Gli atti di terrorismo compiuti in Francia e in Austria impongono di riflettere sull’uso politico-tattico dei diritti umani da parte degli Stati come strumento di propaganda antiterroristica. A rischio l’esercizio delle libertà fondamentali in nome della realpolitik? L’analisi di Andrea Monti, professore incaricato di Diritto dell’Ordine e sicurezza pubblica, Università di Chieti-Pescara – Originariamente pubblicato da Formiche.net
Non c’è modo, almeno per ora, di sapere se l’omicidio del docente francese Samuel Paty, quello di tre persone a Nizza e la strage di Vienna siano l’esecuzione di un piano globale, o se siano eventi singoli, progettati e portati a termine da individui o cellule criminali. Così come non si può affermare con certezza che la scintilla che li ha innescati sia —ancora una volta— la satira di Charlie Hebdo (fatto acclarato solo in relazione all’assassinio di Samuel Paty).
LE CONSEGUENZE DELLA POLITICAL EXPLOITATION DEI DIRITTI FONDAMENTALI
È certo, invece, che la retorica della difesa a tutti i costi della libertà di espressione che pavlovianamente viene utilizzata in casi del genere può diventare pericolosa quando viene strumentalizzata politicamente. È quanto si può dedurre da un articolo pubblicato dal quotidiano francese Le Monde a firma di Olivier Mongin e Jean-Louis Schlegel, già rispettivamente direttore e caporedattore della storica rivista Esprit.
I due intellettuali d’Oltralpe si chiedono se la political exploitation delle vignette di Charlie Hebdo, proiettate sulle facciate di due alberghi in Occitania o delle quali è stata chiesta l’esibizione su tutti i muri di Francia, sia una risposta corretta e in grado di fermare l’ondata di violenza che sta attraversando l’Europa.
L’argomento cruciale dell’articolo è quello che evidenzia l’appropriazione politica delle vignette, la quale si traduce in una
mobilisation pour imposer à la vue de tous (au nom de la “liberté républicaine”) des caricatures extrêmes de la religion.
È il passaggio dalla libertà individuale di non voler vedere quelle vignette, che rimangono confinate nel rapporto autore-fruitore volontario, alla costrizione della collettività che deve subirle non per propria scelta ma per imposizione politica.
Si potrebbe dedurre, dunque, che non siamo più di fronte a un esercizio pur estremizzato al diritto del singolo alla libertà di espressione, ma a una scelta politica di tipo tattico che include i diritti fondamentali nell’arsenale di armi non convenzionali da usare per combattere la propaganda del terrorismo islamico. Non, dunque, la rivendicazione di un principio, ma l’accettazione istituzionale del limite alla libertà di manifestazione del pensiero nella “versione” Charlie Hebdo.
La confusione fra il piano dei diritti e quello politico è molto pericolosa. Se ci si muove sul primo, è chiaro che gli elementi costitutivi delle democrazie moderne non si discutono.
Quando ci si muove sul secondo, invece, la realpolitik segue percorsi obliqui e, per definizione, ha come unico limite la machtpolitik cioè la forza che, individualmente, un Paese ha la capacità di esprimere o applicare. Scelte politiche anche di breve periodo, dunque, possono avere effetti negativi perduranti e non immediatamente percepibili.
IL BILANCIAMENTO FRA DIRITTI INDIVIDUALI, ESIGENZE COLLETTIVE E VALORI DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO-POLITICO
È principio acquisito quello secondo il quale un diritto, anche e soprattutto se fondamentale, può essere esercitato in modo molto esteso ma non illimitato. A volte, come nel caso delle storiche campagne sul divorzio e sull’aborto e di quella contemporanea sul fine vita, il superamento dei limiti è una scelta deliberata per scuotere i costumi sociali. Altre volte è un abuso commesso in nome non di un “diritto fondamentale” ma di un über diritto, cioè della pretesa che la propria convinzione individuale prevalga su qualsiasi altra posizione giuridica soggettiva.
