La nuova direttiva sul copyright tutela solo gli interessi dell’industria dei contenuti, privatizza la giustizia e giustifica la censura da parte della piattaforma di Andrea Monti – PC Professionale n. 338 – maggio 2019
Tanto tuonò che piovve, e dunque la infame direttiva sul copyright è stata finalmente approvata dal Parlamento Europeo lo scorso 26 marzo 2019.
Con la solita scusa di “proteggere gli autori e la cultura”, questo provvedimento, in realtà, tutela solo gli interessi dei grandi gruppi editoriali a danno di quelli dei creatori indipendenti di contenuti, non favorisce la libertà di informazione e crea un alibi alle piattaforme per censurare gli utenti.
Cominciamo dal primo punto.
Gli aggregatori di contenuti dovranno accordarsi con i titolari dei diritti sui contenuti stessi per poterli utilizzare. Criterio sacrosanto, in linea di principio, ma che non giustifica l’emanazione della direttiva: per evitare che – diciamo – Google “fagociti” gratuitamente determinati contenuti basta metterli dietro un paywall senza invocare codici e pandette.
Così facendo, però, i fornitori di contenuti perderebbero traffico e introiti pubblicitari e, con buona probabilità, il numero degli abbonati non consentirebbe a questi soggetti di fare utili. Il che porta al passaggio successivo: perché il paywall non è la soluzione?
Perchè gli utenti pagano solo per un servizio che reputano adeguato alle loro esigenze o che non trovano altrove, ma i fornitori “professionali” di contenuti, evidentemente, non vogliono – o non sono in grado di – produrli, accontendandosi dunque di posizionarsi a fianco di blog personali, profili di social network e simili che tutto sono tranne che “informazione professionale”. Tradotto: se il prodotto è scadente, nessuno è disposto a comprarlo.
D’altra parte, e veniamo ad un altro aspetto critico della direttiva, la norma non è pensata – e comunque è praticamente impossibile da applicare – per i creatori indipendenti di contenuti che non hanno, da questo provvedimento, maggiori tutele di quelle che la legge vigente già garantisce loro.
Sarebbe dunque stato più onesto intellettualmente definire questa direttiva come “norme a tutela dell’industria dei contenuti” piuttosto che travestirla malamente come “arma” per proteggere la cultura.
Nemmeno, come si è pure detto, questa riforma serve per proteggere la libertà di informazione minacciata dai servizi di “news personalizzate” che possono manipolare le coscienze. E’ un’affermazione priva di senso, perché orientare – in modo più o meno surrettizio – l’opinione dei lettori e degli spettatori è esattamente quello che fanno da sempre i mezzi di informazione “tradizionali”.
Scegliere cosa va in prima pagina o nei titoli di apertura o di cosa si debba parlare e di cosa si debba tacere non è affatto una scelta neutra, ma sono il frutto di una linea editoriale dichiarata o di un diktat politico (auto)imposto. In altre parole: il controllo verticistico dell’informazione c’è già e da sempre (non a caso Noam Chomski parla di prop-agenda). Il problema vero, invece, è che la cosiddetta “informazione professionale” si è vista scippare sotto il naso un ruolo che pensava le spettasse per diritto divino e che ha interpretato in modo sempre più autoreferenziale.
Infine, nonostante i contorcimenti verbali per non dire che è così, la direttiva impone in sostanza alle piattaforme di content-sharing (ma non solo a loro) di eserciare un ruolo attivo nei confronti degli utenti e di verificare cosa rendono disponibile online. E’ evidente che, sulla base del principio di precauzione, i fornitori di servizi saranno molto solerti a bloccare contenuti o a scrivere contratti capestro a discapito degli utenti, ma finalmente con la possibilità di difendersi dalle accuse di censura rispondendo: “non è colpa nostra: la direttiva sul copyright lo vuole!”
Con il trasferimento a soggetti privati (e spesso anche extracomunitari) del potere di decidere cosa sia legale o no e dunque sottraendolo alla magistratura questa direttiva compie un altro passo verso la privatizzazione della giustizia.
Il contrasto alle violazioni del diritto d’autore passa per procedure giudiziarie più rapide – e possibilmente online – nelle quali chi ha commesso un illecito ne risponde individualmente e personalmente. E non attraverso la demolizione dei principi fondamentali dello Stato di diritto.
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