Quelli su Big Tech sono gli unici dazi che la UE (e l’Italia) non si possono permettere

Il ruolo geopolitico delle tecnologie dell’informazione e la dipendenza ineliminabile dalle tecnologie USA rendono l’opzione, dei dazi del 15% su Big Tech per reagire all’aggressività trumpiana nei confronti della UE e dell’Italia rendono questa opzione semplicemente impraticabile di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Italian Tech – La Repubblica Leggi tutto “Quelli su Big Tech sono gli unici dazi che la UE (e l’Italia) non si possono permettere”

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ReArm Europe fra indipendenza e sovranità tecnologica

Acquistare una capacità difensiva coordinata fra gli Stati membri della UE è un percorso irto di ostacoli, dall’articolo 4 del Trattato sulla UE che vieta all’Unione Europea di occuparsi di difesa e sicurezza (che rimangono di esclusiva titolarità dei singoli Paesi), ai limiti costituzionali che, almeno in Italia, non consentono il trasferimento definitivo di sovranità a Bruxelles, né l’eliminazione del concetto di “Patria”, inevitabilmente legato ai confini geografici.

A questo si dovrebbero aggiungere le complessità operative e industriali (anche in termini di ripartizione del mercato) riguardo l’integrazione delle piattaforme di combattimento dei vari Paesi —dalle armi da fianco ai sofisticati sistemi di comando e controllo— che richiederebbe anni per arrivare a compimento e quelle causate dalla dipendenza tecnologica da Paesi esteri (USA, in particolare).

Non vanno sottovalutate, inoltre, le difficoltà di incrementare il numero dei militari operativi e combat ready perché, contrariamente al detto, il numero, da solo, non è potenza. Non basta, in altri termini avere centinaia di migliaia di soldati, ma è necessario che questa forza sia capace di operare a un livello sufficientemente elevato da evitare (o attenuare il rischio) che si verifichino tragedie come quelle raccontate da Francesco Rosi in Uomini contro.

La necessità di razionalizzare i costi

Soddisfare questa ultima necessità, in particolare, implica uno sforzo logistico notevole sia per selezionare le reclute, sia per trasformarle in soggetti minimamente in grado di operare, sia per mantenere e incrementare queste capacità.

È abbastanza evidente che in una prospettiva del genere i costi da sostenere sono elevati e, soprattutto, ricorrenti come si evince, per esempio, dalle voci “Traning and Recruiting” del budget 2023 degli US Marines.

Da qui, l’esigenza di ridurre per quanto possibile l’impatto finanziario delle attività non strettamente legate alle operazioni militari, integrando soggetti privati che possano farsi carico di componenti non critiche dell’organizzazione militare. D’altra parte, il concetto di difesa dello Stato, nel momento in cui si estende alla tutela non solo dei confini ma anche dei propri interessi (vedi il Libro bianco Ministero della Difesa 2015), e il neoassunto ruolo della Presidenza del Consiglio nella protezione delle infrastrutture critiche e delle funzioni essenziali, richiedono necessariamente un coinvolgimento del settore privato, a fronte di una regolamentazione ferrea del ruolo di questi attori.

Il ruolo dei Private Security Provider

In ambito internazionale questi soggetti sono definiti “Private Security Provider” (PSP) e si distinguono dalle “Private Military Company” (PMC) che offrono —essenzialmente— servizi di mercenariato.

Benché i confini fra PMC (incompatibili con l’ordinamento italiano) e PSP (a certe condizioni, legali nel nostro Paese) possano apparire labili, dal punto di vista teorico sono molto chiari. Se un soggetto si qualifica come Private Military Company vuol dire che eroga servizi di tipo mercenario o, come direbbero eufemisticamente gli americani, expeditionary conflict entrepreneurship. Ciò significa essere pagati per l’addestramento di forze armate (più o meno) istituzionali e per la partecipazione attiva ad azioni di combattimento di truppe (più o meno) regolari. Se un soggetto si qualifica come PSC vuol dire che eroga servizi “passivi”, come addestramento di base, protezione installazioni, scorta VIP recupero feriti, trasporto di uomini e materiale, manutenzione di mezzi, ma che non prevede di essere coinvolto in servizi “attivi” (analoghi, cioè a quelli di stretta competenza militare).

Creare un mercato italiano per startup di PSP

Già oggi, in Italia, l’attività di PSP è parzialmente svolta dagli istituti di vigilanza regolati dal Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Oltre a svolgere i tradizionali servizi di guardianìa e trasporto armi e valori, infatti, queste aziende operano già nel settore della sicurezza sussidiaria cooperando nella protezione degli aeroporti e fornendo servizi di maritime security, con personale specificamente addestrato e armato, spesso proveniente dai ruoli militari. Inoltre, e in parallelo, gli istituti di vigilanza sono spesso dotati di sale controllo e mezzi per la rilevazione di eventi critici, l’avviso alle forze dell’ordine e, dove previsto dalla legge, il primo intervento sotto il controllo dell’Autorità di pubblica sicurezza.

In un contesto del genere, non ci vorrebbe molto, concettualmente, ad espandere gli ambiti degli istituti di vigilanza fino a prevederne l’integrazione con l’apparato di difesa dello Stato, nell’ambito dei servizi passivi, rendendo disponibili uomini e risorse per il rafforzamento della difesa esterna.

Criticità tecnologiche e non solo del mercato dei PSP

La creazione di un mercato per i PSP, che siano startup o soggetti già presenti nel settore, presenta, evidentemente, diverse criticità.

La prima, e più evidente è quella del rischio di (ri)costituzione di milizie private.

Scongiurare questo rischio implicherebbe includere i PSP nel sistema della pubblica sicurezza e della protezione civile, in modo da consentire un ferreo controllo da parte dello Stato sul modo in cui operano questi soggetti, sul reclutamento e sulla formazione degli operatori, oltre a limitare la dotazione di armi e mezzi dei quali possono disporre, e a definire chiaramente regole di ingaggio e perimetro operativo.

Meno agevole, invece, è risolvere il problema dell’accesso dei PSP a tecnologie e informazioni riservate ma necessarie all’interazione e all’integrazione con le forze armate. È vero che il sistema dei security clearanceconsente a soggetti privati che ne hanno titolo l’accesso a questi ambiti informativi, ma questo accade per necessità specifiche nell’ambito consolidato dei defense contractor.

