Contributo inviato al Call for papers 2020 del Centro Alti Studi per la Difesa
Benché stia attraversando una fase di normativizzazione, la sicurezza nazionale è ancora un concetto giuridicamente evanescente, che fatica a trovare un proprio spazio fra categorie consolidate come ordine e sicurezza pubblica e difesa dello Stato. La normativizzazione della sicurezza nazionale implica la sua sottoposizione al rule of law e dunque limita il suo uso per interessi di natura strettamente politica che non potrebbero essere garantiti con l’apposizione sistematica e automatica del segreto di Stato e che sono sottoposti ad un accresciuto controllo giurisdizionale. Parallelamente, la dipendenza tecnologica da soggetti stranieri —che ha di fatto consentito una (almeno parziale ma ineliminabile) inclusione di interessi privati nella definizione delle politiche di sicurezza— compromette l’effettiva possibilità di tutelare la sicurezza e gli interessi dello Stato. di Andrea Monti – professore incaricato di diritto dell’ordine e della sicurezza pubblica nell’università di Chieti-Pescara
Premessa
“Public policy” è un concetto piuttosto difficile da definire.
«Nella sua essenza, il public policing è l’epifenomeno del potere. Esso definisce gli obiettivi politici di coloro che lo esercitano attraverso lo strumento delle scelte politiche pubbliche1» o, come è stato ancora più efficacemente detto, «policy is power frozen».2 Questo concetto fondamentale nei sistemi di Common Law non ha un esatto equivalente in quelli di Civil Law e, a proposito di questi ultimi, la stessa “etichetta”—ordre public in francese, ordine pubblico in italiano, Öffentliche Ordnung in tedesco, Public Order in Inglese— identifica concetti non sempre perfettamente sovrapponibili.
Un aspetto fondamentale da considerare è il rapporto tra public policing (inteso come ordine pubblico) e pubblica sicurezza (nella doppia accezione di sicurezza propriamente detta e di safety—incolumità). Naturalmente c’è una connessione logica prima ancora che giuridica tra i due concetti: senza sicurezza non c’è ordine e senza ordine non ci sono né sicurezza né safety, ma è un connessione ancora difficile da identificare. Non è chiaro, infatti, come la teoria politica e giuridica si siano evolute dalla necessità pratica di impedire che le persone si uccidessero a vicenda —lo “status naturale” hobbesiano di bellum omnium contra omnes— in un concetto astratto —un insieme di valori fondamentali che modella l’identità di uno Stato— più adatto, tuttavia, a preservare la sopravvivenza del potere che a garantire la libertà dei cittadini.
Per comprendere la natura di queste difficoltà basta guardare alla giurisprudenza della Corte costituzionale. La sentenza 3 novembre 1988, n. 1013 si occupa di ordine pubblico, definendone i contenuti in termini di beni giuridici fondamentali e interessi pubblici primari individuati dalla Costituzione e dalle leggi per garantire l’ordinata convivenza civile e il funzionamento dell’ordinamento giuridico. La sentenza 27 marzo 1987, n. 77 si occupa di pubblica sicurezza, da intendersi come «funzione inerente alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico». Infine, la sentenza 12 luglio 2001, n. 290, regolando le competenze degli enti locali in materia di polizia e sicurezza, precisa il concetto di “interessi primari” inserito nell’articolo 159 comma II d.lgs. n. 112/98 affermando che ordine e sicurezza pubblica si sostanziano nella prevenzione dei reati e —tautologicamente— nel mantenimento dell’ordine pubblico.
Alla luce di questa giurisprudenza ci si potrebbe innanzi tutto chiedere se ordine pubblico e pubblica sicurezza siano gerarchicamente sovrapposti o se siano due facce di uno strumento di polizia “taoista” più complesso, fatto di misure “yang” (dure) di pubblica sicurezza e di valori fondamentali “yin” (morbidi) riassunti nella nozione di ordine pubblico. Oppure, cambiando prospettiva e venendo al punto, si dovrebbe valutare se il riemergere di concetti come sicurezza e interesse nazionale —spesso usati come passe-partout per aggirare il sistema dei diritti fondamentali protetti da ogni costituzione moderna— abbiano un ruolo autonomo nella tassonomia del potere, se sì, quali, o se possano essere assorbiti nella tradizionale dialettica trilaterale fra ordine pubblico, pubblica sicurezza e difesa dello Stato.
