Questo articolo diAlessandro Longo su Repubblica.it perpetua una visione parziale e “preventiva” del #GDPR ispirata alla vecchia direttiva 95/46 piuttosto che alla nuova regolamentazione e sostiene una posizione che si traduce nella limitazione della libertà di ricerca.
Nello specifico, un conto è lanciare allarmi generici – anche condivisibili, nel merito – un altro conto è ritenere l’incompatibilità di una certa iniziativa con il GDPR senza avere elementi precisi e concreti su cosa sia stato effettivamente fatto. Dunque, è astrattamente possibile ipotizzare che una ricerca come quella di Megaface possa violare il GDPR, ma per dirlo ci vogliono le prove.
Il GDPR consente di fare ciò che si vuole, purchè si sia in grado di dimostrare il razionale della scelta e la sua conformità normativa. Dunque, se ci sono sospetti sul comportamento di un certo titolare, che si facciano le verifiche piuttosto che pubblicare lamentazioni.
Il tema è serio perchè riguarda, in particolare, la ricerca medica e genetica: dovendo trattare grandi quantità di dati, non è pensabile gestire il consenso – se dovuto – in modo tradizionale. Ha molto piu’ senso lasciare liberi gli scienziati di organizzarsi ma eseguire controlli rigidi su come operano.
Molte ricerche scientifiche, mediche, psicologiche ed economiche hanno bisogno di interagire con dati anche personali, e impedirne o rallentarne l’esecuzione è un danno per la collettività e per gli individui.
E’ facile ricadere nelle vecchie abitudini prescrittive invocando “divieti preventivi”, ed è molto, molto più difficile interpretare in modo equilibrato una normativa che, peraltro, già mostra in grande anticipo i segni dell’età e l’usura del tempo.
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