di Andrea Monti – InfoSec News del 4 maggio 2020
Gli USA accusano la Cina di avere avuto un ruolo attivo nella diffusione del COVID-19 e chiedono di “fare a fidarsi”. Ma la fiducia bisogna meritarla e gli esempi recenti, come la guerra all’Iraq, dimostrano che quando “è necessario” anche i governi occidentali ricorrono alla disinformazione dei loro concittadini per sostenere le proprie scelte politiche. Una scelta del genere incrina la fiducia nei confronti del governo e mette in dubbio la necessità di sopportare le conseguenze anche pesantissime derivanti dalle scelte dell’esecutivo.
Nel conflitto non dichiarato fra Cina e USA, dunque, anything goes, compreso il COVID-19 usato come arma non batteriologica, ma di PsyOps (Psychological Operations – versione politically correct per “uso militare della propaganda”). Il copione è lo stesso che venne messo in scena ai tempi della guerra contro l’Iraq, con le “armi di distruzione di massa” che occupavano il posto ora dedicato al virus: dichiarazioni politiche basate su “dossier di intelligence” riprese acriticamente dai media che polarizzano l’opinione pubblica, sostenendo ricorsivamente scelte politiche e, dunque, il conflitto aperto.
La ricerca del casus belli – lo si capisce dalle stesse parole – non è un fatto nuovo e la Storia è piena di eventi “lasciati accadere” se non addirittura costruiti a tavolino per giustificare azioni diversamente non tollerabili. L’ultimo caso è quello della guerra all’Iraq, con lo scandalo del plagio di una tesi per compilare il rapporto che ebbe un ruolo decisivo nella scelta britannica di entrare in guerra .
Tornano dunque alla ribalta le accuse ventilate (e mai sopite) secondo le quali il virus sarebbe “uscito” dal famigerato “laboratorio di Wuhan” e formalizzate in una dichiarazione del Segretario di Stato americano Mike Pompeo che parla esplicitamente di “enormous evidence” – prove gigantesche.
Ma quali sono le “prove gigantesche” delle quali stiamo parlando? Nessuna, salvo la “parola” del Segretario di Stato americano e gli articoli di giornale che parlano di un dossier di quindici pagine preparato da governi occidentali e “finito nelle mani” del The Saturday Telegraph. Nè più nè meno quello che è accaduto con l’Iraq.
Le tesi secondo cui il COVID-19 è stato creato in laboratorio, oppure che è scappato da un laboratorio oppure che la Cina lo avrebbe lasciato propagare per non essere il solo Paese colpito e via complottando serpeggiano sin dall’inizio della pandemia e ogni tanto riemergono in coincidenza della diffusione di notizie più o meno fake. Poco importa che il COVID-19 sia di origine naturale, geneticamente diverso da quello di cui parlava nel 2015 un servizio sulla manipolazione genetica di un parente di questo virus trasmesso da TG3 Leonardo, che nel laboratorio di WuHan era in atto un progetto di ricerca sui virus vietato in USA e dunque gestito “in outsourcing” in Cina. Poco importa che non ci siano evidenze per sostenere queste affermazioni, perché ciò che conta è che ci creda “la gente”, il “popolo del web”, “the average Joe”, grazie all’improbabile alleanza fra complottisti ed esperti istituzionali di manipolazione psicologica.
Guadagnare il sostegno popolare per giustificare l’avvio di un’azione di forza contro un altro Paese o per convincere i propri sudditi, pardon, concittadini che se si devono sopportare conseguenze durissime “è colpa del nemico” è la legge fondamentale spiegata in qualsiasi “Manuale del generalissimo”, a qualsiasi latutidine e a prescindere dal regime politico del momento. Ma in una democrazia occidentale i “fatti del potere”, presto o tardi, diventano pubblici e quando questi fatti rivelano menzogne, manipolazioni e inganni diventa difficile prendere per buono quello che viene comunicato ufficialmente.
Ecco perchè l’invito a fidarsi pronunciato dal Segretario di Stato USA suona stonato, come suonano stonate le difese della Cina dalle accuse che le sono mosse. Da uno Stato che ha un controllo ferreo sull’informazione ci si aspetta che le dichiarazioni pubbliche siano state pensate in funzione degli obiettivi politici da raggiungere e a prescindere dalla “verità oggettiva”. Ma da uno Stato che “crede in Dio”, cioè nella Verità, la verità è quella che si aspetta di ascoltare, sempre e comunque.
Ora, nessuno è così ingenuo da pensare che la politica (internazionale) da questa e da quell’altra parte del mondo sia basata sulla trasparenza e sulla correttezza. Così come è evidente che Realpolitik e Machpolitik impongono di non andare troppo per il sottile quando si devono raggiungere determinati obiettivi. E se per raggiungerli è necessario ingannare la popolazione, so be it, ita est, così sia.
Una domanda, però, ci si dovrebbe porre: ha ancora senso utilizzare la “fiducia nelle istituzioni” come argomento per giustificare scelte impopolari e gravide di conseguenze negative per una nazione?
Anche solo limitandosi ai fatti della storia recente, e grazie alla trasparenza dirompente provocata dalla sinergia fra l’internet e l’anonimato reso possibile dalla crittografia forte, ci sono sempre meno motivi per “prendere per buono” quello che viene comunicato ufficialmente. I governi, però, continuano ad adottare questo modo di interagire con i cittadini come se nulla fosse accaduto. Due sono le spiegazioni per questa scelta: o non hanno capito che il mondo è cambiato o, invece, hanno capito che la massa è sempre la stessa e che ubbidisce ancora alle regole della psicologia delle folle.
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