La pandemia e la guerra e la (il)logica del “secondo me” di Andrea Monti – Originariamente pubblicato da Strategikon – un blog di Italian Tech
Polarizzazione delle posizioni, opinioni formulate da “esperti” privi di reale qualificazione o da soggetti che non si sono mai occupati di un determinato argomento ma che parlano ugualmente, necessità di generare traffico per sostenere la monetizzazione dei contenuti, ricerca parossistica della visibilità ad ogni costo, autoreferenzialità degli influencer spinta all’estremo, indignazione “morale” che prevale sulla legge e sui principi di diritto… Sembra l’ennesimo atto di accusa contro gli effetti destabilizzanti causati dai social network ma in realtà riguarda il mondo della cosiddetta “informazione professionale” che negli ultimi mesi ha dimostrato macroscopicamente e definitivamente di essere affetta dagli stessi mali.
Per limitarci a casi recenti, basta rilevare che c’è un filo rosso, spesso in realtà quanto una gómena, che lega la comunicazione su Coronavirus, elezione del Presidente della Repubblica, crisi energetica e questione ucraina.
Come nei film di azione hollywoodiani dove la trama è sempre la stessa e cambia solo l’ambientazione – praterie sconfinate o pianeti ai confini della galassia – l’informazione professionale ha sostanzialmente abdicato al proprio ruolo di mediatore fra i fatti e le persone per diventare un amplificatore di opinioni. Questo è accaduto anche e in modo particolare in diverse trasmissioni televisive mainstream dove i conduttori hanno assunto una posizione partigiana a priori orientando unilateralmente secondo le proprie convizioni le scalette dei programmi. I contenuti e la forma dei servizi, la selezione, l’autorevolezza e la diversa “presentabilità” degli ospiti, il “manico” nella gestione del dibattito, tutto è finalizzato a sostenere una tesi o a generare semplicemente polemica.
Intendiamoci, chiunque ha diritto di manifestare le proprie idee, ma non è vero che tutte le idee sono uguali. Ci sono idee giuste e idee sbagliate. La Costituzione protegge il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, ma non quello di avere ragione. Per dirla sinteticamente, il diritto alla libertà di parola non vuol dire diritto alle parole in libertà. Questo principio vale non solo per il normale cittadino, ma anche e soprattutto per chi opera professionalmente nel mondo dell’informazione e rivendica un ruolo di garanzia nei confronti dell’opinione pubblica.
È estremamente difficile tirare una linea fra le necessità, spesso dure, della cronaca di eventi drammatici e il loro sfruttamento da click-bait (tema peraltro non nuovo, e dibattuto nella forma dell’estetica della miseria già dal secolo scorso). C’è, tuttavia, qualcosa di profondamente disturbante in dibattiti con bombardamenti sullo sfondo che ricordano le diatribe infinite, inconcludenti – e per questo attraenti – del Processo del Lunedì, nell’invito a “seguire la guerra minuto per minuto” come se fosse l’evoluzione di un reality show o, peggio, uno snuff-movie, nella ripetizione acritica di questa o quella narrativa, in funzione dello schieramento nel quale si è scelto di militare, ma dopo trenta secondi di pubblicità.
Come molti altri fenomeni, questo cambiamento dei media professionali è stato indotto dal modo in cui sono state diffuse le tecnologie dell’informazione e dalla trasformazione delle persone in consumatori perfettamente descritta dalla distopia camuffata da cartone animato raccontata in Wall-E.
Ogni giorno, in tutto il mondo, accadono eventi che meritano di essere raccontati. Prima, i tempi di diffusione delle notizie e la possibilità di accedere ai fatti erano molto dilatati. Questo implicava la possibilità di “pensare” la scelta editoriale e, prima ancora, di “capire” l’evento.
L’azzeramento del tempo-spazio fra un evento e la sua trasformazione in notizia reso possibile dalle tecnologie dell’informazione ne cambia strutturalmente il processo di sfruttamento industriale ed economico. Assemblare informazioni realmente originali, in tempo reale e su qualsiasi evento rilevante è estremamente costoso; e lo diventa ancora di più se la necessità è essere online “h24-24/7”.
