La Cassazione ha configurato come molestia o disturbo alle persone il fatto di aver scattato foto di nascosto a una donna in supermercato. Ma non esiste la privacy in pubblico di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech.
In altri momenti avrei cestinato questa immagine come inutilizzabile. Un altro scatto malriuscito, frutto di una scarsa padronanza della tecnica di messa a fuoco su una fotocamera a pellicola completamente manuale. Da qualche tempo, però, ho iniziato a cambiare atteggiamento nei confronti di questo tipo di immagini a causa dell’ondata di isteria sulla “privacy” che sommerge con violenza la street-photography.
In un caso la Cassazione ha configurato come molestia o disturbo alle persone (e non come “violazione della privacy”) il fatto di aver scattato foto di nascosto ad una donna in supermercato. Dalla lettura della decisione non si capisce se chi le ha realizzate stesse pedinando la persona offesa e per quale ragione,rimane tuttavia il punto che ad essere stato considerato illecito è il comportamento, secondo quanto prevede l’articolo 660 del Codice penale, posto in essere per “petulanza o per altro biasimevole motivo”. Ma la fotografia di strada non ha nulla a che fare con azioni criminali di questo o di altro genere: c’è un’enorme differenza tra provocare disturbo o realizzare immagini che possono imbarazzare persone se pubblicate, anche online, magari a fini di lucro, e cercare di catturare schegge di vita quotidiana per raccontare una storia.
Inoltre, non c’è privacy in pubblico: la Corte di cassazione si è pronunciata molte volte su questo tema (ad esempio, con le sentenze 40577/2008, 4765/2010 e 4556/2012);* e come se non bastasse, bisogna ricordare che un autore —sì, la legge sul diritto d’autore afferma che una fotografia creativa conferisce al fotografo questo status giuridico— ha il diritto di rendere il proprio lavoro disponibile al pubblico. Ciò significa che, anche in termini di conformità al temuto “GDPR”, la pubblicazione di opere di street photography ha una base giuridica nei diritti che la legge sul copyright attribuisce al fotografo.
Tuttavia, l’atteggiamento quasi superstizioso nei confronti delle immagini, permette alle persone e —peggio— agli “esperti di GDPR” di criticare questo modo di documentare la nostra vita (che è cosa diversa dal mettere in pubblico la vita privata propria e altrui). Di conseguenza, il rischio di essere coinvolti in controversie legali o discussioni (pur infondate) è molto alto se non ci si chiama Joel Meyerowitz, Zun Lee o Girma Berta .
Pragmaticamente dunque, per “il resto del mondo”, questo significa cambiare il modo di fare fotografia di strada, scattando immagini sfocate, grandangoli in cui le persone sono irriconoscibili e così via. A volte si tratta di una scelta stilistica o di un modo per sperimentare altri linguaggi visivi, ma oggi “sfocare le persone” comincia a diventare una necessità. Triste, ma vero.
Il danno che l’isteria della privacy e la cultura del whitewashing arrecano alla conservazione della nostra memoria sociale come forma di creazione di un patrimonio per le generazioni future è sconcertante.
La colpa non è di un singolo individuo, ma dell’imbarbarimento della nostra società nel suo complesso che non riconosce più valore al ricordo e all’importanza di capire “come eravamo”, favorito da una lettura miope delle leggi sulla protezione dei dati personali che sono state surrettiziamente trasformate in una macchina per la censura.
Invece di punire chi abusa dei diritti fondamentali scattando foto illegali o riutilizzandole in violazione di legge, vengono presi di mira i fotografi in buona fede che scattano foto per lavoro o per autentici motivi culturali. Questo è semplicemente sbagliato.
Naturalmente, se a qualcuno non piace essere fotografato, ha tutto il diritto di chiedere che la foto non venga scattata o condivisa. Rispettare questa richiesta è una questione di deontologia, ancor prima che un obbligo giuridico.
È questa la differenza tra un uno street-photographer e un criminale, o un idiota che scatta foto stupide in modo stupido per diffonderle —stupidamente— sul proprio stupido profilo social.
* Le sentenze citate nell’articolo sono reali, non inventate da un’AI generativa.
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