La notizia della condanna all’ergastolo per spionaggio di un ricercatore della britannica Durham University pronunciata da un tribunale degli Emirati Arabi ripropone il tema del “rischio accademico” e dell’utilizzo di istituzioni pubbliche o attività imprenditoriali e professionali come “copertura” per attività di intelligence diretta o indiretta.Che le università – specie nel mondo anglosassone – siano un bacino al quale i servizi segreti attingono a piene mani (con esiti a volte controproducenti, come nel caso di Kim Philby e dei “Cambridge Five“) è fatto noto da sempre. Così come non è un mistero che aziende, organizzazioni e individui con particolare presenza internazionale in luoghi “di interesse” vengano utilizzate anche inconsapevolmente come fonte di informazioni.
E’ pacifico che l’appartenenza a una ONG, a una (prestigiosa) università occidentale o a una testata giornalistica costituiscono un motivo più che ragionevole per giustificare la presenza in determinati luoghi e una qualche “attività informativa”, non necessariamente “al servizo di Sua Maestà”.
Ma, dall’altro lato le frequenti accuse (vere o false che siano) di coinvoglimento di questi soggetti in attività di spionaggio e i relativi tragici esiti, come nel caso di Giulio Regeni, pongono ancora una volta il tema del “rischio accademico” e della “irresponsabilità” di istituzioni e singoli docenti che propongono ai loro studenti attività pericolose ma senza renderli pienamente consapevoli di ciò che dovranno fare e senza offrire alcuna rete di salvataggio.
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