Linux&Co n.ro 12
di Andrea Monti
Mentre persino i colossi dell’IT hanno pesantemente investito nel mondo del software libero, l’apparato amministrativo dello Stato è ancora alla fonda. Nonostante le molte buone ragioni che dovrebbero indurre la Pubblica Amministrazione italiana a dotarsi di sistemi Open Source, nella realtà dei fatti siamo lontani anni luce da un effettivo “cambio di rotta” che faccia puntare il Titanic amministrativo dello Stato verso porti più attrezzati, moderni e sicuri evitandogli la collisione con l’iceberg di turno.
Ci sono alcuni timidi segnali. Con uno strepito forse maggiore rispetto alla effettiva consistenza del progetto (ma sempre in tono minore), la stampa italiana ha annunciato l’avvio da parte dell’Autorità per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione (http://www.aipa.it) di un “progetto sperimentale” basato su tecnologie libere. Che gli entusiasti (e anche qualche “interessato”) hanno salutato con grande favore, mentre gli scettici – come il sottoscritto – hanno guardato con qualche perplessità.
I dubbi derivano dal fatto che l’impiego di sistemi Open Source non è soltanto una scelta tecnica ma un vero e proprio mutamento radicale di prospettiva nella gestione dei sistemi pubblici. Che non si può gestire, come ha chiaramente affermato l’AIPA, senza una precisa “volontà politica” che determini le “scelte strategiche” da compiere. Al di là del politichese, tuttavia, se da un lato è corretto affermare la necessità di un indirizzo “dall’alto” è anche falso che non si possa fare niente per diffondere il software libero nella PA.
Un esempio concreto riguarda il sistema attuale di gestione delle gare pubbliche per l’informatizzazione. Attualmente chi volesse partecipare ad una gara d’appalto per fornire servizi ad una Pubblica Amministrazione si trova in una posizione di oggettiva difficoltà dovuta alla formulazione dei bandi. Che invece di contenere le descrizioni delle funzionalità richieste lasciando ai partecipanti la scelta delle tecnologie limitano alla base la possibilità di “uscire dal seminato”. In altri termini, è come se le richieste fossero di questo tipo: vendetemi qualsiasi automobile, purché sia tedesca, abbia un nome di tre lettere e identifichi i modelli con sigle di tre cifre, la prima delle quali dispari e non inferiore a tre. E’ evidente, per tornare al caso concreto, che un concorrente intenzionato a partecipare con piattaforme Linux, BSD o altro, avrà delle chance estremamente ridotte.
Un altro limite oggettivo è quello della tipologia di applicazioni. Se in ambito networking i sistemi operativi liberi possono offrire prestazioni e affidabilità comparabili – se non superiori – ai loro equivalenti proprietari, quando si passa ai programmi applicativi le cose cambiano in peggio. Per quanto disastrato, il parco software della P.A. è popolato di elementi, certo, molto eterogenei e obsoleti ma comunque oramai presenti. Effettuare il porting o riconvertire tutto questo è un’impresa veramente titanica, in assenza della quale, tuttavia, lo charme dell’Open Source diminuisce parecchio. E’ anche vero, peraltro, che nulla vieterebbe per il futuro di cambiare strada.
Ma le resistenze contro il free software non sono solo un problema di tecnologia. Ci sono anche delle forti inerzie da vincere. Come la tendenza – estremamente diffusa in ambito pubblico – a praticare lo “scaricabarile”. Quando un fornitore vince una gara, egli offre tecnologia ma soprattutto (almeno sulla carta) supporto tecnico. Il che significa consentire all’interfaccia amministrativa di chiamarsi fuori in caso di problemi: che ci pensi l’assistenza. Allo stato, in Italia, non esistono soggetti in grado di offrire un supporto tecnico delle dimensioni e qualità necessarie per soddisfare le necessità delle amministrazioni locali e centrali.
