I governi sono sempre più invadenti nelle politiche sul digitale, per controbilanciare la facilità con cui le aziende tecnologiche hanno preso il predominio di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Wired.it
Le ultime settimane sono state caratterizzati da una serie di eventi, giudiziari e non, uniti dallo stesso filo rosso: il tentativo degli Stati sovrani di riaffermare la propria superiorità sullo strapotere di Big Tech per via giudiziaria e tramite azioni politiche. In realtà il processo è in corso da molto a lungo, e volge, probabilmente, alla fine, il mito della Free Big Internet che è stato alla base della costruzione di imperi economici e tecnologie che, nel bene e nel male, hanno cambiato il mondo.
Il 20 agosto 2024 la corte suprema brasiliana blocca l’accesso a X, qualche giorno dopo Binance, l’exchange di criptovalute, blocca alcuni account palestinesi in odore di terrorismo, il 24 agosto 2024 viene arrestato in Francia il CEO e fondatore di Telegram, con l’accusa di complicità (consistente nel non avere cooperato con la magistratura) in una serie di reati che vanno dalla pedopornografia al riciclaggio, e di importazione illegale di crittografia, il 27 agosto 2024 i media riportano la notizia che Mark Zuckerberg riconosce che Meta, nel 2021, ha censurato post di utenti su pressioni dell’amministrazione americana (anche se il fatto era già noto, tanto da avere dato origine in USA a una causa decisa in modo molto discutibile). Prima ancora, il 21 agosto 2023, ICANN, Arin e APNIC (tre importanti organizzazioni che gestiscono la internet governance) hanno denunciato l’esclusione della tech community dal Global Digital Compact, il progetto dell’ONU per definire un insieme di regole comuni per un “futuro digitale” sicuro; mentre nel 2022 fu la volta del progetto DNS4EU (un resolver pubblico finanziato dalla UE) ad attirare gli strali della comunità che governa di fatto (perché questo è il punto) la Big Internet la quale comunità, nello stesso anno, ha esercitato anche un ruolo attivo e autonomo nel conflitto russo-ucraino. Nel 2019 un executive order del presidente Trump bloccò, per un certo periodo, l’accesso dal Venezuela alle piattaforme di Adobe e nel 2015 Apple rifiutò di cooperare con il FBI per ottenere l’accesso a degli iPhone usati nella strage di San Bernardino.
La lista che documenta la complessa interazione fra poteri pubblici e privati potrebbe continuare a lungo, ma questo elenco è sufficiente per argomentare la tesi di questo articolo: gli Stati (da soli o tramite organizzazioni a-nazionali come l’ONU o la UE) stanno cercando di riprendere il controllo su ambiti, come quello della sicurezza e della sovranità tecnologica, che sono stati colonizzati nel corso del tempo da Big Tech grazie anche all’appropriazione dei “diritti digitali”; ma così facendo li hanno elevati al rango di interlocutori dello stesso livello e dunque con loro devono negoziare invece di imporre.
Che uno Stato intervenga per regolare il mercato, in sé, non è un fatto nuovo: la fortissima tradizione antitrust statunitense ha sempre fatto da contrappeso rispetto alla massa critica raggiunta da aziende “troppo cresciute” come nel caso storico del “break up” della Standard Oil, il gigante petrolifero e, più recentemente in quello che vide protagonista la Microsoft nell’era della “guerra dei browser”. Anche la UE, ma con azioni tattiche e non strategiche, ha da tempo avviato un’azione di contenimento di Big Tech, per esempio con l’inutile provvedimento sui caricabatterie o il regolamento sui servizi digitali. Analogamente, è del tutto ragionevole che uno Stato possa voler prendere il controllo sulla governance della rete in termini di definizione degli standard tecnologici e gestione di IP e nomi a dominio, dopo avere per decenni adottato una politica del laisser faire ma non è detto che questo sia desiderabile, facile e, soprattutto, possibile.
Tuttavia, l’elemento di novità che caratterizza gli ultimi anni e in particolare l’accelerazione delle ultime settimane del rapporto fra Big Tech, free internet e poteri statali è la fine dell’illusione in base alla quale gli Stati mantengono un ruolo di preminenza rispetto alle multinazionali della tecnologia che, mentre lo Stato si è fatto impresa, sono, al contrario, esse diventate Stato.
Certo, uno Stato sovrano può ancora ordinare l’arresto di un CEO per non avere cooperato con le richieste della magistratura, o disporre il blocco dell’accesso a una determinata piattaforma. Nello stesso tempo, però, Big Tech e internet governance interloquiscono da pari a pari e svolgono un ruolo ineliminabile nell’esercizio di poteri che, un tempo, spettavano solo allo Stato.
Il caso paradigmatico è il regolamento europeo su servizi digitali che, formalmente, detta regole ferree sui doveri delle VLOP, le very large online platform, ma che nei fatti delega loro il potere di decidere cosa sia lecito, cosa non lo sia e cosa sia “inappropriato” senza che un giudice possa avere voce in capitolo. Analogamente, sono gli operatori di accesso e gli internet provider ad essere stati delegati a detenere informazioni (i log di accesso) che sono indispensabili per le attività giudiziarie e a gestire infrastrutture (per esempio i DNS) per attuare provvedimenti delle autorità, come nel caso della legge “antipezzotto”. Infine, sono i grandi cloud provider a controllare l’interruttore che, in qualsiasi momento, potrebbe disattivare l’accesso di istituzioni, aziende e cittadini a servizi indispensabili per vivere e lavorare, oltre che a decidere gli standard tecnologici sulla base dei quali deve funzionare la rete.
È chiaro che per orientarsi in uno scenario come questo si dovrebbe partire dalla presa d’atto che la regolamentazione tecnologica è oramai condizionata da un multipolarismo prima di fatto e ora anche di diritto, che, per quanto possa sembrare paradossale, ricorda quello medievale dove i centri di potere non erano unicamente nelle mani dei sovrani.
Il caso dell’intelligenza artificiale, a prescindere dalle componenti speculativo-finanziarie, è l’ennesima dimostrazione della correttezza di questa tesi, almeno per quanto riguarda il mondo occidentale: persino aziende “neonate”, senza storia e tradizione industriale, grazie alla superiorità tecnologica possono arrivare in fretta al punto di rappresentare un interlocutore del quale nessun soggetto politico può pensare di fare a meno.
Perlomeno, dalle nostre parti.
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