Nel caso dei PSP il problema della messa a disposizione di accessi fisici e logici a installazioni e tecnologie militari non è di semplice soluzione perché crea un dilemma operativo: come garantire un’integrazione efficace senza compromettere la sicurezza delle infrastrutture critiche e delle informazioni critiche.

Inoltre, l’impiego di PSP andrebbe valutato in termini di impatto sulla capacità complessiva di tenuta dell’apparato di difesa. Incrementare il coinvolgimento di entità private amplifica i rischi legati alle vulnerabilità informatiche, soprattutto se queste aziende non dispongono degli stessi standard di sicurezza e delle capacità di reazione delle forze armate. Sarebbe dunque necessario istituire un sistema di controlli per evitare fughe di dati, supply chain attack e possibili infiltrazioni da parte di attori ostili.

Un ulteriore elemento di criticità riguarda l’adozione di sistemi e piattaforme forniti da PSP o la loro integrazione con le piattaforme militari. Questo, come insegna lo strapotere di Big Tech nel settore civile, potrebbe creare nel tempo una situazione di dipendenza tecnologica esterna difficile da controllare, soprattutto in un contesto in cui la sovranità tecnologica europea è ancora limitata.

Indipendenza o sovranità tecnologica?

Tutto questo ragionamento si riduce alla scelta politica fra indipendenza e sovranità tecnologica.

La prima implica la possibilità di operare senza vincoli diretti da parte di attori esterni, ma non garantisce il controllo delle tecnologie utilizzate. La fornitura di equipaggiamenti, software e sistemi di comunicazione da parte di aziende non europee rischia di generare un lock-in tecnologico, rendendo difficile per gli Stati membri della UE sviluppare una capacità autonoma. La seconda significa invece controllare e sviluppare le proprie capacità tecnologiche, ma richiede un impegno economico, politico e strategico che l’UE finora non ha dimostrato di voler affrontare con decisione.

Ognuna delle opzioni ha, evidentemente, dei pro e dei contro, ma una cosa è certa: l’unica opzione che non ci si può permettere è evitare di decidere.

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Dopo Huawei e TikTok, è DeepSeek la nuova minaccia per la sicurezza nazionale Usa?

La comparsa sul mercato di DeepSeek, il Large Language Model cinese disponibile in open source —cioè senza rivendicazioni proprietarie in termini di diritto d’autore e brevetti— ha sconvolto il settore dell’AI mettendo in discussione alcuni dogmi che si sono diffusi nel settore.

DeepSeek e la narrativa dell’AI

Il primo dogma riguarda i costi e i tempi necessari a generare un LLM. Se è vero che lo sviluppo di DeepSeek non ha goduto del sostegno di Pechino in termini di accesso privilegiato al hardware e all’energia necessarie a raggiungere il risultato, allora non è più vero che per competere nel mercato siano necessari investimenti miliardari. Questo significherebbe rendere possibile l’aumento del numero dei potenziali soggetti operanti nel settore e la creazione di un reale regime di concorrenza a livello internazionale.

La seconda convinzione messa in crisi da DeepSeek è che il comparto Ai sia saldamente nelle mani degli Usa che controllano sia le tecnologie software, sia quelle hardware, dalle schede grafiche alle tecnologie necessarie per costruire chip sempre più sottili e processori sempre più potenti. Al netto delle questioni legate all’aggiramento del divieto di esportazione verso la Cina di GPU e macchinari per la realizzazione di semiconduttori, il bando tecnologico imposto da Washington ha spinto la Cina a sviluppare approcci alternativi nella ricerca teorica e nella realizzazione di hardware dedicato all’AI, come quello prodotto da Huawei.

L’impatto sul mercato borsistico

La disponibilità pubblica di DeepSeek sotto forma di app da scaricare sugli smartphone e di piattaforma ha avuto un impatto sul mercato finanziario che hanno danneggiato il valore di mercato di nVIDIA, il quasi monopolista produttore di GPU e ambienti di sviluppo software per l’AI. La fluttuazione è durata poco, tanto che il titolo nVIDIA ha iniziato a riprendersi quasi subito, ma ha rappresentato un segnale chiaro di quello che potrebbe accadere in un settore, quello borsistico, nel quale la volatilità del valore è fortemente influenzata dalla diffusione di informazioni o, meglio, dal modo in cui gli investitori percepiscono le informazioni diffuse.

L’impatto sul comparto industriale dell’AI

Se la notizia sulla maggiore economicità di DeepSeek ha colpito il mercato borsistico, la scelta della startup cinese di rilasciare il modello in “open source”, cioè consentendone l’utilizzo a chiunque senza rivendicare il pagamento di diritti o royalty aggredisce il mercato reale. Perplexity, una delle aziende statunitensi più attive nel settore dell’AI, ha recentemente annunciato di utilizzare DeepSeek per l’erogazione di alcuni servizi. È vero che tutto “gira” su sistemi americani, nessun dato viene inviato in Cina e nessuno, tranne Perplexity, ha accesso al modello. Questo tuttavia non cambia il fatto che un’azienda ha potuto potenziare i propri servizi senza dover pagare i costi di licenza ai concorrenti che sviluppano modelli analoghi. Se altre aziende seguiranno la strada di Perplexity, inevitabilmente le Big Tech del settore si troveranno di fronte a una concorrenza domestica capace di sottrarre fette di mercato e sconvolgere la programmazione del rilascio pubblico di nuove tecnologie.

DeepSeek è il nuovo TikTok?

Presa in sé, la diffusione di DeepSeek in Occidente potrebbe essere inquadrata in una “normale” dialettica concorrenziale fra aziende di settore; ma vista la natura strategica dell’AI è chiaro che questa lettura sarebbe molto riduttiva. Se, infatti, dopo le prime prove tecniche il meccanismo di diffusione dei LLM cinesi dovesse entrare a regime, ci troveremmo di fronte —volenti o nolenti— a qualcosa che somiglia molto a un atto di guerra economica e tecnologica.

Tuttavia, l’annunciata presentazione di una legge per bandire l’uso di DeepSeek dai device governativi non è basata su queste preoccupazioni ma sulla paura che l’app installata su smartphone e tablet possa fornire informazioni sugli utenti al governo cinese.

Anche se le due vicende non sono del tutto sovrapponibili, è abbastanza evidente che la richiesta di bandire l’uso dell’applicazione è basata sugli stessi presupposti che hanno condotto a imporre la vendita coatta di TikTok.