Configurabilità di un’autonomia giuridica del concetto di sicurezza nazionale
Per rispondere al quesito si dovrebbe capire se la sicurezza nazionale sia di esclusivo ambito politico, o se sia (diventata) parte di una teoria generale del diritto pubblico o costituzionale, e in che rapporto si ponga con ordine e sicurezza pubblica.
Come è noto, nella storia recente questi concetti acquisiscono un significato politico e giuridico peculiare (e ancora perdurante) nel corso del ventennio fascista.
Non è un caso che una primissima traccia dell’uso delle parole sicurezza nazionale risalga (formalmente) al 1923 con l’emanazione del Regio Decreto n. 31, istitutivo della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Come non è un caso la scelta compiuta con l’articolo 2 del Decreto cui spetta definire le funzioni della Milizia che «provvede in concorso coi corpi armati per la Pubblica Sicurezza e col Regio Esercito, a mantenere all’interno l’ordine pubblico e prepara e conserva inquadrati i cittadini per la difesa degli interessi dell’Italia nel mondo.»
È evidente, in questa definizione, l’assenza di una linea di confine fra compiti delle forze di polizia e compiti delle forze armate. Come è evidente la subordinazione della sicurezza nazionale all’ordine pubblico, frutto di un approccio di stampo anglosassone, dove la peace of the land era da garantire nell’interesse del Re piuttosto che di quello dei sudditi. Tranquillitas, non libertas, scriveva già Tacito a proposito della Pax Augustea.
In questo schema, dunque, la sicurezza nazionale assume un ruolo strumentale alla tutela dell’ordine pubblico (e dunque rientra nell’ambito della pubblica sicurezza) piuttosto che assurgere al rango di categoria giuridica autonoma e di pari rango.
Il concetto di sicurezza nazionale e i suoi omologhi, ordine e sicurezza pubblica, hanno resistito agli attacchi del tempo e della Storia per via della loro irrinunciabilità anche in regimi politici e giuridici diversi da quelli nei quali sono stati inizialmente teorizzati.
Mentre, tuttavia, ordine e sicurezza pubblica sono stati oggetto di un profondo ripensamento per poterli rendere compatibili con l’ordinamento della Repubblica, non si può dire lo stesso della sicurezza nazionale. Fino a quando è rimasta in una dimensione più squisitamente politica, la sicurezza nazionale è stata meno facilmente coercibile da un sistema basato sul rule of law e dunque sul controllo giurisdizionale come funzione di garanzia suprema dei valori democratici dello Stato. Questa sorta di “immunità politica” è destinata tuttavia a ridursi con l’espansione del corpus normativo che negli ultimi tempi ha subito una consistente accelerazione.
La normativizzazione della sicurezza nazionale
Il processo di normativizzazione della sicurezza nazionale, concetto citato quasi en passant dall’articolo 126 della Costituzione, accelera con la L 124/07 che definisce il sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica. L’articolo 1 comma I pone il ruolo del Presidente del Consiglio in una posizione strumentale rispetto alla tutela della sicurezza nazionale, limitandone l’ambito operativo alla sola raccolta di informazioni necessarie ai fini individuati dagli articoli 3bis, 6 e 7, e non all’esercizio del potere in ambiti ulteriori e diversi da quelli strettamente “informativi”.
In realtà, come si vedrà di qui a poco, il raggio d’azione di Palazzo Chigi va ben oltre la sola gestione della politica di raccolta e utilizzo di informazioni a tutela della sicurezza della Repubblica. Ma prima è necessario definire, grazie alla lettura in combinato disposto delle norme in questione, il perimetro operativo di questo istituto.
