Dal betamax a Grokster: una sentenza americana “legittima” alcuni software peer-to-peer

PC Professionale – novembre 2004

Dal betamax a Grokster: una sentenza americana “legittima” alcuni software peer-to-peer
di Andrea Monti

Il 19 febbraio 2004 la Corte d’appello USA per il nono distretto si è pronunciata, nel processo intentato da Metro Goldwin Mayer e moltre altre major contro gli autori del noto software di file-sharing Grokster (il testo della decisione è reperibile su http://www.ictlex.net/index.php?p=404).

L’accusa mossa agli autori di Grokster era – in sintesi – quella di favorire la duplicazione abusiva di opere protette con la realizzazione e diffusione del software in questione. Avendo già incassato una sconfitta in primo grado, le major avevano presentato appello riproponendo, essenzialmente, le stesse ragioni della fase precedente.

Ma si è trattato di uno sforzo vano perché la corte superiore ha confermato la sentenza di primo grado applicando dei principi di diritto noti fin dal 1984 sul “problema” del chi sia responsabile per l’utilizzo a fini illeciti degli apparecchi di registrazione ( Sony Corp. of America v. Universal City Studios, Inc., 464 U.S. 417).
All’epoca le major dell’audiovisivo cercarono di far affermare la responsabilità del produttore degli strumenti di duplicazione (si trattava in quel caso dei videoregistratori Sony) ma, giustamente, senza successo. Nella causa Sony-Betamax, la Corte Suprema degli Stati Uniti affermò infatti che la vendita di videoregistratori non implicava una “complicità” nella duplicazione illegale, anche se il produttore era a conoscenza dell’uso non corretto dei suoi apparecchi.

Questo perché, argomentava la Corte, il prodotto in questione poteva essere usato commercialmente senza violare la legge. In altri termini, si diceva, un videoregistratore può essere utilizzato in modo assolutamente legale e pertanto il fatto che lo si possa “strumentalizzare” per fare altro non implica alcuna responsabilità per chi lo ha costruito o venduto.

Ragionamento analogo – scrive oggi la Corte d’appello – vale per Grokster che può essere usato in modo perfettamente lecito (attenzione, la decisione è chiara nel non generalizzare queste conclusioni a tutti i software per il peer-to-peer). “Un chiaro esempio di quanto sopra, fornito dai distributori di software”, si legge nella opinion del giudice Thomas, “è il caso del popolare gruppo musicale Wilco. La loro casa discografica si era rifiutata di pubblicare uno dei loro album ritenendolo privo di potenziale commmerciale. I Wilco hanno riacquistato i diritti dalla casa discografica e hanno distribuito l’opera tramite il loro sito e i network peer-to-peer. Gli esiti di questa operazione si sono tradotti in un nuovo contratto di registrazione per i Wilco”.

Dunque, dice la Corte d’appello, anche nel caso di Grokster siamo in presenza di un prodotto che può essere primariamente utilizzato in modo legale e quindi non può essere affermata la responsabilità di chi lo realizza e distribuisce. Non è dunque così semplice accusare chi scrive software di avere commesso quello che nel diritto americano è definito “contributory infringement”, perché secondo la consolidata giurisprudenza americana la responsabilità giuridica nasce dal momento in cui chi distribuisce il software ha ragionevole conoscenza della specifica violazione del diritto d’autore e non del fatto che qualcuno, tanti o pochi che siano, viola la legge.

La conseguenza è che le major che intendono “mettere in mezzo” l’autore di un software sono obbligate a fornire la prova dell’effettiva e concreta conoscenza del fatto che qualcuno, in un preciso momento, sta violando la legge. E a questo proposito, continua la decisione, si mostra di fondamentale importanza il modo in cui il Grokster – che può essere usato per ridurre gli elevati costi di distribuzione delle opere in pubblico dominio o di opere condivise – è stato progettato.

In breve: se lo scambio dei file avviene indipendentemente dalle possibilità di intervento del distributore del software, questi non può essere accusato di nulla. Si tratta di un principio giuridico non certo inventato dagli americani, visto che già ai tempi del diritto romano era consolidato il detto “ad impossibilia nemo tenetur” (nessuno è obbligato a fare cose impossibili).

Questa sentenza entra come un cuneo nel dibattito nascosto che, in questi tempi, si sta sviluppando in Italia riguardo le modifiche della legge Urb a n icioè di quello scandaloso e inutile provvedimento che complicava inutilmente la già farraginosa legge sul diritto d’autore con la scusa di “combattere la pirateria”.

Con buona pace di chi, come l’on. Cortiana (Verdi) riteneva che la legge sarebbe stata migliorata e che per questo aveva ritirato gli oltre 700 emendamenti che il “popolo della rete” gli aveva consegnato, voci insistenti parlano di un ulteriore giro di vite contro gli utenti. Questo vale in modo particolare per il ruolo degli internet provider che, pare, potrebbero addirittura essere costretti a rimuovere contenuti controversi a fronte di una semplice diffida proveniente dal sedicente titolare dei diritti d’autore.

C’è da sperare che chi sta scrivendo questa ennesima modifica alla legge sul diritto d’autore dia un’occhiata alla sentenza newyorkese prima di fare altri danni.

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