I due verdetti mettono nel mirino i leak di informazioni e il modo di ottenerli. E allungano un’ombra sulle piattaforme di segnalazione anonima gestite da testate di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Wired.it
Con una imprevedibile e non correlata coincidenza, la Corte di cassazione italiana e il tribunale penale di Lisbona hanno recentemente pronunciato due sentenze che potrebbero cambiare il giornalismo investigativo basato sui “leak” e sulle piattaforme che consentono di farli circolare. Indipendentemente l’una dall’altra, le Corti hanno affermato il principio che il diritto a informare non giustifica la commissione di reati per procurarsi le informazioni.
Ad una prima lettura il principio sembrerebbe del tutto condivisibile. Tuttavia, un’interpretazione non troppo capziosa del codice penale potrebbe estendere la responsabilità a chi organizza piattaforme per ricevere segnalazioni anonime, anche se si tratta di media professionali.
La sentenza portoghese sui Football-Leaks
Lo scorso 11 settembre 2023 il Tribunal Judicial da Comarca de Lisboa – Juízo Central Criminal de Lisboaha inflitto una condanna di quattro anni a Rui Pinto, lo hacker dei “Football leaks”, riconosciuto responsabile (in primo grado) di avere crackato i sistemi di un fondo di investimenti, dell’ufficio del procuratore generale e di uno studio legale della capitale lusitana, oltre ad avere intercettato email e tentato un’estorsione.
Stando a quanto si legge nella sentenza, dall’enorme mole di dati trafugati da Pinto (si parla di 18 milioni di file e quasi due terabyte di dati) sarebbero emersi comportamenti di elusione fiscale (e dunque teoricamente illeciti quantomeno sotto il profilo tributario) e violazioni delle regole sul fair play finanziario della UEFA ma anche informazioni del tutto neutre come i cachet di atleti e i contenuti di contratti sportivi riservati ma non per questo necessariamente illegali.
Le informazioni vennero inviate in due hard disk a Rafael Buschmann, editor di Der Spiegel che, insieme agli altri importanti quotidiani e periodici europei componenti della European Investigative Collaborations, le hanno analizzate per individuare le informazioni giornalisticamente rilevanti nascoste nell’enorme tesoro informativo.
L’imputato si era difeso sostenendo di essere un whistleblower che aveva agito “nel pubblico interesse” e quindi riteneva che il suo gesto fosse legalmente giustificabile. Tuttavia, il tribunale non ha accolto questa tesi perché le prove hanno dimostrato che gli attacchi erano stati lanciati per procurarsi le informazioni prima di conoscerne il contenuto.
Questo, come si vedrà, è un punto cruciale di tutto il ragionamento.
La sentenza della Corte di cassazione italiana
Meno di due settimane prima della decisione del caso Pinto, la quinta sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza 36407/23 pubblicata il 31 agosto 2023 ha ribadito il principio di diritto, già affermato in altre decisioni, secondo il quale la scriminante dell’esercizio del diritto opera solo in relazione alla pubblicazione della notizia e non si estende ai modi utilizzati per acquisirla.
In altri termini: se un giornalista pubblica una notizia vera acquisita in modo lecito e riferita correttamente, non commette reato. Se, invece, il giornalista si procura la notizia vera violando (da solo o insieme ad altri) la legge allora non può invocare a propria difesa il diritto di cronaca perché la tutela “copre” solo la scelta di pubblicare o meno l’articolo.
La questione giuridica
“Mettendo a sistema” i principi espressi dalle sentenze e coordinandoli con le regole sulla responsabilità penale, emerge una situazione che potrebbe rendere estremamente difficile e pericoloso, per i media professionali, praticare il giornalismo investigativo utilizzando fonti anonime e gestendo direttamente piattaforme come Wikileaks.
Anche se il ragionamento giuridico è molto più complesso, lo si può sintetizzare in due punti: il limite all’uso di informazioni raccolte e diffuse indipendentemente dal coinvolgimento del giornalista e quello dell’uso di piattaforme per ricevere informazioni e documenti garantendo l’anonimato più assoluto al whistleblower.
Ripubblicare i leaks è lecito?