Inoltre, di fronte a complessità e sovrabbondanza di eventi nessun giornalista può seriamente pensare di essere esperto di qualsiasi argomento ad un livello tale da potersene occupare con reale cognizione di causa in così poco tempo. Di conseguenza, non è possibile porre domande sensate all’ “esperto” ma soprattutto non possibile capirne le risposte. Tuttavia, complice anche la necessità di occupare tempo di trasmissione, spazi su giornali, feed e post su piattaforme di content-sharing è sempre più irresistibile la tentazione di cedere alla seduzione del “secondo me”. Anche l’informazione professionale diventa, così, opinione individuale, autoreferenziale e – spesso – semplicemente sbagliata.
L’obiettivo non è più far comprendere, ma far prevalere la propria tesi.
È necessario rifuggire dalle complicazioni delle tecnicalità. Sono troppo complesse da spiegare (e prima ancora da comprendere) e dunque inutili per “agganciare” lo spettatore. Serve sostituirle con semplificazioni imprecise e non rigorose che, però, servono allo scopo.
Oportet – è latino, non russo – produrre scariche di dopamina o adrenalina, né più né meno come accade con il marketing di alcool, droghe ed esperienze estreme. L’imperativo è vendere piacere invece di consapevolezza.
Un esempio è la famosa “sentenza del tribunale di Pisa” che qualche settimana fa ha analizzato criticamente le scelte governative nella gestione della pandemia. Pone delle questioni serie e complesse note da tempo. Non necessariamente offre soluzioni condivisibili, ma senza, senza approfondimenti in un senso o nell’altro, è stata oggetto di polemica sui media per il solo fatto di essere stata emanata.
Un altro esempio è la recente (e già dimenticata) questione del valore dei messaggi Whatsapp nel caso Open. Coinvolge(va) il cuore dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione , il potere/dovere della magistratura di indagare e processare gli accusati di un reato e i limiti dell’immunità parlamentare. Sono argomenti sui quali sarebbe stato necessario dibattere in modo approfondito, ma che si sono dissolti in poco tempo bruciati nelle usuali flame appiccate in talk-show e articoli di giornali.
Infine, per venire ai fatti di oggi, un ulteriore esempio è il dibattito sul “se” e sul “come” fornire armi e mezzi all’Ucraina. L’argomento è estremamente complesso non solo da un punto di vista politico ma anche da quello del diritto internazionale e di quello bellico. Sono poche le persone che possono occuparsi di questi temi con reale competenza. Basta pensare, per esempio, alle implicazioni degli Alabama Claims, la disputa diplomatica fra Regno Unito e Usa che, alla fine del 1800 si concluse con il risarcimento pagato dalla Corona per avere violato il principio di neutralità fornendo ai Sudisti americani navi poi utilizzate nella guerra civile contro il Nord. Questo principio di diritto si applica al conflitto Russo-Ucraino? Se si, è possibile decidere con un semplice decreto-legge? È compatibile con l’uso dello stato di emergenza di protezione civile? Rischiamo di dover pagare “danni di guerra” per avere preso le parti di un belligerante (o per non averlo fatto sino in fondo)?
Come detto, sono questioni complesse che non possono essere “maneggiate” da chi – e questo vale anche per i parlamentari – è privo di una salda preparazione tecnica. Esserne privo, tuttavia, non impedisce, o addirittura favorisce, decisioni (quali che siano) basate sul do the right thing invece che su una valutazione razionale delle opzioni disponibili. Il tutto, dibattuto più a lungo in un talk-show invece che nelle sedi proprie.
Questa dissonante consonanza fra politica e informazione evidenzia un diverso modo di influenzare l’opinione pubblica. La propaganda di stampo fascista basata sulle veline del Minculpop e ampiamente praticata anche durante la Guerra Fredda è stata prima superata dalla prop-agenda teorizzata da Noam Chomsky e, oggi, dalla scelta di far prevalere le opinioni sulla competenza, di far vincere Gorgia su Socrate.
L’elemento caratterizzante del modo in cui sono gestite le grandi questioni che agitano il Paese, dunque, è l’inquinamento del dibattito pubblico non solo e non tanto con l’uso distorto delle piattaforme di social networking. La costruzione di un consenso basato sull’irrazionalità dipende anche dall’informazione professionale che strizza l’occhio a questi meccanismi e dei quale si serve senza alcuna moderazione.
Sarebbe importante aprire una riflessione seria per capire cosa stia accadendo perché mai come oggi l’informazione professionale sta influenzando direttamente la sopravvivenza di individui e di comunità. Rimane tuttavia, la rassicurante consapevolezza che questo non accadrà. Non, perlomeno, per via di questo articolo che di sicuro non verrà letto.
Troppo lungo, troppo articolato, troppo difficile da metabolizzare.
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