La differenza sostanziale fra i due casi, tuttavia, sta nel fatto che nel caso di DeepSeek la necessità di proteggere la sicurezza nazionale è dichiarata in modo sostanzialmente preventivo. Dove, in altri termini, contro TikTok gli Usa sono intervenuti quando l’applicazione era già in opera da anni, nei confronti di DeepSeek sembra volersi applicare un principio di precauzione imponendo il divieto di uso prima ancora che si possa manifestare una criticità. In proposito, va anche detto che, come hanno chiaramente affermato le sentenze delle corti che si sono occupate del caso, le ragioni della vendita coatta di TikTok sono state fondate su dichiarazioni governative che i giudici non hanno ritenuto di contestare, mentre nel caso di DeepSeek non risultano posizioni analoghe.

Il nuovo paradigma della sicurezza nazionale

Ad oggi non è ancora possibile sapere se e con quale estensione verrà disposto il bando di DeepSeek; ma anche il solo fatto di ventilare l’ipotesi si inserisce nel solco delle analoghe scelte già adottate dalle amministrazioni Usa nei confronti di Huawei, DJI e TikTok.

Tutte queste decisioni, infatti, sono accomunate dalla tendenza a considerare il controllo su una tecnologia da parte di uno Stato straniero come possibile minaccia per la sopravvivenza domestica a prescindere dal materiale impiego di un prodotto o un servizio che quella tecnologia utilizza.

L’insanabile contrasto fra tutela della sicurezza e sviluppo tecno-economico globale

Se nel contesto della sicurezza nazionale vale il principio better safe than sorry (meglio essere sicuri che avere rimpianti), applicare misure preventive basate su ipotesi di rischio invece che su evidenze verificabili solleva interrogativi non solo sul piano del diritto internazionale e della concorrenza, ma anche sul futuro della governance tecnologica globale.

Se il principio di precauzione diventa lo strumento per escludere sistematicamente le innovazioni provenienti da determinati Paesi, il rischio è quello di una frammentazione sempre più marcata del settore tecnologico, con la creazione di ecosistemi digitali separati e incompatibili tra loro. Un simile scenario non solo ostacolerebbe il progresso scientifico e la cooperazione internazionale, ma potrebbe rivelarsi controproducente anche per le stesse aziende statunitensi, che perderebbero accesso a modelli e soluzioni innovative sviluppate al di fuori dei propri confini.

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Il libro che insegna a pensare come uno scienziato

“L’evoluzione del pensiero scientifico dall’antica Grecia ai giorni nostri” di Francesco Vissani è un’opera divulgativa che insegna ad adottare il metodo scientifico come prassi. Uno stimolatore di riflessioni da leggere dall’inizio alla fine ma anche a pezzi, a seconda del tema che più interessa al momento di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su La Repubblica – Italian Tech Leggi tutto “Il libro che insegna a pensare come uno scienziato”

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La sanzione fiscale pagata da Google non placa lo spettro della webtax

Una lettura semplicistica delle ragioni che hanno spinto Google ad accettare di pagare una sanzione fiscale di 326 milioni di Euro indurrebbe a pensare che, tutto sommato, se lo ha fatto è perché c’era una convenienza in termini di risparmio sul “prezzo pieno” della sanzione che includeva anche il rischio di condanne penali. di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su La Repubblica – Italian Tech Leggi tutto “La sanzione fiscale pagata da Google non placa lo spettro della webtax”

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È abbastanza chiaro che non ci si può aspettare granché dall’iniziativa dell’autorità nazionale di protezione. A meno di non voler portare a valori più alti la temperatura del confronto. Con tutte le conseguenze del caso di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su La Repubblica – Italian Tech Leggi tutto “Il Garante dei dati personali ha veramente “bloccato” DeepSeek?”

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Da sempre Big Tech —come qualsiasi altro comparto industriale— promuove interlocuzioni istituzionali a vario livello per rappresentare ai legislatori le proprie istanze e intervenire su provvedimenti che mettono in pericolo i propri interessi. Consulenti di “relazioni istituzionali” —i lobbisti, in altri termini— passano il tempo a raccogliere informazioni su quanto accade nei palazzi del potere e, dall’altro lato, mettono a disposizione documenti, analisi tecniche e dati statistici che spesso i decisori non hanno i mezzi o le possibilità di ottenere, oppure sostengono eventi pubblici organizzati da soggetti istituzionali come forma di “civil engagement” e “social responsibility”. Da qualche tempo, però, l’attività di condizionamento delle scelte politiche ha iniziato ad estendersi anche all’interazione con la società civile —attivisti e associazioni per la difesa dei “diritti digitali”— e poi, da ultimo, direttamente alle persone o meglio, alla percezione che le persone hanno del concetto di diritto di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – Italian Tech La Repubblica Leggi tutto “Il senso di Apple per la privacy”

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In un mondo oramai fruito artificialmente tramite schermi di varia foggia e dimensioni, le Big Tech hanno saputo sfruttare magistralmente alcuni degli aspetti più profondi e inquietanti della debolezza umana. Dietro la promessa dinuove forme di interazione o di intrattenimento stanno capitalizzando una condizione di profondo disagio: l’incapacità di far fronte ai nostri limiti e all’isolamento che spesso accompagna la vita moderna di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – La Repubblica – Italian Tech

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Nella causa Murthy, Surgeon General, et al. contro Missouri, et al.  decisa lo scorso 26 giugno 2024, la Corte suprema USA ha affrontato la questione se l’esecutivo statunitense abbia violato il Primo Emendamento della Costituzione americana esercitando pressioni sulle piattaforme di social media perché censurassero dei post ritenuti fonte di disinformazione di Andrea Monti – Inzialmente pubblicato su Wired.it Leggi tutto “I governi possono “suggerire” la censura ai social network?”

