La notizia dell’esecuzione di presunti accessi non autorizzati a banche dati a disposizione dell’autorità giudiziaria e della asserita messa a disposizione di testate giornalistiche dei risultati ha (ri)prodotto l’ennesimo dibattito sui limiti del (o al) giornalismo investigativo in rapporto alla libertà di stampa.
Anche in questo caso non si è fatta attendere la polarizzazione alla “Coppi-Bartali”, ma le posizioni si sono radicalizzate in modo abbastanza confuso e, a volte, semplicistico, sovrapponendo piani diversi in termini di responsabilità e diritti.
Dunque, da un lato si schierano i sostenitori del diritto “assoluto” della stampa di raccogliere e pubblicare qualsiasi notizia che riguardi i fatti del potere a prescindere da come sia stata raccolta, che si contrappongono ad altrettanto irriducibili difensori del diritto “assoluto” alla privacy e/o a “quelli che” la libertà di stampa non può estendersi fino a giustificare la commissione di reati.
Non esistono i diritti “assoluti”
Per orientarsi in questo dibattito è necessario partire da un punto fermo: non esistono “diritti assoluti” perché ogni diritto può essere compresso —o addirittura negato— a seconda delle necessità.
Questa può sembrare un’affermazione controintuitiva, ma diventa difficilmente contestabile se si pensa che persino il diritto alla vita è negoziabile, considerato che, per esempio, l’omicidio per legittima difesa non è punito. Tuttavia, negli ultimi anni si è consolidata la tendenza all’assolutizzazione dei diritti, tra cui appunto la privacy e la libertà di espressione, trasformati in feticci e considerati spesso inviolabili a discapito di altri potenzialmente confliggenti e altrettanto meritevoli di tutela.
Questa convinzione (sbagliata) si estende anche alla libertà di stampa, e in particolare al giornalismo investigativo e alle attività di debunking, dove è percepita come un diritto senza limiti o responsabilità.
Costituzione e libertà di stampa
La Costituzione italiana tutela certamente la libertà di stampa e di espressione, ma non al punto di legittimare la commissione di reati. L’attività giornalistica, infatti, non gode di libertà “assoluta”, essendo anch’essa sottoposta ad una serie di limiti normativi che vanno dal controllo dell’accesso alla professione (solo gli iscritti all’albo possono esercitare attività giornalistica), al dovere di controllo della legittimità delle notizie (da cui l’obbligo della presenza di un direttore responsabile), alla responsabilità civile e penale per le conseguenze della pubblicazione di una notizia che non doveva essere riportata, o che non doveva essere riportata in determinati modi (da cui l’applicabilità delle norme sulla violazione dei segreti, sulla diffamazione e sui discorsi d’odio).
Giurisprudenza e responsabilità del giornalista
Se, anche per via delle sentenze che si sono succedute nel corso degli anni, è relativamente semplice decidere se una notizia poteva o non poteva essere pubblicata, non si può dire lo stesso per il modo in cui la notizia è stata raccolta. Stiamo parlando, in altri termini, di tre annosi problemi: i limiti del segreto professionale giornalistico, il dovere di proteggere le fonti, e la possibilità di invocare qualche causa di non punibilità per la commissione di reati finalizzati a raccogliere informazioni necessarie a scrivere articoli.
In sintesi, come pure hanno rilevato alcune sentenze (l’ultima, della Cassazione, è la 36407/23 pubblicata il 31 agosto 2023), il punto è che la ricerca di notizie non giustifica la commissione di reati (i casi decisi dai giudici riguardavano l’insistenza ritenuta molesta di giornalisti che, non rispettando la volontà dell’intervistato di non rilasciare dichiarazioni continuavano a fare domande, il trattenersi in una proprietà privata contro la volontà del proprietario e l’acquisizione di informazioni frutto di attività illecita).
È chiaro che questa giurisprudenza riguarda in modo particolare il giornalismo investigativo, che si trova spesso a dover mettere sul piatto della bilancia il rispetto della legge e delle norme professionali e, sull’altro, la necessità di rivelare scandali finanziari o complotti politici, rischiando di finire in un’area grigia tra legalità e ricerca della verità.
