I grandi marchi sono veramente le vittime, nel business della pubblicità online fraudolenta?
di Andrea Monti PC Professionale n. 298 gennaio 2016
L’otto gennaio 2016 l’Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (l’ufficio marchi e brevetti europeo) ha pubblicato uno studio intitolato “Digital Advertising on Suspected Infringing Websites”. Apparentemente si tratta di uno studio di ampio respiro che presenta dati oggettivi sul rapporto fra pubblicità online e siti web sospettati di violare la proprietà intellettuale di terze parti. Ma in realtà si tratta di un lavoro parziale nell’approccio e discutibile nel metodo, che rischia tuttavia di diventare la “bibbia” per politici e autorità di regolamentazione.
I risultati della ricerca sono abbastanza interessanti (anche se, in realtà, nient’affatto innovativi) perché classificano le varie forme di attività illecite e le tecniche utilizzate per commetterle sfruttando la pubblicità online. E rendono quindi più comprensibile ai non addetti ai lavori le dinamiche di funzionamento di meccanismi fraudolenti che stanno dietro un semplice click.
Il punto di partenza individuato dallo studio è l’utilizzo della messa in circolazione di materiale duplicato illecitamente o di messa a disposizione di streaming non autorizzato per guadagnare con la pubblicità e/o diffondere codice malevolo.
In altri termini, per generare guadagni e diffondere virus, malware e altri agenti patogeni, i malintenzionati sfruttano innanzi tutto la inevitabile tendenza delle persone a cercare di non pagare per beni e servizi online, e la diffusa disponibilità a “chiudere un occhio” sulla provenienza di quello che si sta cercando di utilizzare.
In secondo luogo, la oggettiva complessità dei sistemi di gestione degli spazi pubblicitari su blog, servizi online e piattaforme di social networking rende estremamente complesso classificare il livello di legalità di ogni singola inserzione.
In terzo luogo, andrebbe anche aggiunto ma lo studio non lo fa, il tuttora basso livello di sicurezza di sistemi operativi e software insieme alla scarsa sensibilità degli utenti agli aspetti della sicurezza fanno si che i vettori di attacco possano usare la pubblicità online come efficientissimo cavallo di Troia.
Pur non fornendo conclusioni, lo studio indica nel “follow the money” un metodo efficace per ridurre il numero (e dunque la pericolosità) di queste azioni criminali: facendo in modo che i marchi, famosi e non, evitino di fare pubblicità su siti o servizi “discutibili” si disincetiverebbe l’utilizzo fraudolento dell’advertising online.
Ma ci sono alcuni problemi strutturali che riducono l’utilità informativa della ricerca e che, nello stesso tempo, rappresentano un pericoloso sdoganamento di metodi di analisi quantomeno discutibili che possono essere utilizzati per dimostrare praticamente qualsiasi cosa.
Cominciamo con l’ampiezza e la qualità delle informazioni utilizzate per lo studio.
Nell’arco di sei settimane sono stati analizzati 280 siti sospettati di violare proprietà intellettuale, e analizzate 180.000 inserzioni contenute in 1.400 pagine.
Le tipologie di siti analizzati andavano da portali torrent, a siti che offrono link ad altre risorse illecite, a piattaforme di hosting.
Non bisogna essere un esperto di statistica – e basta conoscere un po’ la rete – per capire che questi numeri sono ridicolmente piccoli rispetto a ciò che si trova online.
Per di più, come invece è necessario in ogni studio statistico, non sono evidenziati in modo dettagliato i criteri di selezione del campione (cioè della base di dati da elaborare).
Inoltre, come si legge nella nota numero 23: “alcuni dei siti web selezionati erano stati bloccati certi ISP in Inghilterra (e in altri paesi) da ordini della magistratura. Comunque, grazie a proxy localizzati in luoghi dove questi ordini non erano stati emessi siamo stati in grado di accedere a questi siti per condurre questo studio”. Ma da nessuna parte c’è scritto se il blocco di questi siti sia stato ordinato in via temporanea, in attesa del processo, o se si tratti di blocchi seguiti a sentenze irrevocabili (che, quindi, certificano la effettiva illegalità del servizio).
Ancora: si parte dal presupposto che i siti analizzati veicolino contenuti illegalmente riprodotti. Ma chi lo ha accertato? Nello studio non ci sono indicazioni di sentenze di condanna (almeno di primo grado), dal che si deve desumere che siano i titolari dei diritti a decidere cosa sia definibile “lecito” e cosa no.
Un’altra assunzione tutta da dimostrare – e che invece viene ritenuta corretta – è che le aziende titolari di marchi famosi che vedono i loro prodotti pubblicizzati su siti che violano la proprietà intellettuale siano vittime di un danno alla reputazione.
Questo non è necessariamente vero, perché se l’obiettivo della pubblicità è quello di mostrare un prodotto al maggior numero di persone, allora il piazzamento di un prodotto su un sito che – per via della natura illecita dei suoi contenuti – attira un gran numero di persone potrebbe anche essere uno strumento perfettamente adatto in termini di acquisizione di potenziali clienti.
Ma prima di tutto, lo studio è basato su un’assunzione implicita: l’unica proprietà intellettuale rilevante è quella “proprietaria”, il che esclude l’open source, creative commons e tutte le altre forme di licenze libere che – invece – sono alla base dell’internet (*nix, TCP/IP ecc.) e della circolazione di contenuti e sapere come – pur con i suoi grossi limiti – Wikipedia.
E’ chiaro dunque che rileggendo lo studio in questi termini, i suoi risultati diventano irrilevanti, ma ciononostante è altamente probabile che saranno utilizzati come base da legislatori e magistrati per promulgare leggi ed emettere sentenze.
E’ ipotizzabile, dunque, l’avvio di un circolo vizioso che porterà ad effetti sempre più squilibrati a favore degli interessi di una specifica parte privata (i titolari dei diritti d’autore e di proprietà intellettuale) a danno delle imprese (non solo) ICT e dei diritti di consumatori e utenti.
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