La Ue invita Apple a non usare la privacy per giustificare comportamenti anticompetitivi. Non è la prima volta che una Big Tech usa i diritti umani per fare profitto, né che un’istituzione se ne serve per finalità politiche di Andrea Monti – Originariamente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech
Secondo un lancio di Reuters il Commissario europeo Margrethe Vestager ha invitato Apple a non usare privacy e sicurezza per giustificare il blocco del side-loading. Attualmente, infatti, in nome di questi diritti fondamentali Apple impedisce agli utenti di iPhone e iPad di acquistare software su repository di terze parti. Ritiene tuttavia Vestager che, così facendo, Apple limiti lo sviluppo della concorrenza senza che ci siano effettivamente dei vantaggi per gli utenti.
Se la posizione di Apple a sostegno della privacy è a sospetto di essere un marketing stunt, quella della Ue appare altrettanto strumentale. La tutela dei dati personali, infatti, è innanzi tutto un’arma dell’arsenale europeo per praticare la lawfare – cioè l’utilizzo (geo)politico del diritto e della legge – nei confronti degli Stati Uniti.
La strategia di Apple
Non è la prima volta che Apple si oppone ai tentativi delle istituzioni di aprire una breccia nel walled garden (o, a seconda di come la si pensa, nella golden cage) nel quale ha recintato i propri clienti. Nel 2016, sempre “in nome della sicurezza” Tim Cook rifiutò di inserire una backdoor negli iPhone per favorire le indagini della magistratura. La dedizione dell’azienda alla tutela dei propri utenti non le ha impedito, però, di assicurarsi brevetti come questo che, ad esempio, consentirebbe di disabilitare la fotocamera dello smartphone in caso di eventi come concerti o “prime” cinematografiche o di accesso a luoghi particolari. Analogamente, Apple ha accettato un compromesso con il Governo di Pechino, consentendo di localizzare in Cina i dati degli utenti cinesi. Per non parlare, poi, della politica di chiusura e incompatibilità che storicamente ha confinato gli utenti in una Matrix dalla quale nemmeno Neo e Trinity sarebbero potuti uscire.
In realtà non c’è niente di strano o censurabile in questi tre esempi. Apple è stata estremamente sensibile al tema del copyright fin dai tempi della celeberrima “causa del cestino” – la battaglia legale contro Microsoft per rivendicare l’uso esclusivo della funzionalità “trashcan” – e poi nella guerra contro Android, accusato di “rubare” le idee che hanno consacrato il successo di iPhone e IOS. Inoltre, essendo il suo obiettivo principale quello di fare utili, è perfettamente comprensibile che possa accettare compromessi con governi locali conformandosi alle loro leggi pur di espandere il proprio mercato. Infine, Apple non è stata certo la prima né l’unica a praticare il lock-in tecnologico degli utenti, con buona pace dei principi di trasparenza, compatibilità e interoperabilità che prima gli attivisti dei “diritti digitali” e ora finalmente politici e istituzioni ritengono elementi essenziali per la digital transformation.
In parallelo, la Ue non è stata la prima né l’ultima a utilizzare i “diritti” come strumento di pressione politica nei confronti di Stati “riottosi”. La Carta dei diritti fondamentali della Ue è un modo per riequilibrare i rapporti fra Stati membri impedendo la creazione di distorsioni economiche per esempio sul costo del lavoro e il Regolamento sulla protezione dei dati personali si è autodichiarato “efficace” anche al di fuori dei confini Ue (che peraltro non sono politici) per poter essere usato come una leva nei rapporti internazionali. Ma anche Russia e Cina hanno adottato legislazioni analoghe, che in nome della sicurezza hanno imposto la localizzazione dei dati dei cittadini all’interno dei confini della madrepatria e l’efficacia delle rispettive leggi dovunque ci siano dati dei connazionali. Non sono da meno gli USA che, con il Cloud Act, hanno stabilito che le aziende americane devono consegnare i dati dei quali sono in possesso alle autorità investigative a prescindere dal Paese dove sono memorizzati, e dunque, dalle relative leggi.
Big Tech, diritti, post-westfalianesimo e neomedievalismo
Lo scenario nel quale si muovono Tim Cook e Margrethe Vestager è, dunque, molto più complesso di quanto appaia e va oltre una semplicistica contrapposizione fra interessi industriali privati e doveri di tutela dei cittadini in capo alle istituzioni pubbliche.
Sullo sfondo, ma non per questo meno importanti, ci sono due questioni da affrontare: chi determina cosa sia un diritto e quale sia il ruolo delle Big Tech nei rapporti con le istituzioni.
Fin dai tempi di Torch of Freedom i diritti fondamentali sono stati sfruttati per fini commerciali. Negli USA dei primi del novecento era considerato inappropriato che una donna fumasse. Verso il 1920, tuttavia, i produttori di sigarette cominciarono a progettare campagne pubblicitarie dirette alle donne per aprire un nuovo mercato. Il risultato più clamoroso fu la progettazione di una campagna di manipolazione dell’opinione pubblica americana che, con la scusa di affermare il diritto delle donne ad emanciparsi, utilizzò le sigarette (in Inglese, appunto, chiamate torch) per trasformare il fumo in un atto di liberazione da mostrare pubblicamente (da cui torch of freedom).
Cento anni dopo, una foto pubblicata da giornali e siti internet ritrae uno smartphone con uno slogan in sovraimpressione: Privacy. That’s iPhone. Mark Zuckerberg si appellò alla libertà di espressione per sostenere il diritto di Facebook a funzionare nel modo in cui è stato progettato. Twitter e Google decidono fino a che punto un utente possa spingersi nella pubblicazione di messaggi e contenuti.
Non si tratta, come pure molti hanno commentato, di scandalizzarsi perché queste aziende si arrogano, a torto o a ragione, il diritto di decidere come possiamo esercitare i nostri diritti. Il problema veramente serio è che hanno acquisito il potere di decidere cosa sia un diritto fondamentale. In altri termini, lo strapotere delle Big Tech è tale che sono loro a determinare la natura e i limiti di un diritto della persona. Il dibattito pubblico e lo scontro parlamentare sono sostituiti da annunci pubblicitari e prodotti accattivanti. Un diritto non nasce più da un’esigenza sociale, ma da una strategia di comunicazione che realizza un interesse industriale.
Questo processo non è (ancora) onnipresente né (forse) irreversibile, ma è stato innescato dalla resa degli Stati a una “innovazione tecnologica” che non capiscono e che non sono in grado di governare. L’allarme venne lanciato vent’anni fa ma nessuno lo ascoltò. Progressivamente, il modello di Stato sovrano che venne disegnato all’indomani della Pace di Westfalia sta cedendo il passo a un neomedievalismo nel quale il potere non è più nelle mani di chi, formalmente, lo detiene ma in quelle di una moltitudine di soggetti non istituzionali che diventano, a tutti gli effetti, interlocutori paritari di uno Stato sovrano.
Forse è di questo che dovrebbero preoccuparsi le istituzioni comunitarie, invece di concentrare la loro attenzione sulla possibilità di sovraccaricare un telefonino con l’ennesima, inutile “app”.
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