di Andrea Monti
Mi sembra una necessità fondamentale che la pubblica amministrazione utilizzi sistemi operativi, applicazioni e formati trasparenti, compatibili, senza aggravi di costi per i cittadini e nel rispetto della loro privacy.
In quest’ottica, data la distorsione del mercato ICT derivante dalla presenza di un monopolista dell’oppressività di Microsoft, è altrettanto auspicabile, pensare ad una legge che disciplini l’e-government prossimo venturo. Per evitare di mettere l’intera infrastruttura informatica del nostro paese nelle mani di un solo operatore, e per di più, nel caso di specie, extra-comunitario e dunque sottratto alle nostre leggi. Il che agevola, insieme all’impossibilità di controllare il funzionamento dei programmi, la possibilità di porre in essere controlli più o meno occulti.
Ovviamente faccio riferimento ad una questione di natura più generale che non riguarda la Microsoft in quanto tale. Se al posto di quest’azienda ci fosse chiunque altro, il ragionamento non cambierebbe di una virgola. Come dimostra il documento “E’ compito delle istituzioni liberarci dalla schiavitù elettronica” presentato da ALCEI (http://www.alcei.it) nel luglio 1999 al Forum per la società dell’informazione organizzato dalla Presidenza del Consiglio (http://www.alcei.it/news/cs990128.html) o il bel libro scritto dal prof. Angelo Raffaele Meo dal titolo “Informatica solidale”
Se tutto questo è vero, allora, un ipotetico intervento legislativo non dovrebbe riguardare questa o quella tecnologia piuttosto che questo o quel modello di licenza. Ma dovrebbe occuparsi, piuttosto, di imporre trasparenza, compatibilità e necessità di corretto funzionamento dei sistemi informatici della pubblica amministrazione. Senza passare necessariamente per la libera disponibilità dei sorgenti, che ad esempio in ambito militare o di pubblica sicurezza sarebbe difficilmente realizzabile (il che non esclude, ovviamente, che quei codici siano comunque conoscibili agli apparati dello Stato che fungono appunto da garanti). In altri termini, la libera disponibilità dei sorgenti non è – e non può essere, dal punto di vista della pubblica amministrazione – un dogma. Ci sono dei casi nei quali l’accesso generalizzato al codice di un’applicazione è desiderabile e necessario. Altri, nei quali può essere addirittura controproducente.
Viceversa, quello che dovrebbe essere stabilito per legge è il ruolo di garante della pubblica amministrazione sulla trasparenza delle applicazioni e sulle relative funzionalità. In modo che i cittadini possano, ad esempio, sapere esattamente “che cosa fa” il software, a quali dati accede, quali comunica e a chi. Oltre ad essere adeguatamente protetti in termini di sicurezza, economicità e compatibilità dei software utilizzati per interloquire con lo Stato. Insomma, protezione dallo spyware e da quei trattamenti occulti che si nascondono in tantissimi software attualmente utilizzati anche in ambito pubblico, protezione dagli esborsi continui provocati dall’obsolescenza programmata. Libertà nella scelta degli strumenti per usufruire dei servizi offerti dalla PA.
Riassumendo, dunque, i termini di un ipotetico intervento normativo potrebbero essere:
prendere atto che il problema non riguarda solo le tecnologie
superare la diatriba limitata e limitante “Linux vs Microsoft”
concentrare l’attenzione sul garantire trasparenza, compatibilità e libertà di accesso ai servizi della pubblica amministrazione
E’ per queste ragioni che la (forse) ben intenzionata proposta di legge sul “pluralismo informatico” avanzata dai Verdi fallisce clamorosamente l’obiettivo. Sia dal punto di vista politico, sia da quello giuridico.
