Bloccato, ma solo per ora, il tentativo di riformare a livello europeo (in peggio) il “copyright”. L’Italia in prima linea per limitare i diritti di chi fruisce legalmente di musica e film
di Andrea Monti – Audioreview n. 401
Lo scorso 5 luglio il Parlamento Europeo ha rigettato la proposta di direttiva sul diritto d’autore che – se approvata – avrebbe imposto ai fornitori di servizi internet di censurare le attività dei propri utenti, bloccando la diffusione di contenuti ritenuti illeciti senza che un giudice li abbia dichiarati tali.
Se fosse passato questo testo, ogni utente di piattaforme di social networking o di servizi analoghi sarebbe stato considerato un “delinquente presunto”, il cui comporatamento sarebbe dovuto essere soggetto ad analisi automatizzata e preventiva da parte dei sistemi del gestore della piattaforme, che avrebbero deciso se un certo contenuto fosse da pubblicare o meno.
Se non fosse stato per la scelta di Wikipedia di auto-oscurare le proprie pagine, così creando un caso a livello internazionale, l’esito del voto del 5 luglio sarebbe stato molto probabilmente diverso e ora ci troveremmo di fronte a una normativa liberticida e dannosa per i cittadini dell’Unione, specie per quelli che, giustamente, spendono soldi per acquistare il diritto di fruire di opere creative e – in particolare – di musica.
Ma perché questa direttiva sarebbe un problema per gli audiofili o per gli appassionati di musica e audio?
Partiamo da una considerazione fattuale sul mercato della musica: in modo ipocrita, i sostenitori della direttiva continuano a presentare il diritto d’autore come una norma a tutela degli artisti e dei compositori quando invece chi si avvantaggia del lavoro creativo sono i detentori dei diritti di sfruttamento economico delle opere. Cioè editori ed etichette discografiche, il cui obiettivo non è promuovere la cultura ma fare utili.
Per fare utili c’è solo una regola, che vale in qualsiasi comparto industriale: vendere il più possibile al maggior numero di persone possibile un prodotto realizzato spendendo il meno possibile.
Nel mondo della musica che genera fatturato questo si traduce nella selezione – o addirittura nella creazione a tavolino – di “progetti” che devono “suonare” come qualcosa che già ha prodotto utili.
A riprova, basta guardare le classifiche di vendita degli ultimi anni: fra il 2012 e il 2017, tralasciando “incidenti di percorso” come Deep Purple, Bruce Springsteen, Renato Zero o Pink Floyd, i protagonisti del fatturato dell’industria musicale sono Alessandra Amoroso, Dear Jack, Biagio Antonacci, Zucchero, Tiziano Ferro, Jovanotti, Cesare Cremonini e via discorrendo.
Non entro minimamente nella polemica sciocca e inutile di cosa sia “musica” e di cosa non lo sia – e di conseguenza di “chi” possa essere definito artista. Quello che mi interessa evidenziare è la natura più spiccatamente commerciale dei prodotti musicali che “vendono” rispetto a dischi che dalle royalty non percepiscono certamente chissà quali introiti e che hanno una funzione di conservazione della memoria più che di arricchimento dell’artista.
Quante copie avrà venduto Bireli Lagrene del suo Standards? O Frank Gambale di Raison d’être? E Livio Gianola di Otrio Sitio?
Non lo so, e forse non lo sanno neanche loro, perché nella classifiche delle “galline dalle uova d’oro” questi artisti non ci sono e non ci saranno mai.
E allora torniamo alla domanda iniziale: chi vuole “tutelare” questa direttiva europea sul copyright?
Risposta: non certo, in prima battuta gli artisti.
Ma nemmeno le piccole etichette indipendenti, i canali di distribuzione “alternativi” (ma si possono ancora chiamare così) o i tanti Davide – come Soundreef – che si oppongono al Golia-SIAE, che protegge solo gli interessi dei propri iscritti ma esercita un controllo inaccettabilmente esteso anche su chi abita ai “margini” della Società o addirittura non ne fa parte.
E’ difficile evitare di pensare dunque che questa proposta di direttiva, mascherata dal paternalistico apprezzamento per l’arte e la cultura, sia in realtà formulata in nome della tutela degli interessi delle grandi realtà industriali dell’intrattenimento.
C’è da sperare che il voto contrario della maggioranza del Parlamento Europeo rimetta in discussione il testo della direttiva sin dal suo fondamento. Ma sono pessimista e – pur sperando di sbagliarmi – al netto di qualche compromesso politico basato su virgole e accenti, l’impianto rimarrà quello originario. E il prezzo che tutti noi pagheremo, quando questa direttiva sarà definitivamente approvata, sarà trovarci costantemente sottoposti al controllo da parte del nostro internet provider che, per legge, dovrà comportarsi da poliziotto, giudice e boia ogni volta che, per qualche ragione, commetteremo l’atroce reato di ascoltare della musica online.
Sì, perché invece di lasciare che sia un giudice a stabilire se abbiamo violato i diritti di qualcuno, questa direttiva stabilisce il principio che l’internet provider – un soggetto privato – deve adottare dei sistemi automatici che “proteggono il copyright” bloccando o rimuovendo ciò che sarebbe qualificato come “contenuto illegale” sulla base di non meglio identificati criteri.
Abbiamo già visto come funzionano sistemi del genere: Facebook censura fotografie di guerra scambiandole per foto oscene e statue classiche vengono considerate “inappropriate” secondo gli standard puritani di qualche oscuro moderatore non si sa in quale continente posizionato. A poco serve che, dopo la protesta di qualche giornale online, il provider di turno “chieda scusa”, perché il danno culturale, oramai, è fatto.
Così, quando la prossima volta che vorrete ascoltarlo non troverete più disponibile, su Youtube, Scenery l’album pubblicato nel 1976 dal pianista Ryo Fukui, saprete chi ringraziare.
Anche se il disco è fuori mercato, anche se in Europa non si trova, anche si tratta di un’opera di nicchia e non è giusto privare le persone della possibilità di ascoltarla, non ha importanza.
Ciò che conta è buttare via il bambino con l’acqua sporca perché i soldi non puzzano.
Mai.
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