di Andrea Monti – PC Professionale n.111
Con una sentenza depositata il 5 maggio 2000, il Tribunale penale di Torino prende posizione sul delicato problema di come interpretare il testo dell’art.171 bis L.633/41 (volgarmente nota come “legge sul copyright”).
Questo articolo, infatti, sanziona penalmente la duplicazione di software solo in presenza di uno “scopo di lucro” ed è proprio sul significato di queste parole che si è acceso un dibattito serrato fra chi – come BSA – sostiene che anche la mancata spesa per l’acquisto di un programma sia da considerare appunto come “scopo di lucro” e chi, come la ex Pretura di Cagliari ritiene sussistere un distinguo fra “lucro” e profitto”. Il primo essendo un vero e proprio guadagno economico (in pratica: vendere copie del software) e il secondo un semplice risparmio di spesa (cioè una non-diminuzione del proprio patrimonio).
Dunque, a seconda della “teoria” che si decide di applicare, la duplicazione a scopo personale o il semplice scambio di software può essere considerato o meno un illecito penale (fermo restando in ogni caso, ovviamente, l’obbligo civilistico di risarcire i danni provocati alla software house). Una differenza certamente non banale!
In questo dibattito giuridico, la sentenza del Tribunale di Torino si schiera dalla parte di chi ritiene che “lucro” sia anche la “mancata spesa”. Ciò non ostante, e qui sta la parte interessante della motivazione assolutoria, il tribunale di Torino ha anche affermato molto chiaramente che non basta il puro fatto di detenere delle copie di provenienza incerta per far sussistere il reato di duplicazione abusiva. E’ anche necessario andare a verificare in concreto la sussistenza del cosiddetto ”elemento psicologico del reato”, cioè la consapevolezza e la volontarietà dell’azione criminosa. Proprio grazie alla indispensabilità di questo accertamento è stato possibile arrivare all’assoluzione dell’imputato torinese.
L’importanza di questa affermazione di principio sta nel fatto che anche per il software vale l’inapplicabilità (ai fini penali) del criterio “non poteva non sapere” come elemento per stabilire la colpevolezza di una persona. Se il giudice avesse deciso in modo differente, sarebbe bastato trovare anche un solo software “abusivo” sperduto in un cassetto per far condannare il legale rappresentante di un’azienda, non solo e non tanto ad una pena, ma al risarcimento anche del danno morale (che in assenza di reato non può essere richiesto).
Non mi pare invece da condividere la posizione espressa dal Tribunale sull’incorporazione nel “lucro” della “mancata spesa” (al contrario rigidamente distinti dalla sentenza cagliaritana) visto che ci sono molti elementi che giocano contro questa interpretazione.
In primo luogo, la direttiva comunitaria 91/250 – che ha ispirato l’emanazione della legge sulla tutela del software – è chiaramente indirizzata alla repressione dei fenomeni di sfruttamento commerciale abusivo delle opere protette, vale a dire, appunto, quelli del grande contrabbando di software riprodotti illecitamente.
In secondo luogo, il recepimento della direttiva sulla tutela delle banche dati ha stabilito la sanzionabilità penale della duplicazione abusiva a scopo di profitto di un data-base, stabilendo così un preciso distinguo con l’ipotesi della riproduzione illecita di software, che – lo ripeto – è reato se commessa a scopo di lucro.
In terzo luogo, il progetto di riforma della legge sul diritto d’autore n. C4953 prevede esplicitamente di modificare l’art.171 bis l.d.a. (quello sul software) sostituendo le parole “scopo di lucro” appunto con “scopo di profitto”.
A tutto questo va aggiunto che la parte della sentenza che si occupa di questa problematica contiene delle affermazioni laconiche, poco argomentate (appena 13 righe) e tutt’altro che assertive. Al contrario di quanto accaduto nella sentenza dell’ex Pretore di Cagliari, che ha analizzato molto approfonditamente le questioni giuridiche sul tappeto prendendo una posizione esplicita e precisa.
Uno dei problemi sollevati da questa sentenza, ma non evidenziati fino ad ora, riguarda il come capire se un software sia da considerare duplicato illecitamente o no ai fini della legge penale. E’ una convinzione diffusa, per esempio, che il possesso della licenza d’uso sia un elemento fondamentale, quando, chiaramente, questo non è vero. Potrebbe essersi rotto il supporto originale e dunque potrei tenere solo la copia di backup. Oppure potrei avere buttato via gli imballi (tra l’altro, la mia copia di photoshop, regolarmente acquistata in una catena di distribuzione, mi è stata consegnata in un imballo originale ma anonimo) e via discorrendo.
In sintesi, non è così semplice dimostrare che il possesso di una copia masterizzata sia automaticamente indizio di un reato. Tanto è che nel caso torinese un elemento di prova è venuto – al di là dei risultati delle perizie – dalle dichiarazioni dei testimoni che, immagino, avranno chiaramente affermato di non avere titolo per usare quei software.
Questa ennesima assoluzione (che, lo ricordo, oltre a quella di Cagliari segue alle decisioni di Bologna e Taranto) se da un lato ribadisce l’importanza di considerare tutti gli elementi che compongono un reato, stabilendo che l’assenza di “dolo specifico” lo fa venir meno, dall’altra effettua una “forzatura” interpretativa dai contenuti discutibili e che si presta a facili strumentalizzazioni sia da parte di chi avversa la prepotenza delle major del software, sia di chi ne tutela gli interessi.
Da un lato, infatti, non è assolutamente vero che questa sentenza, come quelle che la hanno preceduto, abbiano “depenalizzato” la duplicazione abusiva di software che è, e rimane a tutti gli effetti, un illecito penale oltre che civile.
Dall’altro non conferma la posizione insistentemente sostenuta dagli organismi “antipirateria” secondo cui questa sentenza stabilirebbe una chiara equivalenza del lucro col profitto.
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