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A prescindere dall’aspetto puramente informatico, il caso Crowdstrike è la spia che segnala i rischi dell’approccio UE alla gestione della cybersecurity di Andrea Monti – professore incaricato di Digital Law – università di Chieti-Pescara – Inizialmente pubblicato su Formiche.net Leggi tutto “Il caso Crowdstrike rivela le cyber-debolezze Ue”

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Il First Report on Encryption recentemente pubblicato dall’EU Innovation Hub for Internal Security contiene le line guida e i desiderata in materia di crittografia delle strutture unionali che si occupano di sicurezza e contrasto alla criminalità, ed evidenzia le contraddizioni irrisolte della libera disponibilità di tecnologie crittografiche di Andrea Monti – professore incaricato di Digital Law – università di Chieti-Pescara – Inizialmente pubblicato su Formiche.net Leggi tutto “Il nodo della crittografia è arrivato al pettine della UE”

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Articolo 134

Questo è un articolo “what-if”,”che accadrebbe se…” o meglio “cosa sarebbe accaduto se”, dove il “se” riguarda una norma che viene dal passato, dal 1931 per l’esattezza, e che se fosse stata interpretata e applicata agli albori della nascita della profilazione online avrebbe potuto bloccare fin dall’inizio l’accumulazione di dati sulle persone (cioè il “dossieraggio”) da parte di Big Tech e della miriade di data-broker che prosperano su queste pratiche dai contorni ancora oggi molto poco definiti. Stiamo parlando dell’articolo 134 del Regio Decreto n. 773 (anche noto come “Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza” o “TULPS”). di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – Italian Tech-La Repubblica Leggi tutto “Articolo 134”

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Hard Times. Le nuove guerre e la difesa europea

Il mio contributo all’analisi multidisciplinare coordinata da Alberto Pagani ha riguardato la  crisi del diritto come strumento di regolazione dei rapporti internazionali, un tema centrale nella riflessione geopolitica e  più volte affrontato anche sulle colonne di Formiche.net.

Il capitolo che mi è stato affidato sottolinea come la globalizzazione e i progressi tecnologici abbiano provocato un cambiamento fondamentale nella governance mondiale, passando dal rule of law al rule by law.

In sintesi, la tesi sulla quale ragiono è che la percezione storicamente radicata del diritto come un’entità sacra e inviolabile viene ora sostituita dal ritorno a una visione del diritto come uno strumento malleabile per perseguire agende politiche. Si potrebbe eccepire, con qualche ragione, che in realtà il diritto non è mai stato, necessariamente, uno strumento di realizzazione di fini etici o necessariamente basati su una visione universalistica dell’essere umano. E si potrebbe quindi concludere che, in realtà, il diritto è sempre stato politica, nel senso di strumento di attuazione della volontà delle classi dirigenti, a prescindere dal contenuto valoriale delle norme adottate.

Sia come sia, storicamente, il diritto all’interno dei confini nazionali ha sempre avuto il ruolo di incarnazione delle norme e dei valori sociali, fornendo un quadro stabile per la governance e la risoluzione dei conflitti e rappresentando, nei casi patologici, la frattura fra il potere e i governati.

Tuttavia, questa percezione si affievolisce quando viene estesa alla scena internazionale, dove gli accordi tra gli stati spesso soccombono alle realtà delle dinamiche di potere e degli interessi geopolitici. L’era post-Westfaliana, caratterizzata dal dominio degli stati sovrani, infatti, è ora messa in discussione dall’emergere di un ordine mondiale multipolare e dall’influenza pervasiva delle tecnologie dell’informazione.

Per illustrare la crescente complessità e frammentazione dello scenario attuale è utile far riferimento alla categoria dei “diritti senza stato”, cioè diritti stabiliti attraverso meccanismi politici senza il sostegno di alcuna sovranità nazionale specifica.

Un esempio chiave è la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che —secondo una certa lettura— rappresenta un costrutto centrato sull’Occidente che manca di una reale applicabilità universale. Nonostante le sue nobili intenzioni, i principi della Dichiarazione spesso si scontrano con le realtà culturali e politiche in varie parti del mondo, evidenziando la difficoltà di praticare concretamente un approccio universalista ai diritti umani.

Il fallimento del processo di costruzione della Costituzione europea rappresenta un altro esempio significativo della crisi del diritto nell’ambito dei rapporti internazionali. A parte le complessità politiche ed economiche di un obiettivo del genere, una concausa del fallimento è stata senz’altro l’approccio dall’alto verso il basso adottato dalle élite europee, che hanno tentato di imporre un quadro costituzionale senza un sufficiente coinvolgimento democratico diretto a far maturare il consenso delle popolazioni degli Stati membri. Questa disconnessione, che ancora oggi alimenta le spinte antieuropeiste, sottolinea l’importanza di legittimare le scelte fondamentali per la vita degli Stati tramite la partecipazione democratica alla creazione di una base giuridica sufficientemente robusta per consentire un’azione politica coordinata e in grado di operare su archi temporali che vadano oltre quelli di un solo mandato.

Parallelamente, come evidenziavo, non va trascurato anche il ruolo trasformativo nella modellazione del panorama giuridico svolto dalle grandi aziende tecnologiche.

Aziende come Apple e Twitter (ora, X) hanno unilateralmente definito e applicato norme, come gli standard di privacy e le politiche di controllo dei contenuti, spesso senza l’intervento dello Stato e addirittura prescindendo dal suo ruolo.

Questo fenomeno, che ho definito “tecno-neomedievalismo“, rappresenta un paradigma in cui i giganti tecnologici esercitano poteri tradizionalmente riservati agli Stati sovrani, operando con un grado di autonomia e influenza che consente di definire standard giuridici de facto che svuotano di senso quelli stabiliti dai Parlamenti.

Un terzo aspetto da considerare in un’analisi sulla crisi del diritto e sul passaggio dal rule of law al rule by law è il concetto di “lawfare”.

Il termine lawfare si riferisce all’uso strategico degli strumenti giuridici per raggiungere obiettivi politici o militari, trasformando di fatto il diritto nell’ulteriore componente dell’arsenale di uno Stato. Per quanto, pragamaticamente, efficace, il lawfare porta con sé il (non banale) danno collaterale di minare l’integrità dei sistemi giuridici ed erode la fiducia negli accordi internazionali.

L’uso delle norme come strumenti di realpolitik, infatti, compromette la stabilità e la prevedibilità delle relazioni internazionali. Gli accordi e i trattati diventano (o tornano ad essere) mere suggestioni, soggetti a manipolazioni e reinterpretazioni basate sulle mutevoli dinamiche di potere, come illustra bene un saggio di Deepak Mawar del Department of Public Law and Governance dell’università olandese di Tilburg.

Questo allontanamento dalla centralità del ruolo del diritto mette in discussione i principi fondamentali del diritto internazionale e, dunque, solleva dubbi sulla capacità dell’attuale assetto normativo di affrontare le sfide globali del nostro tempo.