Di conseguenza c’è da chiedersi se la “semplice” qualificazione di un diritto come “fondamentale” implichi l’impunità nell’esercitarlo a prescindere dalle conseguenze che questo provoca su altre persone e sulla collettività in senso lato.
A prescindere dalla inutilità dimostrata sul campo dell’app Immuni, il dibattito a volte surreale che si è sviluppato sulle limitazioni alla riservatezza per consentire l’exposure notification di persone affette da Covid-19 ha evidenziato la necessità di un bilanciamento fra interessi contrapposti: quello dell’individuo alla tutela della riservatezza, quello della collettività a contenere la diffusione del contagio.
Se, dunque, è ammissibile un bilanciamento di interessi in materia di salute e riservatezza, a maggior ragione questo dovrebbe essere ammissibile quando si parla di libertà di espressione e di incolumità personale.
È SANZIONABILE CHI ABUSA DI UN DIRITTO FONDAMENTALE?
Qui, il momento —anzi, i momenti— della verità. In primo luogo, ci si potrebbe chiedere se si possono imporre limitazioni alla libertà di espressione in nome della tutela della collettività. A corollario, ci si potrebbe anche domandare se sia un comportamento lecito quello di chi, potendo prevedere le conseguenze dell’esercizio della propria libertà di espressione, assume il rischio che altri paghino (anche con la vita) il prezzo di questo “atto di libertà”.
Alla prima domanda è facile rispondere: gli ordinamenti —persino quello Usa che della libertà di espressione è la bandiera— affidano alle corti questo potere/dovere di controllo e limitazione. Problema risolto. Altrettanto facile, ma più problematico è, invece, rispondere alla seconda domanda.
Che la collettività in quanto tale sia un soggetto che merita tutela giuridica è fuori discussione. Così come è fuori discussione che ci possono essere azioni che pur non essendo dirette verso una persona in particolare provocano effetti negativi su un intero gruppo sociale o categoria di soggetti. È il caso degli effetti collaterali dei farmaci (storico, il caso delle malformazioni fetali provocate dal Talidomide) o dell’inquinamento (altrettanto fondamentale il caso dell’inquinamento di Porto Marghera).
Se, dunque, la collettività è vittima di azioni individuali che ne danneggiano la salute, per analogia si potrebbe concludere che andrebbe punito anche chi la danneggia tramite discorsi, immagini o altre forme di espressione. E in effetti così è, come nel caso delle sanzioni per chi diffonde notizie funzionali ad abusi di mercato o incitano all’odio e alla discriminazione.
Il principio secondo il quale della libertà di espressione si può abusare e che l’abuso deve essere punito, dunque, è già presente nel “sistema”. Ma, ed è un aspetto fondamentale, la punizione dell’abuso dipende dall’esistenza di un legame diretto fra la condotta del soggetto e chi ne subisce gli effetti e dalla scelta del legislatore (italiano) di ritenere questi comportamenti così pericolosi da meritare una sanzione ancora prima che questi effetti si manifestino.
Tornando al caso di Charlie Hebdo e applicando questi criteri, si dovrebbe innanzitutto dimostrare che le conseguenze tragiche provocate dalla pubblicazione delle vignette o dalla loro riproposizione fossero previste ed accettate dagli autori e dai politici che, consapevolmente, ne amplificano la diffusione e ne fanno una bandiera. Prima ancora, poi, si dovrebbe dimostrare che esiste un legame effettivo e concreto fra la diffusione delle vignette e gli attacchi. A condizione di dare queste prove (impossibili), dunque, non ci sarebbero ostacoli insormontabili per ritenere gli autori delle immagini blasfeme (e i politici che ne sostengono la produzione artistica) responsabili delle conseguenze delle loro scelte.
Questo ragionamento è la sintesi delle varie posizioni politiche le quali, in vario modo, hanno sostenuto l’esistenza di un legame diretto fra la pubblicazione delle vignette blasfeme e la responsabilità per le conseguenze tragiche di questo gesto.
