Paesi banditi, compressione della libertà di manifestare il proprio pensiero, trattamenti sanitari, sovranità degli stati e potere delle istituzioni sportive. L’analisi di Andrea Monti, professore incaricato di Elementi di diritto e legislazione sportiva, Università di Chieti-Pescara – Originariamente pubblicato da Formiche.net
Anche l’edizione Tokyo 2020 delle Olimpiadi ha avuto la sua quota di impatto geopolitico sullo scacchiere internazionale. Si sono registrati i “soliti” casi di contrasti nazionalistici, richieste di asilo politico, e rivendicazioni di minoranze oppresse o discriminate e di rispetto della dignità umana.
Se da un lato gli atleti hanno sempre usato la ribalta olimpica per mandare messaggi politici, le istituzioni sportive avevano interpretato in modo (relativamente) discreto il proprio ruolo (geo)politico. Oggi non è più così e la governance internazionale post-westfaliana acquista un nuovo interlocutore. Tre temi meritano di essere approfonditi per comprendere il nuovo scenario.
IL BANDO DALLA PARTECIPAZIONE ALLE OLIMPIADI COME SANZIONE INTERNAZIONALE
Il primo tema è il bando di quattro anni dalle competizioni internazionali applicato dalla World Anti-doping Associtation (WADA) alla Russia e la sua successiva riammissione di fatto dopo una decisione della Court of Arbitration for Sport che ha dimezzato la durata del bando e consentito agli atleti di gareggiare sotto l’egida del Comitato Olimpico Russo invece che sventolando la bandiera nazionale.
Fino a quando un Paese decide di boicottare i Giochi lo fa, evidentemente, nell’ambito delle proprie prerogative sovrane e di politica estera. Situazione profondamente diversa è quella di un’istituzione sportiva che decide non se un singolo atleta ma se una nazione in quanto tale possa o meno partecipare alle Olimpiadi. Il problema, per essere chiari, non è la squalifica della Russia (l’Iran, per esempio, potrebbe subire un destino analogo) ma il fatto che sia stato squalificato uno Stato sovrano. Detta in altri termini: il bando olimpico diventa a tutti gli effetti una sanzione anche se non dichiarata secondo le regole del diritto internazionale che si inserisce a pieno titolo nella procedura di escalation delle relazioni fra Paesi.
LA COMPRESSIONE DELLA LIBERTÀ DEGLI ATLETI DI MANIFESTARE IL PROPRIO PENSIERO
Il secondo tema è la decisione del Comitato Olimpico Internazionale di vietare agli atleti il sostegno a cause politiche o umanitarie limitando in questo modo diritti umani come quello di manifestazione del pensiero e di espressione.
Nessuna democrazia occidentale potrebbe limitare i diritti fondamentali dell’individuo senza delle garanzie sull’eccezionalità della misura e sulla disponibilità di rimedi efficaci contro possibili abusi. Questo impedisce la censura e l’adozione di metodi repressivi da parte delle forze di polizia di un Paese. Se questo è vero, diventa complicato sostenere l’esistenza di un diritto del Comitato Olimpico Internazionale che giustificherebbe la compressione della libertà di manifestazione del pensiero degli atleti rispetto a temi di impegno civile e politico.
L’IMPOSIZIONE DI TRATTAMENTI SANITARI COME CONDIZIONE PER GAREGGIARE
Il terzo tema, delicatissimo e collegato al precedente, è quello dell’identità di genere che si potrebbe anche chiamare, nel caso specifico, “parità genetica” che coinvolge la dignità umana.
Due sono i casi rilevanti: l’ammissione di un’atleta transgender alle Olimpiadi, costretta ad abbassare artificialmente il testosterone naturalmente prodotto, e quello (speculare rispetto al precedente) della velocista sudafricana Caster Semenya, inizialmente, ingiustamente e incredibilmente “condannata” dalla giustizia sportiva per via del proprio patrimonio genetico, e dunque ad abbassare artificialmente i livelli di testosterone naturalmente prodotto che la rendono più forte delle altre atlete.
Consentire di gareggiare solo a chi, trovandosi in certe condizioni, accetta di sottoporsi a un trattamento sanitario (di fatto) obbligatorio è una palese violazione della dignità della persona e a prescindere dal fatto che serva per consentire a un’atleta transgender di competere con le donne, o alle altre atlete per competere “alla pari” con una donna dotata di un corredo genetico che la rende più forte.
ISTITUZIONI SPORTIVE ED ESERCIZIO DELLA SOVRANITÀ POLITICA
Anche limitandosi all’analisi di questi casi e senza entrare nel dettaglio di molti altri aspetti — come per esempio il valore politico della scelta di quale sport includere o escludere dalla competizioni olimpiche — è evidente che ha perso significato (se mai ne ha avuto) la narrativa dello “spirito olimpico” oggi sostituita da una visione basata sulla realpolitik se non addirittura sulla machtpolitik.
È importante ricordare, infatti, che le Olimpiadi moderne sono un’invenzione ottocentesca, non hanno alcuna relazione con quelle greche e che praticamente da subito il Comitato Olimpico Internazionale stabilì relazioni istituzionali con i vari Paesi fino a realizzare una commistione di fatto fra il livello politico e quello sportivo.
Un altro elemento da considerare è la sostanziale autonomia normativa che caratterizza l’ordinamento sportivo. Le regole del mondo dello sport dilettantistico (quello che, dunque, ha come riferimento le Olimpiadi) sono state considerate per lungo tempo come “irrilevanti” per l’ordinamento giuridico statale. In altri termini, allo Stato non interessa perché nel rugby la palla si passa solo indietro o perché nel tennis esiste il doppio fallo e dunque se ci sono controversie che vengano risolte lontano dai tribunali.
Questa impostazione è drasticamente cambiata nel corso del tempo e non si parla di totale autonomia dello sport olimpico dalle regole statali. Rimane tuttavia il fatto che, come dimostrano gli esempi appena citati, l’autonomia (pur relativa) delle istituzioni sportive consente di imporre delle regole che una democrazia occidentale avrebbe difficoltà ad accettare.
CONCLUSIONI
In prima approssimazione, dunque, è possibile provare a mettere dei punti fermi.
È certamente vero, riprendendo la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici di Santi Romano, che quello sportivo è pienamente legittimato a regolare in modo autonomo i soggetti che scelgono di farne parte.
È altrettanto ragionevole che i principi gli aspetti legati alla competizione siano gestititi in piena autonomia.
Quello che diventa sempre meno facile accettare è l’estensione del potere delle istituzioni sportive verso ambiti che dovrebbero essere loro preclusi. È chiaro che, come detto, gli Stati sono pienamente coinvolti nella gestione del movimento olimpico e che sarebbe alquanto ingenuo pensare che non se ne servano nell’ambito di strategie più ampie delle relazioni internazionali. È, tuttavia, discutibile e preoccupante che questo potere di fatto venga utilizzato anche per intervenire in ambiti, come i diritti fondamentali, dove la centralità della dialettica fra Stato e cittadino è l’unica sede possibile.
Il rischio è, in sintesi, quello dell’ennesimo spostamento dell’esercizio della sovranità dai parlamenti verso sedi non istituzionali e dunque, in definitiva, quello di una compressione degli spazi di democrazia
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