di Andrea Monti – Interlex n. 374 – 7 maggio 2008
Con questo articolo non intendo ritornare sugli specifici profili di illiceità del trattamento dei dati fiscali da parte dell’Agenzia delle entrate, di cui mi sono occupato in un altro articolo, quanto piuttosto svolgere alcune riflessioni sulle carenze strutturali della normativa sul trattamento dei dati personali e sull’autodeterminazione informativa (DLGV 196/03) e sulla tutela della privacy (art. 615 bis del codice penale) evidenziate da questa spiacevole vicenda.
Il Garante per la protezione dei dati personali – con ammirevole celerità – ha emanato un provvedimento formalmente ineccepibile, che però si infrange contro la dura realtà della concreta inapplicabilità e sostanziale inutilità.
Se da un lato l’Agenzia delle entrate non potrà continuare la diffusione indiscriminata dei nostri dati fiscali, nello stesso tempo è realisticamente impensabile recuperare tutte le copie che sono già circolate in rete. Da questo punto di vista, dunque, il danno per i cittadini – nella sua globalità – è enorme, ma difficilmente dimostrabile e quantificabile a livello individuale.
Ci si aspetterebbe che un fatto di così grave portata, commesso dolosamente dai responsabili dell’Agenzia delle entrate (che nel suo parere difende la propria scelta, con ciò dimostrando che l’accaduto è stato frutto di una decisione meditata e non di un errore) fosse sanzionato penalmente.
Invece non è così. Nella migliore delle ipotesi, l’amministrazione – si legge nel comunicato del Garante – potrebbe venir sanzionata amministrativamente ai sensi dell’art. 161 DLGV 196/03 per omessa informativa.
Tutto qui? Ma soprattutto, perché deve pagare l’Agenzia delle entrate (cioè – alla fine del giro – i cittadini) e non la persona fisica che ha dato l’ordine di procedere? Sarebbe veramente una beffa che la sanzione milionaria irrogabile (fossero anche solo 1.000 Euro per contribuente, il totale sarebbe comunque astronomico) venga poi ribaltata sulle vittime stesse dell’illecito!
Sia come sia, questa vicenda ha evidenziato due dati paradossali:
– la più massiccia fuga abusiva di dati della storia d’Europa (e forse del mondo) è stata causata non da criminali informatici, terroristi o multinazionali della profilazione, ma da uno Stato sovrano a danno dei propri cittadini;
– l’unica legge che avrebbe avuto la possibilità di prevenire e sanzionare questo comportamento è praticamente inutile, perché il reato di trattamento illecito di dati personali (art. 167 del codice) è applicabile solo a certi tipi di (mal)trattamenti, non prevede responsabilità colposa, richiede necessariamente e alternativamente il danno o il profitto come elemento essenziale della fattispecie.
In realtà ci sarebbe un’altra norma concettualmente applicabile al caso di specie:l’art. 615 bis del codice penale, che punisce le interferenze illecite nella vita privata. Peccato che il reato in questione si configuri solo se la violazione della privacy è commessa tramite strumenti di ripresa audiovisiva. Dunque, per difetto di tipicità, la lesione della riservatezza non può essere tutelata, allo stato, da questa norma.
Al di là di questi profili tecnico-giuridici, tuttavia, credo che la più grossa responsabilità di chi ha preso la scellerata decisione sia di tipo culturale. Sono convinto che l’uso della rete da parte della pubblica amministrazione sia un ottimo esercizio di democrazia, ed è proprio per questo che l’azione dell’Agenzia delle entrate è una occasione persa e un danno alla modernizzazione del Paese. Provocando questa ondata di critiche e di reazioni istituzionali, l’Amministrazione finanziaria ha seriamente pregiudicato la possibilità di avere un fisco realmente trasparente e più civile.
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