Strettamente collegato al tema “scaricabarile” c’è poi un problema di “marca” o, se preferite, di notorietà. Mettetevi nei panni di chi deve compiere scelte del valore di svariati miliardi (con le responsabilità anche penali che questo implica) e poi scegliete fra nomi del calibro di IBM, Compaq o HP e la NewTech s.n.c. di Magliano dei Marsi. Credo che non ci voglia molto a capire da che parte penda la bilancia. In altri termini, fino a quando certi prodotti non vengono messi a listino da colossi come quelli appena indicati (che lo hanno peraltro fatto) è difficile pensare ad un’alternativa concreta. Non va poi sottovalutata l’azione di chi già gode di una rendita di posizione che non vede certo di buon occhio l’ingresso di altri galli nel pollaio. In altri termini –come insegna la storia commerciale delle tecnologie (e non solo) – non sempre è il prodotto migliore che conquista il mercato. Il risultato è che i “corridoisti” e le società di relazioni pubbliche si staranno dando un gran da fare per “orientare” verso la “conservazione dell’esistente” chi ha il potere di decidere. Sfruttando le molte ingenuità di chi non conosce appieno la difficile pratica dello “stringere le mani”, mentre, almeno per ora, non esiste chi fa lobbying a favore del software libero.
Il risultato di tutto questo è che – almeno fino a quando qualche gigante dell’industria non deciderà di muoversi – l’introduzione di sistemi aperti nella Pubblica Amministrazione è spesso lasciata alla buona volontà di qualche dipendente. Che, in mezzo a mille ostacoli e talvolta all’insaputa dei vertici dell’ufficio, comincia a “mettere lì” una Linux Box, nell’indifferenza o – peggio – subendo il dileggio dei colleghi. Si tratta però di situazioni estemporanee che non rientrano in un progetto articolato e dunque vengono viste piuttosto come delle scomode eccezioni piuttosto che come dei contributi fattivi.
In questa situazione difficile non aiuta certo la confusione che caratterizza il mondo del software libero che – se intende porsi come interlocutore di organizzazioni pubbliche – ha necessariamente bisogno di un salto di qualità nell’immagine e nelle strategie. La “guerra delle distribuzioni”, un certo atteggiamento da sysop di piccola BBS tuttora abbastanza diffuso (all’insegna del “il giocattolo è mio e quindi decido io”) non danno certo un grande aiuto allo scopo. Specie poi, come hanno detto Eric Raymond e Tim O’Reilly, se l’immagine del prodotto è associata ad ambienti ideologicizzati che rendono ostile un certo tipo di interlocutore (e anche l’Italia non è immune da questo problema). Intendiamoci, non c’è assolutamente nulla di male – anzi – nel sostenere il “politico” del software libero. Ma bisogna mettersi in testa che il business ha le proprie regole. Che possono anche non piacere, ma ci sono e vanno rispettate. Del resto, ancora il “dinamico duo” O-Reilly/Raymond ha tirato fuori dal cappello la Open Source Intiative proprio per “emancipare” il software libero dal ghetto culturale e commerciale nel quale si stava autoconfinando.
Tirando le somme…E’ sempre difficile fare previsioni, però allo stato dei fatti sono ragionevolmente convinto (pur sperando di sbagliare) che se mai il software libero entrerà mai a pieno titolo nelle amministrazioni questo accadrà sostanzialmente per via delle grandi multinazionali dell’informatica, le uniche in possesso delle risorse tecniche e della forza commerciale per raggiungere il risultato. Una volta aperto il varco, poi, dovrebbe anche essere possibile per soggetti più piccoli insinuarsi e operare grazie all’indotto così venutosi a creare.
Certo, se lo Stato “desse una mano” adottando precise scelte politiche, finanziando (come in Germania) progetti basati sul software libero e se più in generale si dimostrasse disposto ad ascoltare chi – pur se al di fuori del “coro” – è dotato delle opportune cognizioni tecniche, tutto sarebbe più facile. Evitando, fra l’altro, il “riciclarsi” di note strategie commerciali e quindi, in sostanza, limitando il rischio di passare da un monopolio all’altro.
Per concludere: se volete veramente sapere in poche parole quale sia l’ostacolo alla diffusione dell’Open Source, date un’occhiata all’ultimo libro di Neal Stephenson In the beginning was the command line… meglio di così non si può spiegare.
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