Sarebbe opportuno, ma forse è troppo tardi, riconoscere la necessità di un sistema normativo che torni a un sostanziale rispetto dello stato di diritto adattandosi alle complessità di un mondo multipolare e tecnologicamente avanzato. In questo modo sarebbe possibile mediare tra diversi attori statali e non statali inserendo ulteriori livelli di escalation prima di arrivare, come pure non si può mai escludere, all’ultimo: quello del conflitto dichiarato.

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Le cinque sfide della sicurezza nazionale

In National Security in the New World Order ho sistematizzato gli aspetti critici del modo in cui la sicurezza nazionale viene invocata (anche a sproposito) per giustificare scelte compiute in nome della macht politik ma presentate orwellianamente con un lessico tranquillizzante (così, per esempio, la guerra diventa uno strumento di pace) e dunque molto più minaccioso Inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech – La Repubblica Leggi tutto “Le cinque sfide della sicurezza nazionale”

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ChatGPT non è onnisciente, ma OpenAI è vittima del proprio marketing

Il 29 aprile 2024 un’associazione austriaca per la protezione dei diritti civili ha chiesto alla propria autorità nazionale di protezione dei dati viennese di intervenire sull’incapacità di ChatGPT di fornire risultati corretti su un cittadino e chiedendo, in nome del GDPR, di imporre a OpenAI di fare qualcosa per correggere lo stato di fatto di Andrea Monti – Inzialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian-Tech La Repubblica Leggi tutto “ChatGPT non è onnisciente, ma OpenAI è vittima del proprio marketing”

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Cosa significa il bando cinese di Whatsapp, Telegram e Signal dall’App Store di Apple

Secondo il Wall Street Journal, da qualche giorno Apple avrebbe rimosso o starebbe per rimuovere dalla versione cinese dell’App Store una serie di programmi, fra i quali Whatsapp, Threads, Telegram e Signal sulla base delle preoccupazioni per la sicurezza nazionale manifestate da Pechino di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech-La Repubblica Leggi tutto “Cosa significa il bando cinese di Whatsapp, Telegram e Signal dall’App Store di Apple”

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Lo Human Genome Meeting di Roma riporta in primo piano la necessità di liberare l’uso dei dati


La tappa dello Human Genome Meeting iniziata ieri a Roma è l’occasione per tornare a parlare di un argomento tanto fondamentale quanto scomodo: l’impatto della “isteria per la privacy” sulla possibilità di fare ricerca grazie all’enorme quantità di dati che, oggi, siamo in grado di raccogliere sul modo in cui funzioniamo – e ci “rompiamo” di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog La Repubblica-Italian Tech

Leggi tutto “Lo Human Genome Meeting di Roma riporta in primo piano la necessità di liberare l’uso dei dati”

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Il duello tra Usa e Cina sui processori va oltre l’autonomia tecnologica

Il Financial Times riporta la notizia della scelta adottata dalla Cina di dismettere l’utilizzo di processori Intel e Amd — oltre che del sistema operativo Windows e implicitamente dei software che ne hanno bisogno per funzionare — dalla propria amministrazione: al bando tecnologico la Cina risponde con un colpo alla solidità delle Big Tech Usa. L’analisi di Andrea Monti, professore incaricato di Digital law nell’Università di Chieti-Pescara – Inizialmente pubblicato su Formiche.net Leggi tutto “Il duello tra Usa e Cina sui processori va oltre l’autonomia tecnologica”

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Quali conseguenze potrebbe avere il possibile bando di TikTok negli Usa

In uno scenario di guerra ibrida, non convenzionale e a bassa intensità i servizi di piattaforma giocano un ruolo importante, non solo per il loro potenziale nelle psyop di Andrea Monti – professore incaricato di Digital Law nell’università di Chieti-Pescara – Inizialmente pubblica su Formiche.net Leggi tutto “Quali conseguenze potrebbe avere il possibile bando di TikTok negli Usa”

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Libertà di stampa, giornalismo investigativo e Stato di diritto

La notizia dell’esecuzione di presunti accessi non autorizzati a banche dati a disposizione dell’autorità giudiziaria e della asserita messa a disposizione di testate giornalistiche dei risultati ha (ri)prodotto l’ennesimo dibattito sui limiti del (o al) giornalismo investigativo in rapporto alla libertà di stampa.
Anche in questo caso non si è fatta attendere la polarizzazione alla “Coppi-Bartali”, ma le posizioni si sono radicalizzate in modo abbastanza confuso e, a volte, semplicistico, sovrapponendo piani diversi in termini di responsabilità e diritti.
Dunque, da un lato si schierano i sostenitori del diritto “assoluto” della stampa di raccogliere e pubblicare qualsiasi notizia che riguardi i fatti del potere a prescindere da come sia stata raccolta, che si contrappongono ad altrettanto irriducibili difensori del diritto “assoluto” alla privacy e/o a “quelli che” la libertà di stampa non può estendersi fino a giustificare la commissione di reati.

Non esistono i diritti “assoluti”

Per orientarsi in questo dibattito è necessario partire da un punto fermo: non esistono “diritti assoluti” perché ogni diritto può essere compresso —o addirittura negato— a seconda delle necessità.
Questa può sembrare un’affermazione controintuitiva, ma diventa difficilmente contestabile se si pensa che persino il diritto alla vita è negoziabile, considerato che, per esempio, l’omicidio per legittima difesa non è punito. Tuttavia, negli ultimi anni si è consolidata la tendenza all’assolutizzazione dei diritti, tra cui appunto la privacy e la libertà di espressione, trasformati in feticci e considerati spesso inviolabili a discapito di altri potenzialmente confliggenti e altrettanto meritevoli di tutela.
Questa convinzione (sbagliata) si estende anche alla libertà di stampa, e in particolare al giornalismo investigativo e alle attività di debunking, dove è percepita come un diritto senza limiti o responsabilità.

Costituzione e libertà di stampa

La Costituzione italiana tutela certamente la libertà di stampa e di espressione, ma non al punto di legittimare la commissione di reati. L’attività giornalistica, infatti, non gode di libertà “assoluta”, essendo anch’essa sottoposta ad una serie di limiti normativi che vanno dal controllo dell’accesso alla professione (solo gli iscritti all’albo possono esercitare attività giornalistica), al dovere di controllo della legittimità delle notizie (da cui l’obbligo della presenza di un direttore responsabile), alla responsabilità civile e penale per le conseguenze della pubblicazione di una notizia che non doveva essere riportata, o che non doveva essere riportata in determinati modi (da cui l’applicabilità delle norme sulla violazione dei segreti, sulla diffamazione e sui discorsi d’odio).