Ma una tesi del genere “prova troppo” — come si direbbe in un’arringa — perché in democrazia le conseguenze delle forme anche estreme di manifestazione del pensiero sono un “rischio accettato” dall’ordinamento sulla base dei propri valori fondamentali. Di conseguenza, se anche fosse dimostrabile un collegamento causale, non sarebbe giuridicamente corretto stabilire una responsabilità del periodico francese basata sul rapporto fra la pubblicazione o l’utilizzo delle vignette blasfeme e la “vendetta” consumata dal terrorismo islamico. E non basterebbe certo la rivendicazione delle sigle terroristiche a dimostrare l’esistenza di questo legame.
L’IMPATTO SUL POLICY MAKING
Questa analisi che sembrerebbe puramente giuridica ha, invece, delle conseguenze dirette sulle scelte politiche in generale e su quelle di sicurezza in particolare.
Politica e diritto sono stati per lungo tempo (almeno formalmente) separati in casa. La prima, libera nel fine, stabilisce obiettivi frutto di negoziazione fra le varie anime che rappresentano la società, il secondo “cristallizza” il risultato dell’accordo in “clausole contrattuali”, con i “valori fondamentali” che rappresentano la cerniera fra i due mondi e che per lungo tempo non sono mai stati messi in discussione.
Sono proprio i “valori fondamentali”, tuttavia, a rappresentare il punto di potenziale rottura del rapporto fra politica e diritto. Se, infatti, il loro contenuto venisse ridefinito da un’azione politica, anche l’interpretazione delle norme cambierebbe di conseguenza, con effetti che vanno ben oltre la “semplice” limitazione di un diritto fondamentale.
Fino a quando la libertà di espressione rimane esercitata nei termini attuali, è impossibile il ricorso a classici strumenti di controllo sociale come censura, propaganda e “pensiero unico” . Al contrario, accettare che la libertà di espressione possa generare una responsabilità indiretta in capo a chi la esercita significa abbassare la soglia di rischio accettato dall’ordinamento. E dunque, in altri termini, prendere a sanzionare chi si fa portavoce del pensiero libero ogni volta che questo potrebbe causare delle reazioni, piuttosto che chi questo pensiero libero vuole imprigionare o addirittura eliminare.
Questo cambiamento culturale avrebbe quindi delle conseguenze dirette non tanto verso chi aggredisce una visione del mondo (e che non ha bisogno di giustificazioni come la pubblicazione di qualche vignetta sgradevole per commettere atrocità), quanto piuttosto nei confronti della libertà dei cittadini e della tenuta democratica di uno Stato. Si tornerebbe, infatti, in una condizione di prevenzione permanente, dove in nome della sicurezza e di un attacco che potrebbe non arrivare mai, nell’immediato viene ridotto l’esercizio delle libertà civili.
CONCLUSIONI
Sostenere l’esistenza di una responsabilità giuridica per le conseguenze indirette dell’esercizio della libertà di espressione —o di un qualsiasi altro diritto fondamentale— è una tesi pericolosa per la sopravvivenza delle istituzioni democratiche.
Benché astrattamente possibile, specie in una prospettiva di tutela dell’ordine pubblico, una scelta del genere richiederebbe un sostanziale cambio nella gerarchia dei valori democratici e avrebbe come conseguenza una generale e non accettabile restrizione della libertà dei cittadini.
Nell’affrontare le conseguenza degli attentati causati dalla pubblicazione delle vignette blasfeme è necessario tenere separata la difesa politica dei principi fondamentali delle democrazie occidentali dalla trasformazione del caso specifico in “bandiera” istituzionale.
È altrettanto importante resistere alla tentazione di indebolire i pilastri valoriali sui quali poggia la democrazia occidentale ed evitare cedimenti nell’attuale impianto del sistema di prevenzione e sicurezza di polizia.
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