiche di ordine pubblico riservando ad ambiti ristretti il ricorso alla “identificazione certa” tramite pubblico ufficiale (tipicamente, compravendite immobiliari e poco altro).
Questo status quo era il prodotto di (o era stato causato da) un sistema economico nel quale gli scambi avvenivano a velocità, frequenza e intensità molto basse, e nei quali il fattore tempo aveva un’importanza relativa.
Chi ha vissuto almeno una parte dell’età adulta nel mondo pre-internet ricorda bene quanto fosse normale “ordinare” un prodotto in un negozio e aspettare settimane prima di poterlo ricevere. C’era tutto il tempo per negoziare i termini dell’acquisto, stabilire i modi del pagamento e – sopratutto – per “guardarsi in faccia”. Breve: le dinamiche economiche dell’epoca non richiedevano regole giuridiche in grado di gestire le transazioni alla velocità della rete.
L’arrivo dell’e-commerce e della possibilità di fruire online di servizi tradizionali e di nuove opportunità ha sconvolto la continuità giuridica, inserendo il fattore tempo nell’equazione della compravendita. Tutto è più veloce, se non addirittura istantaneo e in una ipertransazione giuridica non c’è tempo per timbri a secco e copie conformi.
Ancora una volta – anzi, fin dall’inizio – è Amazon a fare scuola: struttura il processo di acquisto su una identificazione forte, ma realizzata con sistemi leggeri (la carta di credito, come sostituto di quella di identità, incrociata con l’indirizzo di residenza e consegna dei prodotti ordinati).
Viceversa (vedi il caso di SPID, ma prima ancora il tentativo di far passare per firma digitale l’uso delle credenziali di autenticazione) sempre più spesso ci troviamo di fronte a identificazioni deboli realizzate con strumenti (teoricamente) forti.
Posta la questione in questi termini, risulta allora evidente che nella gestione pubblica dell’identità digitalizzata siamo di fronte a un’inversione fra obiettivi e metodi: come amava ripetere spesso Giancarlo Livraghi “la coda agita il cane”.
Per poter affrontare seriamente il tema del “identificare con certezza” dobbiamo innanzi tutto essere disposti ad accettare un concetto di identità più articolato (per contenuti e finalità), lasciando però graniticamente fermo quello di identificazione.
Senza questo passaggio, di marca strettamente giuridica, il settore pubblico continuerà a sprecare tempo e soldi in una tela di Arianna fatta di firma digitale, carta d’identità elettronica, carta nazionale dei servizi e – da ultimo – di Sistema pubblico di identità digitale, senza riuscire a proiettare l’Italia – non dico nel futuro – ma almeno nel presente.
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