Leggi e indagini (giornalistiche)
Il quadro normativo italiano, anche se non la nomina esplicitamente, impone specifici limiti all’attività giornalistica in termini di raccolta informazioni.
Secondo il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, solo gli investigatori privati con licenza prefettizia sono autorizzati a raccogliere informazioni su persone e fatti. Questa prerogativa è circoscritta principalmente ad indagini patrimoniali e sull’infedeltà di coniugi e dipendenti e può estendersi in ambito penale solo se commissionata da un avvocato ed eseguita da un investigatore dotato di una licenza specifica. Gli avvocati, insieme ai magistrati e alle forze di polizia, sono le altre figure a cui è legalmente consentito svolgere indagini nell’ambito di procedimenti penali.
La legge quindi delinea un ambito ristretto di soggetti autorizzati a svolgere indagini, mettendo in evidenza i limiti formali e sostanziali che consentono di comprimere, pur se con forze differenti, i diritti delle persone.
I giornalisti, dunque, possono senz’altro cercare notizie ma non hanno un potere espressamente attribuito dalla legge di indagare per l’accertamento di fatti o costruire archivi su persone. Se questa distinzione può essere (abbastanza) chiara in teoria, non lo è altrettanto in pratica perché non è semplice tirare una linea che separi la “mera” attività di cronaca da un’indagine con tutti i crismi. Il che crea una difficoltà evidente se si affronta la questione dal punto di vista dei limiti del segreto professionale del giornalista.
Quanto è robusto il segreto professionale del giornalista?
A differenza del segreto professionale dell’avvocato —che rende inutilizzabili le eventuali intercettazioni delle comunicazioni con l’indagato e limita rigidamente le perquisizioni negli studi professionali— quello del giornalista non vieta ad un pubblico ministero di eseguire indagini sulle fonti, né a un giudice di ordinare al professionista di rivelare il modo in cui si è procurato la notizia.
Dunque spetta solo al giornalista tutelare chi gli fornisce informazioni tramite una serie di misure operative che possono rendere più difficile identificare la fonte confidenziale. Dall’altro lato, egli deve decidere se mantenere il silenzio davanti al giudice, rischiando a propria volta un’imputazione penale.
Piattaforme per il whistleblowing. Pezza peggiore del buco?
Una soluzione “all’italiana” potrebbe essere quella, peraltro abbastanza diffusa, di predisporre sistemi per ricevere segnalazioni anonime che non consentono di rintracciare il mittente.
I tradizionali metodi, come i plichi lasciati nella buca delle lettere di una redazione o l’altrettanto classica telefonata con la voce alterata, hanno lasciato il posto a piattaforme e servizi di posta elettronica che rendono sostanzialmente non tracciabile il messaggio ricevuto. Utilizzando questi sistemi, una testata giornalistica potrebbe difendersi eccependo —correttamente— che una volta venuta a conoscenza di una notizia ha il diritto di pubblicarla se la notizia si rivela fondata, e che non avendo contribuito attivamente a cercarla non ha modo di sapere se sia stata acquisita violando la legge.
Ancora una volta, tuttavia, il diavolo è nei dettagli.
Se la “soffiata” riguarda un segreto di Stato o la diffusione di informazioni ancora coperte dal segreto istruttorio penale, è difficile sostenere di non essersi resi conto che la fonte della notizia è un atto illecito.
Inoltre, applicando l’istituto giuridico del “dolo eventuale”, un inquirente zelante potrebbe arrivare a ipotizzare che avere messo in piedi una piattaforma per ricevere segnalazioni completamente anonime significa avere, implicitamente, voluto e accettato il rischio che qualcuno la utilizzasse per inviare anche informazioni acquisite illegalmente.
