Una parte della “vulgata” sulla nuova direttiva copyright racconta che Google e – in generale – i servizi di aggregazione delle notizie sono pericolosi per la libertà perché consentono di alterare ciò che viene comunicato agli utenti, orientandone surrettiziamente le opinioni.
E’ un’affermazione priva di senso, perché orientare – in modo più o meno surrettizio – l’opinione dei lettori e degli spettatori è esattamente quello che fanno da sempre i mezzi di informazione “tradizionali”.
Scegliere cosa va in prima pagina o nei titoli di apertura o di cosa si debba parlare e di cosa si debba tacere non è affatto una scelta neutra, ma sono il frutto di una linea editoriale dichiarata o di un diktat politico (auto)imposto. In altre parole: il controllo verticistico dell’informazione c’è già e da sempre (non a caso Noam Chomski parla di prop-agenda).
Accusare, dunque, Google & C. di manipolare (anche involontariamente) l’informazione ricorda molto la storia del bue, dell’asino e delle corna. Il problema vero è che la cosiddetta “informazione professionale” si è vista scippare sotto il naso un ruolo che pensava le spettasse per diritto divino e che ha interpretato in modo sempre più autoreferenziale.
Se la giaculatoria fosse veramente quella dello “scippo di contenuti”, sarebbe bastato metterli tutti a pagamento, impedendo così agli aggregatori di accedere e riutilizzare automaticamente articoli, servizi, immagini e video.
Se questo non è stato fatto, deve dipendere da un preciso calcolo economico: i giornali non possono permettersi di rinunciare alla pubblicità e al traffico veicolato dagli aggregatori perché non è detto che tutti i lettori si abbonerebbero, così rendendo sostenibile l’attività del giornale.
E se i lettori non sono disponibili a pagare per accedere al sito di un quotidiano, allora vuol dire che i contenuti di questo sito non sono giudicati qualitativamente meritevoli di essere pagati.
A vedere quello che circola, non è che i lettori abbiano tutti i torti.
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