Giurisprudenza e responsabilità del giornalista

Se, anche per via delle sentenze che si sono succedute nel corso degli anni, è relativamente semplice decidere se una notizia poteva o non poteva essere pubblicata, non si può dire lo stesso per il modo in cui la notizia è stata raccolta. Stiamo parlando, in altri termini, di tre annosi problemi: i limiti del segreto professionale giornalistico, il dovere di proteggere le fonti, e la possibilità di invocare qualche causa di non punibilità per la commissione di reati finalizzati a raccogliere informazioni necessarie a scrivere articoli.
In sintesi, come pure hanno rilevato alcune sentenze (l’ultima, della Cassazione, è la 36407/23 pubblicata il 31 agosto 2023), il punto è che la ricerca di notizie non giustifica la commissione di reati (i casi decisi dai giudici riguardavano l’insistenza ritenuta molesta di giornalisti che, non rispettando la volontà dell’intervistato di non rilasciare dichiarazioni continuavano a fare domande, il trattenersi in una proprietà privata contro la volontà del proprietario e l’acquisizione di informazioni frutto di attività illecita).
È chiaro che questa giurisprudenza riguarda in modo particolare il giornalismo investigativo, che si trova spesso a dover mettere sul piatto della bilancia il rispetto della legge e delle norme professionali e, sull’altro, la necessità di rivelare scandali finanziari o complotti politici, rischiando di finire in un’area grigia tra legalità e ricerca della verità.

 Leggi e indagini (giornalistiche)

Il quadro normativo italiano, anche se non la nomina esplicitamente, impone specifici limiti all’attività giornalistica in termini di raccolta informazioni.
Secondo il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, solo gli investigatori privati con licenza prefettizia sono autorizzati a raccogliere informazioni su persone e fatti. Questa prerogativa è circoscritta principalmente ad indagini patrimoniali e sull’infedeltà di coniugi e dipendenti e può estendersi in ambito penale solo se commissionata da un avvocato ed eseguita da un investigatore dotato di una licenza specifica. Gli avvocati, insieme ai magistrati e alle forze di polizia, sono le altre figure a cui è legalmente consentito svolgere indagini nell’ambito di procedimenti penali.
La legge quindi delinea un ambito ristretto di soggetti autorizzati a svolgere indagini, mettendo in evidenza i limiti formali e sostanziali che consentono di comprimere, pur se con forze differenti, i diritti delle persone.
I giornalisti, dunque, possono senz’altro cercare notizie ma non hanno un potere espressamente attribuito dalla legge di indagare per l’accertamento di fatti o costruire archivi su persone. Se questa distinzione può essere (abbastanza) chiara in teoria, non lo è altrettanto in pratica perché non è semplice tirare una linea che separi la “mera” attività di cronaca da un’indagine con tutti i crismi. Il che crea una difficoltà evidente se si affronta la questione dal punto di vista dei limiti del segreto professionale del giornalista.

Quanto è robusto il segreto professionale del giornalista?

A differenza del segreto professionale dell’avvocato —che rende inutilizzabili le eventuali intercettazioni delle comunicazioni con l’indagato e limita rigidamente le perquisizioni negli studi professionali— quello del giornalista non vieta ad un pubblico ministero di eseguire indagini sulle fonti, né a un giudice di ordinare al professionista di rivelare il modo in cui si è procurato la notizia.
Dunque spetta solo al giornalista tutelare chi gli fornisce informazioni tramite una serie di misure operative che possono rendere più difficile identificare la fonte confidenziale. Dall’altro lato, egli deve decidere se mantenere il silenzio davanti al giudice, rischiando a propria volta un’imputazione penale.

Piattaforme per il whistleblowing. Pezza peggiore del buco?

Una soluzione “all’italiana” potrebbe essere quella, peraltro abbastanza diffusa, di predisporre sistemi per ricevere segnalazioni anonime che non consentono di rintracciare il mittente.
I tradizionali metodi, come i plichi lasciati nella buca delle lettere di una redazione o l’altrettanto classica telefonata con la voce alterata, hanno lasciato il posto a piattaforme e servizi di posta elettronica che rendono sostanzialmente non tracciabile il messaggio ricevuto. Utilizzando questi sistemi, una testata giornalistica potrebbe difendersi eccependo —correttamente— che una volta venuta a conoscenza di una notizia ha il diritto di pubblicarla se la notizia si rivela fondata, e che non avendo contribuito attivamente a cercarla non ha modo di sapere se sia stata acquisita violando la legge.
Ancora una volta, tuttavia, il diavolo è nei dettagli.
Se la “soffiata” riguarda un segreto di Stato o la diffusione di informazioni ancora coperte dal segreto istruttorio penale, è difficile sostenere di non essersi resi conto che la fonte della notizia è un atto illecito.
Inoltre, applicando l’istituto giuridico del “dolo eventuale”, un inquirente zelante potrebbe arrivare a ipotizzare che avere messo in piedi una piattaforma per ricevere segnalazioni completamente anonime significa avere, implicitamente, voluto e accettato il rischio che qualcuno la utilizzasse per inviare anche informazioni acquisite illegalmente.
Anche in questo caso la testata potrebbe difendersi sostenendo che non c’è differenza fra ricevere una lettera anonima di carta o un messaggio tramite una piattaforma di leaks. Tuttavia, in realtà, una differenza pratica che potrebbe rendere non comparabili le due situazioni esiste. Nel primo caso, quello della lettera (o dell’email) anonima, è il “segnalatore” che contatta il giornale senza che quest’ultimo abbia fatto nulla per stimolare l’invio dell’informazione; mentre nel secondo è la testata che predispone attivamente le condizioni per ricevere (o istigare l’invio di?) di notizie illecitamente acquisite.
A questo si dovrebbe aggiungere anche il fatto che una informazione segreta non è necessariamente relativa alla commissione di reati o comportamenti inappropriati, ma può attenere —come nel caso dei cablo diplomatici— alla necessaria confidenzialità delle conversazioni fra Stati. I contenuti di queste comunicazioni sono, ovviamente, di grande interesse, ma non per questo possono essere liberamente ripubblicati.
In altri termini, “segreto” non equivale sempre a “illecito”.
 
