Cosa c’è di nuovo nel Metaverso?

Il “Metaverso” annunciato da Meta-Facebook e da Microsoft non è ancora largamente disponibile per gli utenti, ma ha già suscitato catastrofismi e allarmi per gli immancabili “problemi giuridici”. Sono queste le cose delle quali dovremmo preoccuparci? di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su PC Professionale n. 371 – Febbraio 2022

A volte ritornano. Quando si parla del Metaverso annunciato da Facebook, pardon, Meta, e da Microsoft a chi è un pò avanti con gli anni torna in mente Second Life, una piattaforma un pò Minecraft, un pò Roblox, un pò The Sims che agli inizi del 2000 prometteva una “seconda vita” vissuta tramite “avatar” che interagivano in scenari (poco)simil-realistici. Una nota agenzia immobiliare tentò di vendere immobili virtuali tramite la piattaforma, una multinazionale di cacciatori di teste provò a selezionare in quel modo dei dipendenti, e a fronte di soldi veri si ricevevano “Linden Dollars” da spendere in questo ecosistema. Non mancarono le inevitabili polemiche per la presenza di contenuti inappropriati, frodi, offese, tradimenti e molestie. Insomma, più che un’altra vita, una replica abbastanza fedele e triste di quella considerata “reale”.

Il Metaverso, da questo punto di vista, non promette nulla di diverso. Certo, il visore VR e la sensoristica che trasformano il corpo in un’interfaccia, la potenza di calcolo delle GPU e l’ampiezza di banda della fibra consentono un realismo più “reale” di quello passato. Ma gli esseri umani, nel frattempo, sono rimasti gli stessi, tanto che molte dinamiche di relazione già ampiamente diffuse nelle diverse piattaforme di social networking tradizionali si sono manifestate anche in questa nuova iterazione. Con altrettanta monotonia molte delle “preoccupazioni giuridiche” avanzate prima ancora di indossare il visore VR e giocare —perché di gioco si tratta— con il Metaverso hanno riguardato sostanzialmente gli stessi temi sollevati a proposito di Second Life. E dunque: privacy, profilazione, “cybercrime”, riciclaggio, molestie e le new entry del momento: NFT e criptovalute che, come il nero, “vanno su tutto”. Per esempio: sul finire di dicembre 2021 è circolata la notizia di un palpeggiamento virtuale subito dall’avatar di una beta-tester dell’ambiente Horizon Worlds. Il fatto è, ad oggi, isolato ma indicativo.

Il Metaverso di Microsoft è meno “giocattoloso” perché è chiaramente orientato ad ambienti lavorativi e produttivi  e promette di poter lavorare in modo effettivamente diverso, anche se non sono ancora disponibili dei raffronti che misurino l’incremento effettivo di efficacia dell’uso di strumenti del genere in rapporto ai costi anche indiretti che generano. I termini della questione, tuttavia, non cambiano perché anche in questo caso la “solitudinizzazione” degli individui —che è il tratto comune delle politiche industriali Big Tech— rimane il nodo da sciogliere. Il fatto, tuttavia, che un’azienda lanci un prodotto o un servizio non implica che il pubblico debba per forza utilizzarli. Ci sono molti esempi di progetti finiti male semplicemente perché non hanno catturato l’attenzione dei clienti.

Inoltre, è abbastanza banale notare che la soluzione ai problemi reali o percepiti rappresentati dal Metaverso sia abbastanza evidente: visto che non è obbligatorio, basta non usarlo e tutte le “cose brutte” magicamente scompaiono.

Questa soluzione, però, non è praticabile perché un altro effetto generato dai modelli industriali del comparto tecnologico nella percezione degli utenti è il minor ricorso allo spirito critico di fronte al reale contenuto del servizio che stanno utilizzando. Gli allarmi sui “pericoli per la privacy” derivanti da Google e Facebook hanno costruito fortune accademiche e professionali, ma gli utenti continuano a utilizzare questi servizi invece, semplicemente, di abbandonarli.

Se un’automobile è difettosa o pericolosa si fa causa al venditore. Si critica il produttore e si cambia marchio. Nel caso dei servizi tecnologici “gratuiti” questo non accade: pur non tirando fuori soldi, gli utenti “esigono” che il fornitore non li trasformi in pesci che nuotano in un acquario, da osservare a piacimento. Vogliono la frittata, senza rompere le uova.

Uno dei fattori che ha accelerato questo processo è la “gamificazione” dell’esistenza. Essa ha radicato la percezione che si possa fuggire dalla propria esistenza e “ricominciare da zero” da un’altra parte quando invece l’effetto concreto è quello di un isolamento ulteriore dal proprio contesto relazionale. Certo, non tutti faranno questa fine e ci saranno anche persone che prenderanno il Metaverso per quello che è: una piattaforma online per giocare o —analogamente a quanto accade con le videoconferenze— per partecipare a una riunione senza farsi la barba o mettere il “vestito buono”. Tuttavia è ragionevole pensare che, almeno per qualche tempo, molti utenti sedotti dal dal marketing istantaneo di prodotti e servizi “powered by the Metaverse” spenderanno molto tempo di vita indossando i sensori biometrici e muovendosi come se fossero in stato confusionale nella loro stanza o nel loro ufficio come il Michael Douglas di Rivelazioni (1994). Un utilizzo anche solo su scala moderata di questa tecnologia rende fin troppo ovvio pensare alla graphic novel The Surrogates di Venditti e Weldele o alla tranquillizzante finzione della realtà immaginaria di The Matrix. Inoltre, è realistico pensare che grazie all’uso di interfacce basate su sensoristica biometrica cresceranno mostruosamente la quantità e la qualità dei dati che i signori del Metaverso continueranno a raccogliere con la complicità di utenti infantilizzati (sul punto, vale la pena di leggere The Terminal Self: Everyday Life in Hypermodern Times di Simon Gottschalk).

Per quanto rilevanti, tuttavia, non è di questi argomenti che dovremmo preoccuparci (troppo) visto che oramai i modelli di progettazione dei servizi digitali sono irrimediabilmente basati sul walled-garden e sul lock-in tecnologico. Non è il “capitalismo della sorveglianza” a dover spaventare e nemmeno quello della “manipolazione del comportamento”. Entrambi, infatti, presuppongono una condizione umana di isolamento che è alla base del “capitalismo della solitudine”: pensare di avere un vita quando invece tutto ciò che resta sono quattro pareti, un computer e un accesso alla rete.

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