La L. 124/07 consente di qualificare la sicurezza nazionale come presidio della difesa dell’indipendenza, dell’integrità e —tautologicamente— della sicurezza statale. Essa, inoltre, «è funzionale alla protezione degli interessi politici, militari, economici, scientifici e industriali dell’Italia». La norma, tuttavia, non attribuisce alla Presidenza del Consiglio una competenza (esclusiva) in materia di sicurezza nazionale, visto che il suo ruolo è limitato a quello di determinazione dell’indirizzo politico della raccolta informativa e non all’adozione di comportamenti attivi in ambiti, peraltro, sui quali non avrebbe giurisdizione diretta.
A fronte di un quadro giuridico affetto da problemi di coerenza interna e da una relazione problematica con la gerarchia delle fonti, la rigidità delle regole sull’interpretazione normativa rende difficile elevare la sicurezza nazionale ad un rango pari a quello riservato all’ordine e alla sicurezza pubblica. Da questa situazione alquanto nebulosa traspare l’opportunità di concepire la sicurezza nazionale come umbrella word riassuntivo di un coacervo di situazioni varie (dalla tutela della ricerca scientifica a quella dei mercati o delle infrastrutture critiche) piuttosto che come istituto dotato di autonomia giuridica.
In sintesi: l’assenza di una definizione precisa di “sicurezza nazionale” e l’attribuzione non chiaramente delineata del suo controllo ad uno specifico soggetto istituzionale costruiscono uno strumento di notevole forza politica, ma dalla precaria stabilità in ambito giuridico. Da un lato, infatti, l’azione politica di governo può operare con la grande flessibilità consentita dalla disciplina del segreto (non solo) di Stato3. Dall’altro, quanto più la sicurezza nazionale è normativamente cristallizzata, tanto più il governo deve accettare la sottoposizione alle regole dell’interpretazione giuridica, al controllo della magistratura e, più in generale, al sistema di checks and balances che caratterizza l’ordinamento repubblicano. I casi Abu Omar e Alma Shalabyeva4, che si posizionano ai due estremi dello spettro, sono dei validi esempi della criticità del tema, cioè dell’eterno contrasto fra machtpolitk e rule of law.
Ordine pubblico, sicurezza cibernetica nazionale e tecnologia
Le tecnologie dell’informazione hanno avuto un impatto esteso sulla definizione del concetto di sicurezza (non solo) nazionale, sulla (im)possibilità di considerarla come concetto giuridico autonomo e sul suo governo politico.
L’impatto delle tecnologie dell’informazione sul sistema dei diritti fondamentali e sul dovere dello Stato di garantire ordine e sicurezza pubblica è oggetto di riflessione da oltre vent’anni su temi come hacking e hacktivism5, liceità dell’uso di crittografia forte da parte dei cittadini6 o necessità di indipendenza tecnologica dello Stato7. Al contrario, le questioni relative alla sicurezza (cibernetica) nazionale sono entrate solo da poco tempo nell’agenda pubblica dei policymaker e peraltro in regime di urgenza. Esse si sono infatti manifestate in tutta la loro criticità con l’emanazione del DL 105/19 sulla protezione dello spazio cibernetico e con il DPCM 7 agosto 2020 adottato per contenere gli effetti dell’utilizzo di infrastrutture cinesi nella costruenda rete 5G italiana8 .
Il precipitato giuridico di questa necessità politica è stato, con buona pace del Rasoio di Occam, la creazione di un ulteriore concetto: quello della “sicurezza cibernetica”. Con l’aggiunta di questo aggettivo, il DPCM 131/20, il DL 105/19 e prima ancora il DLGS 65/18 che ha recepito la direttiva comunitaria sulle infrastrutture critiche nonché il DPCM 17 febbraio 2017 hanno complicato le già rilevanti difficoltà nel dare un senso alla nozione di sicurezza nazionale9.
In termini politici, sicurezza cibernetica significa ampliamento dei poteri del Presidente del Consiglio fino a includere un potere diretto di intervento sulle reti pubbliche di comunicazione e facoltà di decidere quali tecnologie possono essere utilizzate sul suolo italiano. Ma in termini giuridici essa rende ancora più urgente l’individuazione del suo posizionamento costituzionale.