Il convitato di pietra
È abbastanza evidente che non si può continuare a gestire caso per caso il tema della tutela delle fonti e quello del diritto a pubblicare notizie sui fatti del potere. Questo è uno di quegli argomenti che, effettivamente, richiederebbero un (peraltro non semplice) intervento normativo.
Sarebbe difficilmente difendibile, in termini costituzionali, una norma che rendesse tout-court non punibile il giornalista che commette reati per procurarsi notizie. Persino gli appartenenti ai nostri servizi segreti, ai quali la legge riconosce le cosiddette “garanzie funzionali”, non possono commettere qualsiasi reato e certamente non sono autorizzati a commettere omicidi.
Tuttavia, si potrebbe ragionare sull’estensione dell’attenuante già presente nel codice penale, che prevede una riduzione di pena se il fatto è commesso per motivi di particolare valore sociale o morale. Oppure si potrebbero prevedere trattamenti sanzionatori più favorevoli ai soli casi che riguardano la divulgazione di “fatti” illeciti del Potere.

Il presente

Sta di fatto che, ad oggi, sostenere che in nome del diritto di cronaca si può (o si deve) non rispettare la legge è semplicemente sbagliato. O, meglio, non si può pretendere di violare la legge in nome della propria visione del mondo e poi pretendere di non essere processati —processati, non direttamente condannati— per il fatto.
Un esempio chiarisce il senso di questa osservazione: siamo arrivati al divorzio e all’aborto —e un giorno avremo anche la legge sul fine vita— grazie all’impegno civile di persone che, in nome di un’idea, hanno consapevolmente violato la legge, accettando di farsi processare proprio per evidenziare la distanza fra le norme e il sentire comune e mettere in crisi il sistema.
Marco Pannella e i tanti esponenti del Partito Radicale che hanno condiviso quelle battaglie hanno rischiato in prima persona per indurre un cambiamento normativo che rispecchiasse i mutamenti della società.
Hanno denunciato l’ingiustizia di certe leggi, ma non si sono mai sottratti alle regole del gioco, il che è profondamente diverso dal rivendicare la disapplicazione della legge in nome della superiorità (reale o presunta) di una (propria) idea. È la differenza fra lo Stato di diritto, quello che in nome del quale Socrate non si sottrasse al processo e alla condanna; e quello etico dove, alla fine, l’unica regola è che le regole si applicano per gli altri e non per sé.

Il futuro prossimo venturo

Assorda, in questo periodo, il silenzio dell’Unione Europea che sta discutendo il regolamento sulla libertà dei media.
È vero, la UE non può occuparsi di materia penale e di aspetti legati alla sicurezza nazionale e dunque non potrebbe, pur volendo, stabilire dall’alto una tutela rafforzata per i giornalisti in casi del genere.
È anche vero tuttavia che, nell’interesse di tutti e alla luce dei fatti di cronaca, una riflessione più attenta sui temi come la definizione di “giornalista”, il rafforzamento del segreto professionale e una tutela estesa del ruolo sociale della stampa libera sarebbe altamente desiderabile.

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Neuralink è l’anticamera della discriminazione tecnologica

L’annuncio della sperimentazione umana di una brain-computer interface (BCI) da impiantare nel cervello sviluppata da Neuralink, una delle aziende high tech di Elon Musk, ha invariabilmente generato un’ondata di sensazionalismo e rievocato per l’ennesima volta scenari fantascientifici abitati da cyborg e trans-umani, come lo stesso Musk ha lasciato intendere già da tempo. Usando una tecnica pubblicitaria molto diffusa, la notizia della BCI di Musk è stata presentata con un’affermazione tipo “il primo essere umano ha ricevuto un impianto Neuralink”, ma questo non vuol dire che sia il primo in assoluto e che, dunque, siamo di fronte a un evento rivoluzionario. Uno studio pubblicato su Science and Engineering Ethics dimostra che la prima sperimentazione umana di una BCI risale al 2019 e uno spin off dell’Istituto Italiano di Tecnologia del CNRha realizzato un chip altrettanto, se non più avanzato di quello di Neuralink. Altre startup americane stanno esplorando le possibilità delle BCI e dunque, più che a un evento rivoluzionario, siamo di fronte all’avvio di una nuova corsa all’oro, al cui confronto quella dell’AI, già rallentata da contrasti ideologici e politici, somiglia più a una domenicale passeggiata nel bosco alla ricerca di funghi.

È invece passata sotto silenzio, al di fuori degli ambienti degli addetti ai lavori un’altra notizia, questa sì oggettivamente importante: più o meno contemporaneamente all’annuncio di Neuralink, il 13 febbraio 2023 la giapponese PorMedTec, startup dell’università Meiji, ha annunciato di essere riuscita a creare tre cloni di maiali con organi potenzialmente idonei ad essere trapiantati in esseri umani, grazie all’utilizzo di cellule di maiale geneticamente modificate dalla statunitense eGenesis. Anche in questo caso, non è tanto il “cosa”, quanto il “se” ad essere rilevante: la creazione di organi artificiali, insieme al bioprinting, è da sempre considerata un’alternativa essenziale per superare il problema del reperimento di organi umani da trapiantare. Analogamente alle BCI, dunque, l’utilizzo in ambito medico e terapeutico di tecnologie del genere non è soltanto desiderabile ma certamente necessario.

Avere compiuto un altro passo verso la possibilità di ripristinare i collegamenti fra cervello e resto del corpo (o strumenti esterni), e realizzare xenotrapianti grazie all’ingegneria genetica sono senz’altro notizie eccellenti per la ricerca e, pur se non sul breve periodo, per chi soffre di malattie degenerative o ha bisogno di “pezzi di ricambio” per tornare “come nuovo”.

Nello stesso tempo, però, non sono mancate le preoccupazioni sull’impatto che la manipolazione diretta del funzionamento del cervello basata sulla comunicazione bidirezionale con un software che riceve comandi esterni e sull’eticità della creazione di esseri viventi (pur non necessariamente senzienti) per produrre organi.

Con una sconsolante coazione a ripetere, l’approccio di alto livello a questi temi è sistematicamente orientato alla burocratizzazione e all’irrigidimento della possibilità di fare ricerca in nome dell’onnipresente “uso etico e responsabile” della tecnologia e, dall’altro, all’accettare, o quantomeno non rifiutare, che queste ricerche possano anche avere applicazioni non strettamente mediche, cioè dirette a curare le persone.

