Google sceglie di “filtare” i risultati escludendo quelli contro il copyright, mentre la Germania propone una Google tax per le news. Con buona pace della direttiva ecommerce
di Andrea Monti – PC Professionale n. 259
Dopo anni di battaglie legali per affermare la neutralità del proprio motore di ricerca in rapporto agli illeciti commessi dagli utenti che pubblicano contenuti non autorizzati, Google ha recentemente deciso di adattare i propri algoritmi per escludere dai risultati (o tentare di farlo) contenuti che ledono i diritti d’autore. Su un altro fronte – quello tedesco, per l’esattezza – l’azienda di Mountain View ha dovuto subire l’imposizione di una “tassa” a favore degli editori i cui contenuti sono reperiti attraverso i risultati delle query formulate dagli utenti.
Le due notizie sembrano apparentemente scollegate, ma in realtà sono due segnali (gravi) del cambio di rotta sul tema critico della responsabilità dei fornitori di servizi internet (e dunque non solo dei motori di ricerca). La regola fissata dall’Unione Europea con la direttiva sul commercio elettronico, infatti, stabilisce che il fornitore di servizi internet sia responsabile per ciò che accade tramite le sue piattaforme solo se interviene sull’attività dell’utente. In altri termini, ciò significa che quanto più l’operatore è “neutro” tanto meno è (co)responsabile per le azioni di chi utilizza le sue piattaforme (siano esse social network, aste online, motori di ricerca e via discorrendo).
Nel caso specifico, Google ha evidentemente scelto di “perdere la neutralità”. Intervenendo sui risultati con la presa in considerazione di parametri legali (la violazione di copyright) e non più soltanto tecnici, per Google sarà sempre più difficile difendersi dalle accuse di violazione di legge sostenendo di essere un semplice fornitore di piattaforme tecnologiche che opera in regime di network neutrality (unico caso, come detto, in cui la normativa europea “salva” il provider per gli illeciti commessi tramite i suoi sistemi).
D’altra parte, in un modo o nell’altro, una parte della giurisprudenza già stava andando verso questa direzione (vedi il caso Pirate Bay, con la Cassazione che – interpretando in modo inaccettabile la legge – ha legittimato i sequestri a distanza di siti tramite “intercettazione” del traffico degli utenti). Dunque si potrebbe dire che Google ha preferito
giocare d’anticipo, invece di attendere nuove leggi o sentenze. Questo, anche perchè così facendo potrà guadagnare ancora più tempo in caso di controversie. Se, infatti, Google non avesse mosso un dito di fronte alle pressioni delle lobby dei marchi e del copyright, avrebbe corso il rischio di trovarsi di fronte al “fatto compiuto”, cioè una legge o una
decisione giudiziaria alla quale sarebbe stato molto difficile opporsi in tempo.
Con questa scelta, invece, Google avrebbe la possibilità di far “impantanare” le eventuali accuse sostenendo preliminarmente che il proprio sistema di filtraggio meglio di così non può funzionare e che dunque non avrebbe alcuna responsabilità per la diffusione di risultati “sgraditi”. Ma per capire se questo sia vero occorrerebbero mesi se non anni di controversie giudiziarie e così agli strateghi di Mountain View potrebbero guadagnare tempo sufficiente per tirar fuori un nuovo coniglio dal cappello e spiazzare, ancora una volta, inquisitori e inquirenti.
Ma quella del copyright è veramente una guerra mondiale che si combatte su tutti i fronti, quelli globali, ma anche quelli locali. E dunque, le lobby del copyright – aiutate da quelle dell’editoria, cioè televisioni e giornali – sono riuscite a “sfondare” in Europa convincendo il legislatore tedesco a proporre una “Google Tax” (in attesa di approvazione definitiva).
Benchè che le lobby del copyright si confermino fra le più potenti tanto da convincere i governi della necessità di imporre addirittura “tasse” a favore di imprese private, rimane il fatto che una “tassa” del genere sarebbe inaccettabile. Il copyright, infatti, è un diritto “privato” che riguarda il singolo autore (o meglio, chi ha acquistato – magari a pochi soldi – i diritti di sfruttamento di un’opera) e non un diritto “pubblico” come quella alla salute. E’ francamente grave che un legislatore occidentale si ponga il problema di tutelare interessi privati invece di occuparsi dei diritti dei cittadini.
E’ ben possibile dunque che se pure la Google Tax diventasse legge potrebbe poi essere vanificata dalle inevitabili vertenze giudiziarie che verranno promosse. Fatto sta che il “rospo” che gli avversari di Google non riescono a ingoiare è che Google ha trovato il modo di “fare soldi” sugli user-generated content mettendo in contatto domanda e offerta di informazioni. Da un lato questo ha mostrato il grosso limite dell’informazione “tradizionale” che spesso è stata surclassata dai “dilettanti” del web. Dall’altro, ha evidenziato il paradosso secondo il quale non si capisce perchè Google dovrebbe pagare, se proprio tramite Google editori e titolari dei diritti possono essere selezionati e raggiunti dai potenziali lettori (paganti).
E non può essere una scusa la “pirateria”, che c’è sempre stata e che è del tutto ininfluente sulle politiche commerciali delle aziende, perchè nessuno ha mai dimostrato che chi copia materiale protetto, non potendolo più fare, avrebbe alla fine acquistato ciò che prima “scaricava”.
In definitiva, scelte suicide come quella tedesca potrebbero indurre Google ad escludere i contenuti “premium” dai risultati delle ricerche, condannando così all’oblio i contenuti dei “padroni delle idee”.
Il tutto, ad un prezzo (nascosto) ancora più alto: la fine della network neutrality.
Possibly Related Posts:
- Qual è il significato geopolitico del sistema operativo Huawei Harmony OS Next
- TeamLab Planets: da Tokyo la fuga verso i mondi della mente
- Chi ci protegge dal dossieraggio tecnologico?
- Webscraping e Dataset AI: se il fine è di interesse pubblico non c’è violazione di copyright
- Perché Apple ha ritirato la causa contro la società israeliana dietro lo spyware Pegasus?