Innanzi tutto è abbastanza curioso che solo ora qualche politico del centro sinistra (non solo l’on.Cortiana (Verdi), firmatario della proposta, ma anche l’on. Folena (DS) autore di un’interrogazione parlamentare) si sia “svegliato” con anni di ritardo e abbia deciso di affrontare il tema dell’open source ben sapendo che le chanche di successo sono praticamente prossime allo zero. Viene da chiedersi come mai, quando l’attuale minoranza era al governo, scelse di fare “orecchie da mercante” sulla questione software libero, ignorando le numerose istanze che pure le venivano rivolte (vedi sopra). Dando, al contrario, ampio spazio istituzionale ai prodotti Microsoft, come testimonia, ad esempio, l’attività del Ministero della pubblica istruzione, che all’epoca promuoveva addirittura seminari con Microsoft su creazione di ipertesti, multimedialità e Internet (http://www.istruzione.it/news/1998/news1298.shtml). Oppure sostenendo la obbrobriosa legge sul diritto d’autore (vedi ampiamente sul punto http://www.andreamonti.net/it/index/indtemi/ecopy.htm).
E’ inevitabile il sospetto, tornando al punto, che questa proposta sia un semplice atto cosmetico, compiuto nella consapevolezza della sua sostanziale inutilità. E se anche così fosse, non sarebbe comunque giustificabile essersi comportati in modo così superficiale. Volenti o nolenti un tema importante è stato, infatti, irrimediabilmente “bruciato” per esigenze contingenti e ben difficilmente potrà essere riesumato in termini costruttivi.
Anche perché, e vengo agli aspetti più propriamente giuridici, sono state compiute delle grosse ingenuità derivanti, probabilmente, dalla non perfetta comprensione degli aspetti culturali, tecnici e legali della materia.
Il primo punto debole è proprio l’impostazione dell’intero testo, chiaramente orientato allo scontro “Linux-Microsoft” e basato, piuttosto che su principi ragionevoli, su dei banali luoghi comuni.
Come ad esempio la convinzione che le applicazioni libere siano intrinsecamente migliori di quelle proprietarie. In linea di principio, infatti, è certamente vero che il modello di sviluppo basato sull’open source “funzioni meglio” dell’equivalente proprietario. Ma da questo non si può dedurre la generalizzazione che i software liberi siano sempre superiori. In altri termini, è stato trasformato in dogma quello che in realtà dovrebbe ancora essere dimostrato (e che, per inciso, dubito possa esserlo in modo definitivo). Breve: non si può confondere l’open source come sistema con la qualità di quello che si sviluppa cercando di applicare quelle regole.
Altro luogo comune è la convinzione (non riscontrata da studi quantitativi)che la pubblica amministrazione risparmierebbe in automatico notevoli quantità di denaro semplicemente convertendosi al software libero. Se questo può essere vero nei progetti che partono da zero, non si può dire lo stesso di quelle (mastodontiche) installazioni che si sono radicate su altre piattaforme.
Per di più mi sembra un vero assurdo giuridico l’imporre per legge l’utilizzo praticamente esclusivo di una certa tecnologia a svantaggio di qualsiasi – e sottolineo, qualsiasi – altra. Una scelta estremamente discutibile che impedirebbe alla pubblica amministrazione di operare con la dovuta ampiezza e di perseguire gli scopi di economicità, efficienza e buon andamento che le sono (o che le dovrebbero essere) propri. Una scelta che potrebbe provocare addirittura l’apertura di una procedura di infrazione a danno dell’Italia per violazione dei principi in materia di libertà del mercato. Si sta proponendo di lasciare un monopolio per entrare (coattivamente) in una chiesa.
Per fortuna, come già l’altra iniziativa legislativa dei Verdi sul diritto d’autore, anche questa sembra destinata a perdersi – spero per sempre – nel marasma parlamentare. Ma questo non significa arrendersi e pensare che non ci siano più spazi per introdurre l’open source nella pubblica amministrazione. Né che le difficoltà oggettive di una scelta del genere suggeriscano di non intraprendere l’iniziativa.
Si tratta, più semplicemente, di avere ben chiari gli obiettivi e gli strumenti per realizzarli. In modo da non arrecare danni ad una causa che di nemici ne ha già fin troppi.
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