In parziale differenziazione dal DLGS 65/18, il DL 105/19 tutela le infrastrutture per il «mantenimento di attività civili, sociali o economiche fondamentali per gli interessi dello Stato» riecheggiando dunque la giurisprudenza costituzionale citata supra a proposito della definizione di ordine e sicurezza pubblica. È pertanto ragionevole ipotizzare che la “sicurezza nazionale cibernetica” sia da ricondurre in questi ambiti e in quello della difesa dello Stato, e che non abbia uno statuto giuridicamente autonomo. Se questo è corretto, a fortiori la conclusione vale per la sicurezza nazionale tout-court.
Breve: una lettura sistematica della normativa di settore consente di sostenere che la sicurezza (cibernetica) nazionale non sia un tertium genus rispetto alla difesa dello Stato e ad ordine e sicurezza pubblica, ma che ne faccia trasversalmente parte, come articolazione tecnica avente natura ordinatoria e non gerarchica.
Conclusioni
Nella transizione da categoria squisitamente politica a nozione giuridica, la sicurezza (cibernetica) nazionale non viene definita in modo esplicito né a livello normativo né a livello giurisprudenziale, caratterizzandosi per una certa evanescenza.
Il mancato compimento di questa transizione implica che essa perda la flessibilità derivante dall’essere a servizio di un’azione —quella politica— che è libera nel fine. Nel contempo, però, si cristallizza nella rigidità binaria della logica normativa che impone di definirne posizione e ruolo nella gerarchia dei beni giuridici, oltre che di riconoscere il primato del rule of law sulla necessità politica.
Il soddisfacimento di questo requisito logico-giuridico non è confinato alle speculazioni accademiche, ma incide concretamente sul bilanciamento dei poteri (di fatto, oltre che di diritto) fra organi costituzionali e fra componenti del governo. Nella sua articolazione cibernetica, infatti, la sicurezza nazionale è caratterizzata da tre principi: giurisdizione esclusiva dell’esecutivo, gestione (parzialmente) delegata ai privati della sicurezza infrastrutturale e verifiche preventive di sicurezza sull’utilizzo in ambiti critici di tecnologie (anche) straniere.
In applicazione di questi principi, il soggetto istituzionale che la governa —la Presidenza del Consiglio— controlla autonomamente il sistema nervoso del Paese e acquisisce un potere che di fatto è molto più esteso di quanto appaia in diritto anche per via della “mutazione genetica” dell’ambito operativo dei DPCM10 innescata dal COVID-19. Durante la pandemia, infatti, i “provvedimenti di alta amministrazione” del Presidente del Consiglio hanno assunto un ruolo e una funzione molto più simili a quelli degli executive order statunitensi11, impiegati negli ambiti e con le funzioni più diverse.
È pertanto corretto chiedersi se non sia preferibile, come pure suggerisce la lettura coordinata della normativa di riferimento, accentuare la componente giuridica della nozione di sicurezza (cibernetica) nazionale. Qualificandola come un’articolazione della pubblica sicurezza, essa verrebbe sottoposta (grazie al controllo del potere giudiziario) al sistema dei checks and balances, piuttosto che alle necessità, anche contingenti, di un’unica e sola entità politica.
ANDREA MONTI è avvocato cassazionista e professore incaricato di diritto dell’ordine e della sicurezza pubblica Università Gabriele d’Annunzio di Chieti-Pescara. Ha tenuto lezioni ed è intervenuto in conferenze in Italia e all’estero con relazioni su computer forensics e sicurezza delle informazioni, data-retention e terrorismo, oltre ad essere stato docente di procedura penale nella Scuola per il controllo del territorio della Polizia di Stato negli anni 2019 e 2020. Già componente del Comitato scientifico della Polizia postale, ha fatto parte, fino allo scioglimento, dell’Expert Group della Commissione Europea sulla data-retention. È autore di articoli e contributi scientifici su geopolitica tecnologica, ordine pubblico, sicurezza delle informazioni e sulla criminalità informatica pubblicati da riviste italiane e straniere. Insieme a Raymond Wacks, professore emerito di Legal Theory nell’università di Hong Kong, recentemente ha pubblicato i saggi Protecting Personal Information (Hart, 2019) e COVID-19 and Public Policy in the Digital Age (Routledge, 2020).