Anche in questo caso la testata potrebbe difendersi sostenendo che non c’è differenza fra ricevere una lettera anonima di carta o un messaggio tramite una piattaforma di leaks. Tuttavia, in realtà, una differenza pratica che potrebbe rendere non comparabili le due situazioni esiste. Nel primo caso, quello della lettera (o dell’email) anonima, è il “segnalatore” che contatta il giornale senza che quest’ultimo abbia fatto nulla per stimolare l’invio dell’informazione; mentre nel secondo è la testata che predispone attivamente le condizioni per ricevere (o istigare l’invio di?) di notizie illecitamente acquisite.
A questo si dovrebbe aggiungere anche il fatto che una informazione segreta non è necessariamente relativa alla commissione di reati o comportamenti inappropriati, ma può attenere —come nel caso dei cablo diplomatici— alla necessaria confidenzialità delle conversazioni fra Stati. I contenuti di queste comunicazioni sono, ovviamente, di grande interesse, ma non per questo possono essere liberamente ripubblicati.
In altri termini, “segreto” non equivale sempre a “illecito”.
Il convitato di pietra
È abbastanza evidente che non si può continuare a gestire caso per caso il tema della tutela delle fonti e quello del diritto a pubblicare notizie sui fatti del potere. Questo è uno di quegli argomenti che, effettivamente, richiederebbero un (peraltro non semplice) intervento normativo.
Sarebbe difficilmente difendibile, in termini costituzionali, una norma che rendesse tout-court non punibile il giornalista che commette reati per procurarsi notizie. Persino gli appartenenti ai nostri servizi segreti, ai quali la legge riconosce le cosiddette “garanzie funzionali”, non possono commettere qualsiasi reato e certamente non sono autorizzati a commettere omicidi.
Tuttavia, si potrebbe ragionare sull’estensione dell’attenuante già presente nel codice penale, che prevede una riduzione di pena se il fatto è commesso per motivi di particolare valore sociale o morale. Oppure si potrebbero prevedere trattamenti sanzionatori più favorevoli ai soli casi che riguardano la divulgazione di “fatti” illeciti del Potere.
Il presente
Sta di fatto che, ad oggi, sostenere che in nome del diritto di cronaca si può (o si deve) non rispettare la legge è semplicemente sbagliato. O, meglio, non si può pretendere di violare la legge in nome della propria visione del mondo e poi pretendere di non essere processati —processati, non direttamente condannati— per il fatto.
Un esempio chiarisce il senso di questa osservazione: siamo arrivati al divorzio e all’aborto —e un giorno avremo anche la legge sul fine vita— grazie all’impegno civile di persone che, in nome di un’idea, hanno consapevolmente violato la legge, accettando di farsi processare proprio per evidenziare la distanza fra le norme e il sentire comune e mettere in crisi il sistema.
Marco Pannella e i tanti esponenti del Partito Radicale che hanno condiviso quelle battaglie hanno rischiato in prima persona per indurre un cambiamento normativo che rispecchiasse i mutamenti della società.
Hanno denunciato l’ingiustizia di certe leggi, ma non si sono mai sottratti alle regole del gioco, il che è profondamente diverso dal rivendicare la disapplicazione della legge in nome della superiorità (reale o presunta) di una (propria) idea. È la differenza fra lo Stato di diritto, quello che in nome del quale Socrate non si sottrasse al processo e alla condanna; e quello etico dove, alla fine, l’unica regola è che le regole si applicano per gli altri e non per sé.
Il futuro prossimo venturo
Assorda, in questo periodo, il silenzio dell’Unione Europea che sta discutendo il regolamento sulla libertà dei media.
È vero, la UE non può occuparsi di materia penale e di aspetti legati alla sicurezza nazionale e dunque non potrebbe, pur volendo, stabilire dall’alto una tutela rafforzata per i giornalisti in casi del genere.
È anche vero tuttavia che, nell’interesse di tutti e alla luce dei fatti di cronaca, una riflessione più attenta sui temi come la definizione di “giornalista”, il rafforzamento del segreto professionale e una tutela estesa del ruolo sociale della stampa libera sarebbe altamente desiderabile.
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