Da sempre le “piattaforme” – come Youtube o Vimeo – sono nel mirino dei “titolari dei diritti” che le accusano di favorire la pirateria. E la UE ci crede.
di Andrea Monti – Audioreview n. 397
Fin dagli albori della diffusione della telematica, le lobby del diritto d’autore sono state le più attive nel condizionare i legislatori nazionali inducendoli ad emanare norme a tutela degli interessi economici di questo comparto industriale. Non è un caso che la prima norma emanata in Italia che si occupava di “sanzionare” l’uso illegittimo dei computer è stata – nel 1992 – quella che equiparava un programma a una composizione di John Cage. Di conseguenza, grazie a questa finzione giuridica, era possibile applicare il reato di “duplicazione abusiva di opera dell’ingegno” anche ai software e non solo a vinili e cassette.
Tanto per dare una pietra di paragone, la legge sui reati informatici – già urgente all’epoca – dovette attendere un altro anno prima di essere emanata e infatti solo nel 1993 il codice penale venne “arricchito” da norme che punivano varie azioni, dall’accesso abusivo a un computer, al danneggiamento di dati e informazioni.
Come tanti non giovanissimi ricorderanno, con la diffusione dell’internet e quella – quasi contemporanea – di client peer-to-peer (Napster o EMule, ad esempio) e grazie all’invenzione del formato MP3 aumentarono a dismisura la circolazione prima di audio e poi – quando la velocità e la capacità delle connessioni aumentarono – di video.
Puntuale arrivò la reazione delle lobby del diritto d’autore che spinsero fino a quando, nel 2004, il Parlamento italiano approvò il cosiddetto “Decreto Urbani” che, modificando per l’ennesima volta la legge sul diritto d’autore, criminalizzava espressamente il peer-to-peer (ma senza affrontare la questione dell’equo compenso, della quale ho parlato sui numeri precedenti di Audioreview).
Nel frattempo, l’industria delle telecomunicazioni e del software “fiutò” l’apertura di un nuovo mercato – quello della condivisione di contenuti – e diede vita alle prime “piattaforme” che consentivano agli utenti di rendere disponibili file audio/video. Ma, come è esperienza comune, a fronte di moltissimi contenuti autoprodotti, ce n’erano altri che venivano caricati senza avere alcuna autorizzazione da parte dei titolari dei diritti.
Manco a dirlo, questi servizi attirarono immediatamente l’attenzione delle lobby del diritto d’autore che fecero di tutto per bloccare la diffusione di opere protette cercando di coinvolgere i gestori delle piattaforme nel comportamento illecito dei singoli utenti, considerandoli “complici” delle violazioni.
Ma sulla loro strada, le lobby del diritto d’autore trovarono un ostacolo normativo: la cosiddetta “direttiva e-commerce” che – già dal 2000 – stabiliva due principi: il primo è che i fornitori di servizi di comunicazione elettronica non hanno l’obbligo di controllare preventivamente il comportamento dei loro utenti; il secondo è che il fornitore di servizi di comunicazione elettronica non è responsabile degli atti dei propri utenti, quando non si “intromette” nel loro comportamento. Dunque, se una piattaforma di condivisione di contenuti si limita a offrire il servizio di pubblicazione senza “entrare nel merito” di ciò che fanno gli utenti non è automaticamente responsabile di ciò che accade.
Almeno in teoria, perché se è intuitivo che un fornitore di accesso all’internet non esegua alcun controllo sulla navigazione, non necessariamente questo vale per il gestore di una piattaforma che, per esempio, invece di lasciare la categorizzazione dei contenuti ai soli utenti interviene attivamente – ad esempio – associando pubblicità “coerente” con il contenuto stesso e le preferenze dell’utente.
Siamo su un terreno legale evidentemente molto scivoloso, reso ancora più tale dal fatto che, in realtà, la direttiva ecommerce non distingue le varie tipologie di fornitori di servizi di comunicazione elettronica e dunque un internet provider (che si limita a vendere accessi alla rete) è “trattato” come una piattaforma “over the top” (come un servizio di e-commerce o di streaming).
E’ per questo che, in ambito europeo, si comincia a parlare sempre più spesso – le ultime notizie risalgono allo scorso otto marzo – di riformare la normativa sul diritto d’autore con la creazione di una figura denominata “online content sharing service provider” diversa da quella generica del tradizionale “internet provider” e alla quale attribuire specifiche responsabilità e doveri in materia di “lotta alla pirateria”.
Che cosa significa in concreto per gli utenti – e per gli audiofili – lo scopriremo sul prossimo numero.
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