In relazione al primo punto, fino a quando (vedi non solo il caso Pinto, ma, su tutti, quello di Chelsea Manning) informazioni critiche vengono autonomamente diffuse da una terza parte e poi riutilizzate dai media in modo indipendente da chi le ha diffuse è difficile ipotizzare una responsabilità di chi fa informazione. Dunque, l’autore dei leak andrà sotto processo, mentre è altamente improbabile pensare che il giornalista e la tesata che hanno fruito di queste informazioni possano subire la stessa sorte.
Agevolare la raccolta di leak è legale?
Se la ripartizione delle responsabilità fra whistleblower e giornalista è sostanzialmente chiara, non lo è altrettanto nel caso di una piattaforma per la diffusione di leak gestita direttamente da una testata giornalistica.
Come detto, il tribunale di Lisbona ha negato a Pinto lo status di whistleblower perché si è illecitamente procurato le informazioni prima di sapere cosa avrebbe trovato. Inoltre, come principio generale, agevolare consapevolmente la commissione di un reato o accettare il rischio che il proprio comportamento possa consentire di commettere un illecito è fonte di responsabilità penale. Siamo da qualche parte, direbbe un giurista, fra l’istigazione a delinquere e il concorso nel reato per dolo eventuale.
Dunque, gestire una piattaforma che consente la pubblicazione anonima di informazioni a prescindere dal fatto che siano prova di crimini o atrocità, ma soltanto perché sono segrete, potrebbe implicare da un lato accettare la possibilità di ricevere notizie che non si dovrebbero avere e, dall’altro, incentivare la commissione di reati per procurarsele grazie alla garanzia dell’anonimato, diventando complice con l’autore del fatto.
Questa è l’accusa che potrebbero formulare un pubblico ministero molto zelante (o una persona offesa particolarmente motivata e in grado di sopportare i costi di un processo del genere).
Una possibile difesa
Una testata potrebbe difendersi preventivamente selezionando con accuratezza l’importanza della notizia, limitando l’uso dei leak solo a fatti di una gravità tale da rendere evidente che il diritto ad informare non può essere compresso. Questo però significa che, al contrario, tutte le informazioni acquisite dalla fonte in modo illecito e relative a fatti non clamorosamente importanti dovrebbero essere immediatamente distrutte.
Questa linea difensiva non sarebbe semplice da mettere in pratica e, in ogni caso, si tradurrebbe in un pesante limite per l’attività giornalistica. Dunque, spetterebbe a ciascun direttore valutare caso per caso e decidere se rischiare o meno di subire un’azione penale per porre il tema della libertà di informazione alla Corte costituzionale.
Seguire questa strada, tuttavia, non sarebbe desiderabile perché i tempi e le incertezze dei giudizi consentirebbero di arrivare a una soluzione stabile — il cosiddetto “orientamento costante” della giurisprudenza— non prima di qualche decennio. Inoltre, andrebbe considerato che i giudici non sono obbligati a seguire questi “orientamenti” la cui direzione potrebbe essere cambiata senza preavviso.
Serve, allora, una legge per il giornalismo investigativo?
Garantire il giornalismo investigativo
È chiaro che se gli orientamenti di queste sentenze dovessero consolidarsi non solo nel nostro Paese ma anche nel resto della UE, basterebbe una sola denuncia impostata in questo modo per mettere a rischio la sopravvivenza stessa di una testata, specie considerando che per i reati più gravi sono previsti la custodia cautelare e l’utilizzo delle intercettazioni.
Che la digitalizzazione della realtà abbia aumentato di ordini di grandezza la facilità con la quale possono essere acquisite e diffuse informazioni destinate a rimanere segrete è un fatto. Così come è un fatto che la diffusione indiscriminata di terabyte di leak viene realizzata senza necessariamente porre attenzione al loro contenuto, rivelando insieme a illeciti anche informazioni “semplicemente” destinate a rimanere segrete. Dunque, potrebbe essere effettivamente necessario stabilire un limite normativo all’utilizzo dei leak (pochi o tanti che siano), stabilendo per esempio la non punibilità della cooperazione attiva del giornalista nella raccolta di informazioni segrete che denunciano reati.
Quale che sia la soluzione, è chiaro che una legge del genere sarebbe molto complessa da strutturare perché esiste il pericolo concreto che da strumento di garanzia si traduca in uno strumento di censura.
Se, dunque, si andasse verso questa ipotesi, sarebbe necessario gestirla con estrema attenzione e —politicamente— con una larga maggioranza per raggiungere un equilibrio realmente sostenibile fra tutela dei segreti e diritto a conoscere i fatti del potere.
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