1 A. Monti, R. Wacks COVID-19 and Public Policy in the Digital Age Routledge New York (USA) 2020, p. 16.
2 E.Liu How To Understand Power 2014
https://ed.ted.com/lessons/how-to-understand-power-eric-liu) visitato il 23 ottobre 2020.
3 v. M. Catanzariti Segreto e potere. I limiti della democrazia Giappichelli Torino 2014.
4 v. A. Monti Cosa hanno in comune la extraordinary rendition di Abu Omar e l’espulsione di Alma Shalabayeva? in Infosec News del 20 ottobre 2020 https://www.infosec.news/2020/10/20/news/protezione- e-difese/cosa-hanno-in-comune-la-extraordinary-rendition-di-abu-omar-e-lespulsione-di-alma- shalabayeva/ v. 25 ottobre 2020.
5 Segnalazioni bibliografiche: Spaghetti Hacker in Per Aspera Ad Veritatem n.13/99
http://gnosis.aisi.gov.it/sito/Rivista13.nsf/servnavig/28 v. 25 ottobre 2020.
6 Intervista agli autori: Segreti, spie, codici cifrati in Per Aspera ad Veritatem n. 16/00 http://gnosis.aisi.gov.it/sito/Rivista16.nsf/servnavig/20 v. 25 ottobre 2020.
7 v. Associazione per la libertà nella comunicazione elettronica interattiva È compito delle istituzioni liberarci dalla schiavitù elettronica intervento presentato al Forum per la società dell’informazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 1 luglio 1999 http://www.governo.it/fsi/ non più attivo, ma disponibile su http://www.interlex.it/pa/alcei12.htm v. 25 ottobre 2020.
8 v. A. Monti Il Dpcm Tim-Huawei e il superamento del nodo Cina in Formiche.net del 23 agosto 2020 https://formiche.net/2020/08/dpcm-tim-huawei-superamento-del-nodo-cina-lopinione-del-prof-monti/ visitato il 25 ottobre 2020.
9 Sul DPCM 131/20 v. A. Monti Il DPCM 131/20 sul perimetro cibernetico aumenta la confusione e non protegge la sicurezza nazionale in Infosec News del 22 ottobre 2020, mentre sul Decreto Legislativo 65/18 e sul Decreto Legge 105/19 v. A. Monti Internet e ordine pubblico in G. Cassano, S. Previti (a cura di) Il diritto di internet nell’era digitale Giuffrè-Francis Lefevbre Milano 2020.
10 La sentenza 13 luglio 2020 n. 4120 è stata emanata dalla I sezione quater del TAR Lazio nell’ambito della controversia sull’imposizione da parte della Presidenza del Consiglio del segreto (segreto tout-court, non di Stato) sui verbali del Comitato tecnico scientifico, poi desecretati nelle more dell’impugnazione davanti al Consiglio di Stato. La sentenza evidenzia «la peculiare atipicità, che si connota da un lato per caratteristiche ben più assonanti con le ordinanze contingibili e urgenti… in quanto si tratta di provvedimenti adottati sulla base di presupposti assolutamente eccezionali e temporalmente limitati».
11 v. A. Monti La presidenza del Consiglio ha bisogno degli executive order? in Formiche.net del 27 agosto 2020 https://formiche.net/2020/08/presidenza-executive-order/ v. 25 ottobre 2020.
Si precisa che le opinioni esposte nel presente elaborato, ricevuto e reso disponibile nell’ambito dell’iniziativa Call for Papers #CASD2020, sono
attribuibili esclusivamente all’autore e non rispecchiano necessariamente il punto di vista del Centro Alti Studi per la Difesa.
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