Il Financial Times riporta la notizia della scelta adottata dalla Cina di dismettere l’utilizzo di processori Intel e Amd — oltre che del sistema operativo Windows e implicitamente dei software che ne hanno bisogno per funzionare — dalla propria amministrazione: al bando tecnologico la Cina risponde con un colpo alla solidità delle Big Tech Usa. L’analisi di Andrea Monti, professore incaricato di Digital law nell’Università di Chieti-Pescara – Inizialmente pubblicato su Formiche.net
L’indipendenza tecnologica è diventata da tempo un elemento essenziale delle strategie per la creazione di un multipolarismo con il baricentro spostato nell’area indopacifica. Mentre, infatti, l’Europa non riesce a trovare una propria via per la creazione di un’infrastruttura totalmente autonoma dalle tecnologie Usa, Paesi come l’India stanno investendo convintamente sulla creazione di un’industria nazionale dei chip e dei processori avvantaggiandosi, quanto a sistemi operativi e applicazioni, dell’enorme versatilità offerta dall’approccio “open source” (che meglio sarebbe chiamare “libero”).
Tradizionalmente, le ragioni di queste scelte di politica industriale sono basate sulla necessità di (ri)prendere il controllo sulle infrastrutture critiche per il funzionamento di uno Stato: serve a poco avere software nazionali(zzati) se per funzionare hanno bisogno di hardware sul quale non è possibile esercitare alcun controllo. Tuttavia, per competere con le tecnologie occidentali è necessario svilupparne di altrettanto efficienti, cosa che richiede tempo ma soprattutto accesso a conoscenze di altissimo livello.
Spionaggio industriale a parte, gli unici modi per accedere a queste risorse sono, sul breve periodo, acquistarle e, sul lungo, formare scienziati e ricercatori inviandoli a studiare all’estero e attirando i cervelli stranieri. Questo spiega come la necessità di mantenere un vantaggio competitivo e strategico sui Paesi emergenti si traduca nel ricorso alla leva geopolitica dei divieti di esportazione di determinate tecnologie (e da qualche tempo, dei dinieghi dei visti a studenti e ricercatori di determinati Paesi).
Nel corso del tempo, tuttavia, questo vantaggio si è assottigliato se è vero che, nonostante le restrizioni Usa, Huawei è stata in grado di produrre chip da 7 nanometri che le hanno consentito di sfidare Big Tech sul proprio terreno addirittura spingendo Apple ad applicare al mercato cinese una inusuale politica di sconti sulla linea di prodotti iPhone per contrastare il declino delle vendite.
La notizia è più importante di quello che sembra perché non riguarda semplicemente le fluttuazioni delle quote di mercato dei un produttore di elettronica di consumo.
Il messaggio inviato con la messa in commercio di chip sofisticati e con il bando AMD/Intel/Microsoft dalle infrastrutture statali, infatti, è chiaro: la Cina non dispone (ancora e quantomeno a livello di massa) di tecnologie analoghe o superiori a quelle occidentali, ma è arrivata al punto di averne di sufficienti per avviare una competizione frontale sul fronte del mercato e non solo in termini commerciali.
Le conseguenze economiche della strategia cinese per le Big Tech Usa coinvolte —come rilevato da alcuni analisti— si tradurranno infatti in una significativa riduzione delle vendite, con effetti al momento difficili da prevedere. Di certo non ci saranno conseguenze catastrofiche sul breve periodo, ma la scelta cinese di andare verso l’autonomia hardware può essere un indizio della reazione alle politiche occidentali di contenimento tecnologico, basata sull’indebolimento delle industrie di punta statunitensi tramite il divieto di accesso al mercato interno.
Ad oggi queste limitazioni riguardano soltanto i sistemi governativi cinesi, ma se dovessero estendersi all’intero mercato, e se dovessero essere adottate anche da altri Stati (per esempio, da quelli del Brics, sulla base di accordi di cooperazione tecnologica) lo scenario potrebbe cambiare significativamente, specie se si dovesse compiere, da ambo le parti, un ulteriore — e irreversibile — passo, cioè intervenire direttamente sulla standardizzazione tecnologica, sull’interconnessione delle reti e sul governo della Big Internet.
Fino ad ora, infatti, la contesa fra i due blocchi non ha messo (ancora) in discussione, per esempio, il formato dei file utilizzati dai programmi informatici, il sistema di trasporto dei dati sulle direttrici internazionali (anche se le politiche sui cavi sottomarini e sul routing vanno verso questa direzione) o l’infrastruttura dell’internet governance basata su Ong transnazionali come Icann o Ripe.
Se questo accadesse, ci troveremmo di fronte a una nuova Cortina di ferro che impedirebbe alle aziende occidentali l’accesso alla capacità produttiva cinese con un impatto economico, almeno sul breve periodo, devastante. Ancora una volta, e in termini più generali, emerge in tutta la sua criticità il tema della (fattibilità della) rilocalizzazione delle capacità produttive all’interno dei confini occidentali e della necessità di evitare che nuovi partner industriali nell’area dell’Indo-Pacifico non si trasformino, anch’essi, da fornitori a concorrenti.
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