Con il Global Digital Compact l’Onu vuole definire principi condivisi per la sicurezza dell’ecosistema digitale, ma almeno ad oggi non prende in considerazione la tradizionale Internet Governance. Potrebbe essere un altro passo verso il definitivo riassorbimento del controllo sulla Big Internet nel dominio del softpower istituzionale. L’analisi di Andrea Monti, professore incaricato di Digital Law nel corso di laurea magistrale in Digital Marketing dell’università di Chieti-Pescara – Inizialmente pubblicato da Formiche.net
Il 21 agosto 2023 Icann, Apnic e Arin (tre delle organizzazioni più importanti che gestiscono di fattol’Internet Governance) hanno pubblicamente denunciato l’emarginazione, se non addirittura l’esclusione, della “tech community” — cioè di loro stessi — dal Global digital compact (Gdc), la proposta dell’Onu per definire “principi condivisi per un futuro digitale aperto, libero e sicuro” partendo dalle reti di accesso fino al livello di servizi, piattaforme, contenuti e comportamenti individuali.
Cosa significa il GDC
Al netto dell’astrattezza delle dichiarazioni di principio, la realizzazione concreta del Gdc richiede un significativo spostamento del controllo sull’intero ecosistema digitale nelle mani degli Stati (che già da tempo hanno avviato un percorso di questo tipo) e in quelle di organizzazioni a-nazionali, come l’Onu, che possono ricorsivamente dichiarare l’esistenza di “diritti” per poi invocarne il rispetto da parte degli Stati membri.
In sostanza, dunque, il Gdc opererebbe come una sorta di super-trattato che omogeneizza i singoli approcci regolamentari nazionali. Tuttavia, il riferimento al rispetto dei diritti umani contenuto nel position paper del Gdc lascia intendere che questo dovrebbe — o potrebbe — funzionare anche come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dunque definire innanzi tutto un confine valoriale (e non giuridico). Di conseguenza, il tutto sarebbe funzionale, sì, a indirizzare l’attività regolamentare dei singoli Stati ma servirebbe soprattutto a valutarne il comportamento per esercitare moralsuasion e giustificare scelte politiche “interventiste” (cioè per esempio decidere, analogamente alle missioni di peacekeeping, interdizioni alla connessione con reti di trasporto di “Paesi canaglia” o ridefinizione dei percorsi del traffico dei dati per evitare determinate aree geopolitiche).
Perché l’Internet Governance protesta
Uno scenario del genere riguarda in modo particolare la Big Internet che, come ha dimostrato il conflitto russo-ucraino, ha assunto una rilevanza politica e strategica cruciale.
Di conseguenza, questa è la preoccupazione che emerge velatamente dalla polemica sollevata da Icann, è forse arrivato il momento nel quale gli Stati hanno maturato la convinzione che la governance della Big Internet non possa più essere gestita, come fino ad ora è accaduto, tramite entità che invocando la propria natura tecnica rivendicano di essere sostanzialmente sganciate da qualsiasi controllo pubblicistico ma pretendono di avere voce nelle scelte degli Stati o addirittura, si potrebbe dire, di operare al di fuori del loro controllo.
Esemplare, in questo senso, la vicenda che ha coinvolto una di queste entità, la quale ha rifiutato in totale autonomia di “disconnettere” la Russia dal sistema di assegnazione dei numeri IP in modo da emarginarla dal collegamento con il resto del mondo come richiesto dal governo ucraino o la protesta verso la scelta della Ue di finanziare un “DNS resolver” (un “traduttore” di sequenze numeriche in indirizzi internet facilmente comprensibili) unionale.
Il controllo politico della Big Internet è alla base della protesta
Di fronte a fatti del genere è inevitabile domandarsi a che titolo un soggetto privo di legittimazione politica e che però rivendica un ruolo puramente tecnico possa assumere decisioni che riguardano le strategie (militari) di Stati e coalizioni o entrare a gamba tesa in scelte discutibili quanto vogliamo ma assunte, come nel caso della Ue, nell’ambito di una potestà delegata in forza di trattati internazionali.
Il tema non è certo di oggi, ma non è mai arrivato al vertice dell’agenda politica nazionale e internazionale anche perché, tutto sommato, una gestione meno formale degli aspetti regolamentari dell’Internet Governance la ha resa più flessibile rispetto all’irrigidimento causato dall’inclusione a pieno titolo nell’apparato di un esecutivo. Non è un caso che, in questo ambito, Icann abbia istituito il Governmental Advisory Committee (GAC) nel quale vengono invitati a partecipare esponenti governativi con lo scopo di operare da “ponte” verso le istituzioni fornendo indicazioni in quegli ambiti dove —si legge sulla presentazione dell’organismo— “ci potrebbe essere un’interazione fra le attività e le policy di Icann e le leggi nazionali o i trattati”.
Sta di fatto che i tempi sono cambiati e sempre di più si avverte l’insofferenza dei Paesi verso un regime che non consente loro di controllare a pieno le proprie risorse di telecomunicazioni. Non è un caso che pure la Russia abbia legiferato in questo senso e che la Ue — oltre alla creazione del già citato resolver unionale — stia perseguendo una strategia di indipendenza anche a livello di trasporto dei dati, investendo su cavi sottomarini che consentiranno di instradare le informazioni su reti di Paesi non ostili.
Conclusioni
Inquadrata da questo punto di vista, la querelle fra Icann e Onu mostra una prospettiva molto più ampia, che da un lato riporta nuovamente all’attenzione il tema di un multipolarismo del quale non fanno più parte solo gli Stati o le organizzazioni che li rappresentano, ma anche industrie e realtà grassroot il cui potere è cresciuto nel corso degli anni al di là di quanto (miopi) istituzioni potessero vedere. Dall’altro, evidenzia chiaramente come il softpower stia diventando lo strumento preferenziale per la gestione delle relazioni internazionali anche e soprattutto nei confronti di chi controlla produzione e funzionamento delle tecnologie dell’informazione.
L’ingresso dell’Onu nell’internet governance (di fatto o di diritto, poco importa) significa che le decisioni in materia non potranno più essere assunte dalla “tech community” ma dovranno “tenere conto” (cioè “rispettare”) le indicazioni che arrivano dall’Assemblea e — nei casi più seri — dal Consiglio di sicurezza.
Se questa analisi è corretta, viene definitivamente consegnata alla storia la visione utopistica (mai realizzata e mai realizzabile) di una rete veramente neutra, priva di confini e “autogovernata”, che viene sostituita dall’inclusione della Big Internet nei possibili teatri di confronto (e di scontro) geopolitico.
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