Due eventi (una giuridico e uno politico) apparentemente non correlati evidenziano l’incapacità dei decisori di rapportarsi in modo sensato con il metodo scientifico. Non è un ritorno Lysenko, ma è preoccupante l’assenza di una prospettiva razionale nell’uso della scienza per giustificare scelte che incidono direttamente sulla vita delle persone di Andrea Monti – Originariamente pubblicato da Scienza in Rete
Nel giro di pochi mesi, diritto e politica sono stati messi di fronte alla necessità di decidere questioni che non potevano essere gestite con il semplice esercizio dell’autorità. Lo scorso dicembre, un’ordinanza del Consiglio di Stato ha deciso, pur in via provvisoria, che l’idrossiclorochina poteva essere prescritta off-label ai malati di COVID-19 in condizioni non gravi. Due settimane fa, poi, in molti paesi europei la somministrazione del vaccino AstraZeneca è stata prima sospesa e poi ripresa dopo il parere dell’EMA per via di alcuni casi di due tipi molto rari di trombosi (alcuni dei quali letali) manifestatisi dopo la vaccinazione.
Nel primo caso, la decisione è stata motivata affermando il principio, epistemolgicamente incomprensibile, che l’assenza di prova di inefficacia equivale a prova di non inefficacia. Nel secondo caso, l’esistenza di meccanismi biologici plausibili in grado di spiegare l’associazione tra vaccinazione ed eventi avversi, seppure rarissimi, ha spinto i decisori a interrompere le somministrazioni, in attesa di “chiarimenti” dalle “autorità competenti”. In ambedue i casi il problema non è la conclusione —cioè che cosa è stato deciso— ma il come ci si è arrivati.
L’ordinanza del Consiglio di Stato evidenzia parecchie criticità, dalla confusione fra scienza e medicina a quella fra causalità e correlazione, dall’imprecisa percezione del funzionamento della ricerca al sottile —ma progressivo e continuo— cambio di senso per cui si nega e afferma contemporaneamente il diritto a “cure” difficilmente qualificabili come tali (qui è disponibile un approfondimento).
La scelta di bloccare le vaccinazioni soffre degli stessi difetti e in più è affetta dalla strumentalizzazione di un lessico ampiamente praticato nella comunicazione scientifica —e in quella medica— basata sul “non ci sono evidenze che gli eventi avversi non siano stati causati dal vaccino”. Da constatazione puramente fattuale, nel linguaggio dei media, della politica e del diritto “non ci sono evidenze” diventa un grimaldello per giustificare qualsiasi cosa. In entrambi i casi è manifesta l’applicazione classica di questo paralogismo: se una certa cosa non è dimostrabile oggi, in futuro potrebbe diventare possibile farlo. Dunque, nel frattempo e nel caso specifico, nulla osta a somministrare ugualmente il farmaco oppure a sospendere la campagna vaccinale anche se non ci sono elementi sufficienti a stabilire che gli effetti collaterali, anche fatali, siano stati causati dai vaccini. Oggi non lo sappiamo, ma domani… chissà?
Il vizio del ragionamento è evidente: il fatto che un essere umano non possa volare senza utilizzare macchinari era, è e rimarrà vero a prescindere dal tempo che passa. Non esiste, in altri termini, una legge secondo la quale, deterministicamente, ciò che non è dimostrabile oggi lo diventerà domani. In realtà, la questione è più sottile.
L’ordinanza del Consiglio di Stato è basata sul ruolo dei dati come portatori di verità e non sulla possibilità di fornire una dimostrazione scientifica dell’efficacia dell’idrossiclorochina. La decisione sulla somministrabilità del farmaco, in altri termini, è basata sull’incertezza dei risultati delle ricerche – o sull’incapacità di comprenderli.
Questo è un aspetto importante dell’intero procedimento argomentativo dell’ordinanza: i giudici prendono per buoni i risultati più diversi, da quelli pubblicati in studi a quelli che arrivano da “esperienze sul campo”. Vengono accomunati, quanto a valore di verità, predicati formulati in ambiti diversissimi e non direttamente comparabili, non citati, e senza spendere una parola per analizzare il rigore del metodo che li ha prodotti. Siamo di fronte a un classico caso di giudice come peritus peritorum, l’attributo che, per legge e non per scienza, lo trasforma in un soggetto capace di dire l’ultima parola sul valore dei risultati di analisi e ricerche.
Analogamente, la scelta politica di bloccare le vaccinazioni è stata adottata ignorando i suggerimenti di chi conosce il metodo scientifico e si mette a disposizione del decisore. Era altamente improbabile che gli esperti dell’EMA chiamati a valutare le cause dei decessi potessero raggiungere nel giro di pochi giorni risultati che i trial —pur accelerati per via dell’emergenza— hanno prodotto in mesi. E difficilmente, di conseguenza, qualsiasi dichiarazione istituzionale avrebbe potuto avere un valore scientificamente consistente.
Come ho avuto modo di spiegare nel libro “COVID-19 and Public Policy in the Digital Age”,
Politicians either assigned their choices to scientists and ‘experts’, or used them as lightning rods to justify their decisions. In other cases—such as in the ‘dialectic’ between President Trump and leading virologist, Anthony Fauci—technical advice that does not accord with political strategy is adopted with considerable resistance.
Ci sono, tuttavia, due altri elementi da considerare in questa vicenda: la diffusa incapacità delle persone di utilizzare il pensiero critico e lo scarso rigore dei mezzi di informazione generalisti che promuovono un approccio alla scienza (confusa acriticamente con la medicina) basato sulla fiducia, cioè sulla fede. Ma la scienza non è una religione: non “promette” né “garantisce” alcunché. Così come la medicina non promette di guarire ma di curare. Così come i farmaci intervengono su una malattia ma non sono innocui.
Benché queste considerazioni siano banali, non fanno parte di una cultura condivisa che, invece, è caratterizzata da comportamenti irrazionali, alimentati dall’accentuazione di eventi singoli da parte dei mezzi di informazione generalisti che, nella foga di avere qualcosa da dire continuano a parlare pur non avendo elementi. È la vittoria del “pensiero indebolito”, quello che non vuole —o non può perché non sa come si fa— “conoscere per deliberare” ma che ha bisogno di qualcuno che lo faccia per lui. Questa incapacità individuale nell’utilizzo del pensiero razionale ha come effetto collettivo l’impossibilità di adottare scelte efficienti di public policy perché non sarebbero comprese (non solo da chi le deve subire) e quindi rimarrebbero inapplicate.
È vero che siamo di fronte all’eterno dibattito fra Socrate e Gorgia, ma il tema è a maggior ragione rilevante. L’educazione alla filosofia aiuta i processi decisionali individuali, favorisce l’adozione di politiche razionali, consente di esercitare il controllo diffuso sull’operato del potere esecutivo. L’alternativa, della quale stiamo cominciando a vedere gli effetti, è invece quella dell’adozione di scelte di politica pubblica basate sulla pressione del momento, sulla negazione della realtà o —peggio— sulla pretesa di piegarla alle necessità del potere.
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