Stiamo parlando, in altri termini, della possibilità che BCI e organi biologici artificiali possano essere impiantate in soggetti sani, e dunque non per guarirli da una malattia ma per “potenziarli” o —come nel caso dei dati generati dalle BCI— per utilizzo ludico, in videogiochi e altre forme di interazione con strumenti digitali.

Il primo tema è quello, oramai classico, del transumanesimo, cioè di quella corrente di pensiero nata in Inghilterra e che teorizza il diritto a potenziare il corpo ricorrendo alla tecnologia e che da qualche tempo interseca ambiti strettamente medici come lo sviluppo di protesi robotiche e la medicina potenziativa.

Il secondo tema riguarda la rottura dell’ultima barriera fra l’associazione delle manifestazioni esteriori del comportamento umano ai meccanismi che le generano, per finalità diverse da quelle di diagnosi e cura. Da tempo ci sono tentativi per utilizzare tecniche di neuroimaging come “macchina della verità” nei processi giudiziari e da tempo analisi critiche hanno evidenziato i limiti di questo approccio. Questo non ha impedito di continuare su una strada parallela, quella della raccolta dei segnali elettrici del cervello per decodificarli ed associarli a stati fisici e mentali, caso del quale si occupò —in modo peraltro discutibile— la Corte suprema cilena nell’agosto 2023 con una sentenza sull’uso dei dati raccolti da un elettroencefalografo “per uso ludico”.

Mentre il dibattito pubblico —quel poco che è dato di riscontrare— si concentra sui “soliti” argomenti (etica, privacy, uso responsabile ecc.) vengono trascurati due temi che dovrebbero essere analizzati prima degli altri: l’ammissibilità di un uso non medico di queste tecnologie, e la scelta di renderle disponibili a tutti o solo a chi —individuo o Stato sovrano— può permettersele.

Consentire un uso non medico —cioè non curativo— di BCI e ingegneria genetica è una scelta politica che presuppone un modello di società basato sulla definitiva presa di potere da parte di Big Tech e sull’uso geopolitico della superiorità tecnologica in questi settori. Queste aziende potranno intervenire direttamentesul corpo e sulla mente degli individui, invece di dover utilizzare obsoleti strumenti di profilazione che non consentono la raccolta in tempo reale e, nello stesso tempo, governeranno queste tecnologie in barba a qualsiasi controllo pubblico.

I visori a realtà aumentata che iniziano ad affacciarsi sul mercato sono dei precursori di quello che potrebbe accadere con l’uso “ludico” delle BCI. Oggi la realtà viene aumentata da quello che qualche sviluppatore ha deciso di far percepire all’utente tramite la proiezione di immagini sul nervo ottico. Fra qualche tempo —ed è la dichiarata intenzione di chi intende usare queste tecnologie “a scopo ludico”— questo potrà accadere inviando direttamente segnali al cervello, superando la soglia della percezione razionale.

Di fronte a una prospettiva del genere, non ci sono “codici di condotta”, “linee guida per un uso responsabile” o qualsiasi altro “documento di indirizzo” che tengano: l’uso non medico di queste tecnologie dovrebbe essere semplicemente vietato.

Questa scelta, veniamo al tema dell’ingegneria genetica, è già stata presa in rapporto alla clonazione umana: non ci sono, tecnicamente, ostacoli insormontabili alla clonazione della componente fisica d un individuo ma, molto semplicemente e molto chiaramente, la Convenzione di Oviedo vieta questa pratica. Dunque, nulla vieta di vietare anche l’uso di BCI e, in generale, di sistemi che interagiscono direttamente con il cervello o con la sua attività elettrica per scopi diversi da quelli strettamente curativi, nonché delle estremizzazioni transumaniste che invocano impianti tecnologici ma anche trapianti organici.

La posta in gioco, più che la bizzarra idea della “privacy mentale” o dello specismo, è quella della discriminazione basata sulla ricchezza privati e sul ruolo dei poteri pubblici.

In uno Stato dove BCI e ingegneria genetica sono saldamente nelle mani del settore privato, solo il settore privato decide chi può fruirne; in una dimensione internazionale dove uno Stato detiene il controllo di queste tecnologie, solo quello Stato decide a quali altri può esserne consentito l’utilizzo.

Possiamo non usare il termine eugenetica, ma alla fin fine di questo si tratta ed è difficile non ricordare cosa aveva immaginato Aldous Huxley in Brave New World, con l’aggravante che, in questo caso, la discriminazione non lascerebbe speranza a chi è “fuori” dai confini, siano essi quelli del conto corrente, o del proprio (non abbastanza tecnologicamente autonomo) Stato.

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Social network, poteri privati e diritti pubblici

Questo è un estratto della lezione che ho tenuto il 5 febbraio 2022 nel mio corso di Digital Law nell’università di Chieti-Pescara. È passato un anno, ma l’analisi è ancora drammaticamente attuale di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech – La Repubblica Leggi tutto “Social network, poteri privati e diritti pubblici”

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La “privacy” uccide gli esseri umani per proteggere la persona

Con due recenti provvedimenti la Corte europea blocca la conservazione dei dati biometrici da parte delle forze di polizia e il Garante dei dati personali l’uso dell’IA nella prevenzione del terrorismo. Anche la ricerca scientifica è fortemente limitata “in nome della privacy”. Ma è veramente possibile – o accettabile? di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech – La Repubblica Leggi tutto “La “privacy” uccide gli esseri umani per proteggere la persona”

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L’India compie un passo importante verso l’indipendenza tecnologica. Cosa cambia

Nuova Delhi lancia un progetto per costruire, in autonomia, processori basati su standard aperti per liberarsi dai vincoli della tecnologia occidentale. L’analisi di Andrea Monti, professore incaricato di Digital Law, Università di Chieti-Pescara – Inizialmente pubblicato su Formiche.net Leggi tutto “L’India compie un passo importante verso l’indipendenza tecnologica. Cosa cambia”

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GDPR e OpenAI: quanto sono fondate le accuse del Garante?

Non è colpa di OpenAI se le persone si ostinano, contro ogni logica, a usare ChatGPT come sostituto della loro (mancanza di) conoscenza di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech Leggi tutto “GDPR e OpenAI: quanto sono fondate le accuse del Garante?”

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