Il tragico incidente nel quale ha perso la vita una bimba di dieci anni ha riproposto il tema del rapporto tra minori e social network. Si invocano nuove regole, ma servono veramente? di Andrea Monti – Originariamente pubblicato da PC Professionale – n. 360
Dopo la tragica morte della bimba siciliana, che ha perso la vita per partecipare a una challenge lanciata tramite Tik- Tok, i media, le istituzioni e i politici hanno invocato a gran voce “leggi speciali” e “regole ad hoc” per l’uso dei social network. Il Garante dei dati personali, dopo avere avviato una verifica sulla compatibilità delle policy del social network con la normativa sulla protezione dei dati, ha rilevato l’assenza di un controllo efficace sull’età del soggetto che attiva un account e ha disposto il blocco del trattamento dei dati dei cittadini italiani. Tuttavia, prima che l’autorità si pronunciasse definitivamente, TikTok ha comunicato di voler adotta re spontaneamente le misure suggerite, e dunque bloccherà l’accesso ai minori di tredici anni adottando una serie di misure tecnologiche. Inoltre, si farà carico di una campagna di sensibilizzazione. Problema risolto? Per nulla.
In primo luogo, ma è una tecnicalità legale, è alquanto improbabile che un’autorità indipendente italiana possa emanare provvedimenti desti- nati ad avere efficacia diretta in un’altra giurisdizione. È vero che il Regolamento sulla protezione dei dati personali prevede che le tutele della normativa europea si applichino a chiunque e ovunque tratti i dati di cittadini italiani. Ma questo non significa che si possono “saltare” le procedure di cooperazione internazionale e i trattati. Che, come si dirà fra poco, TikTok abbia comunque scelto di accogliere le richieste del Garante italiano poco rileva. È piuttosto una scelta di opportunità che di effettivo obbligo giuridico. Inoltre, se facciamo un po’ di storia, ci rendiamo conto che i problemi legati all’utilizzo dell’accesso alla Rete e ai relativi servizi erano perfettamente noti dall’inizio ad aziende, media, istituzioni e famiglie.
Era il 1996 quando in rappresentanza dell’Associazione per la libertà nella comunicazione elettronica interattiva (ALCEI) intervenni al Consumer Forum Intergroup presso il Parlamento Europeo sul tema “Internet e minori”. Il titolo della relazione fu “Lasceresti un bambino da solo in mezzo all’autostrada?”.
La posizione espressa era semplice: i genitori non possono trattare Internet come una baby-sitter e devono assumersi le proprie responsabilità. Lo vuole il buon senso ma, soprattutto, il Codice civile. Il minore – che si chiama così per una ragione – non è autonomo. Non può stipulare contratti, inclusi quelli “gratuiti” per l’apertura di account su piattaforme di vario tipo, né avere a disposizione uno smartphone e un accesso alla Rete.
Anche se non molti ricorderanno ancora il periodo dei telefoni a disco e della famigerata Tariffa Urbana a Tempo dell’era SIP, già allora il Regolamento di servizio per l’abbonamento telefonico risalente al 1984 prevedeva l’obbligo per l’abbonato di custodire l’apparecchio telefonico e di evitarne usi impropri. Curiosamente, però, quando il Videotel venne lanciato sul mercato dei servizi di telecomunicazioni fu proprio l’assenza di una identificazione forte dell’utente ad agevolare la commissione di una consistente quantità di frodi basate sul riutilizzo illecito di NUA (le password dell’epoca).
Con l’arrivo dell’internet per tutti, verso il 1994, la disattenzione alla verifica dell’identità dell’abbonato continuò imperterrita. La prevalenza della necessità di aprire il mercato fece mettere da parte gli aspetti legali, visti come “cavilli” che rallentavano la nascita della “società dell’informazione”. Il modello di business basato sul “gratis”, sviluppato a partire dai primi anni duemila, ha dato il colpo di grazia al tema dell’identità dell’abbonato e alla relativa responsabilità giuridica.
Se, dunque, a distanza di più di trent’anni dai tempi del Videotel, stiamo ancora parlando di identificare o meno chi accede a un servizio di telecomunicazioni, vuol dire che più di qualcosa non ha funzionato nel nostro sistema normativo e regolamentare. Soprattutto, qualcosa non ha funzionato nel modo di evitare che i bambini fossero trasformati in consumatori e poi utenti inconsapevoli e facilmente condizionabili.
Alle limitazioni della pubblicità dei prodotti per minorenni, infatti, non ha corrisposto un’analoga attenzione sostanziale per i servizi basati su Internet.
Ora come allora, per stipulare un contratto che consenta di usufruire di un servizio (gratuito o meno) bisogna essere maggiorenni. È un dovere di chi offre il servizio verificare la capacità giuridica del contraente, ed è un obbligo di chi consente l’utilizzo del servizio a un minorenne sorvegliare il modo in cui usa l’accesso e la piattaforma. Non servono nuove leggi o provvedimenti individuali. Basta rispettare le regole che ci sono da oltre cinquant’anni.
Il problema è che se lo si facesse, tutti i contratti stipulati direttamente dai minori, anche quelli che hanno più di tredici anni come pure richiesto dal Garante dei dati personali, sarebbero annnullabili. Non hanno valore giuridico. E quindi i fornitori di servizio non solo non dovrebbero consentire l’accesso, ma non dovrebbero nemmeno trattare i dati dei loro utenti-minori. Sarebbe il crollo di un modello operativo basato sull’acquisizione massiccia e indiscriminata di informazioni su chiunque, a prescindere dall’età.
Inoltre: perché solo TikTok dovrebbe controllare l’età di chi vuole usare il proprio servizio e gli altri no? E se pure si decidesse di farlo, come si risolve il problema del consentire ’accesso a un ragazzino di tredici anni? Peraltro, coerentemente, se a quell’età un tredicenne è in grado di stipulare un contratto e assumersi la responsabilità del modo in cui utilizza un servizio di comunicazione elettronica, allora potrebbe anche votare. O no?
Ma non è solo la componente business dei servizi di comunicazione elettronica ad avere delle responsabilità. Come detto, che i minori non possano intrattenere rapporti giuridici è noto da decenni. Come è noto da decenni che questo obbligo giuridico è sostanzialmente
disapplicato da chiunque. È inevitabile chiedersi, dunque, per quali ragioni le autorità indipendenti – quella dei dati personali, l’Autorità per le comunicazioni e l’Autorità per la concorrenza ed il mercato – non abbiano mai adottato misure concretamente efficaci per arginare il fenomeno. Se è possibile ora, era possibile anche allora. E se non accadrà nemmeno questa volta, vorrà dire che – spenti i fuochi di paglia dell’indignazione social – tutto tornerà come prima. Pecunia dicevano gli antichi, non olet. I soldi non puzzano.
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