Crolli in borsa, miliardi in fumo, pubblico scandalo e indignazione istitutuzionale. Ma il caso CA è molto più drammaticamente banale di come è stato raccontato.
di Andrea Monti – PC Professionale n. 326
Il caso è talmente noto che ne ripeto sinteticamente i contenuti: una società di “relazioni istituzionali”, è accusata di avere tentato di condizionare i risultati delle elezioni USA tramite l’analisi di dati provenienti da profili Facebook acquisiti da un’altra società di cui faceva parte un ricercatore est-europeo dell’università di Cambridge che a sua volta li aveva avuti grazie a un accordo di ricerca con Facebook.
Immancabile lo strepito della piazza al diffondersi della notizia, con tanto di austere audizioni parlamentari, indignazione dei “garanti della privacy”. Altrettanto immancabile l’usuale “crollo in borsa” del titolo di Facebook provocato dalla reazione isterica degli investitori (e da quella meditata degli speculatori), le scuse pubbliche del capo di turno e la risalita del titolo, come se non fosse successo nulla.
Siamo dunque di fronte a fatti che possiamo archiviare come se fossero solo uno dei tanti incidenti di percorso che capitano a un’azienda?
No, ma non per quello che si potrebbe pensare e che praticamente tutti i commentatori stanno dicendo. Perché il caso Facebook-CA non riguarda la “violazione della privacy”, il “furto di dati” (come superficialmente viene qualificato l’accaduto) o la “manipolazione delle elezioni”.
Non c’è violazione della privacy in ciò che rendiamo consapevolmente pubblico. Come scriveva qualche giorno fa Pietro Metastasio, voce dal sen fuggita, più richiamar non vale. Se racconti qualcosa a qualcuno – a meno che questo qualcuno non abbia un dovere di conservare il segreto, come avvocati o medici – la privatezza di quel “qualcosa” è automaticamente scomparsa. Più nel concreto: se autorizzo qualche sconosciuto (come nel caso del ricercatore di Cambridge) ad accedere al mio profilo sto accettando di dequalificare il livello di riservatezza delle (comunque irrilevanti) cose scrivo e pubblico.
A maggior ragione, non c’è stato alcun furto di dati. Primo perché i dati non si possono rubare (nel senso dell’articolo 624 del Codice penale). Possono essere copiati abusivamente, possono essere distrutti, ma non possono essere oggetto di furto perchè questo reato presuppone lo spossessamento fisico (prima detengo un orologio, dopo il furto non lo detengo più). Non è semantica giuridica ma sostanza.
Non c’è nulla di nuovo nel voler influenzare in modo più o meno occulto un risultato elettorale. Si chiama “propaganda” ed è sempre esistita: leggete quello scriveva nel 1929 Edward Bernays nel libro omonimo e per capire che non parlava astrattamente guardate cosa fece, per esempio, con “Torch of freedom”. O date un’occhiata a Hidden Persuader, di Vance Packard che nel 1957 descrisse i meccanismi di persuasione occulta utilizzati nella società americana.
E se volete qualcosa di più nazional popolare, ricordatevi dell’accusa al senatore Achille Lauro che, negli anni ’50-60 del secolo scorso, fu sospettato di avere guadagnato il seggio consegnando agli elettori una scarpa prima del voto, e l’altra a fronte della prova che, nel segreto dell’urna, era stata fatta “la cosa giusta”.
Non sono questi, dunque, gli aspetti preoccupanti di questa vicenda, la quale invece ripropone problemi tanto amplificati dalla diffusione delle piattaforme di social networking quanto colpevolmente ignorati da istituzioni e utenti.
Il primo, e più strutturale, riguarda quello che Vance Packard (ancora lui) descriveva in Status Seekers, pubblicato nel 1959: l’illusione ipocrita che le classi sociali siano state livellate dal (finto) benessere raggiunto. E, aggiungo, il tentativo di ricrearle adottando (oggi) parametri autoreferenziali e vuoti come il numero di “like” o di “follower”.
Il secondo riguarda il permanere di un approccio spregiudicato, da parte delle élite, al controllo sociale. Non ci sono evidenze che CA sia stata effettivamente in grado di condizionare i risultati delle elezioni in USA o altrove. Ma basta gridare abbastanza forte che sia accaduto, perché media, politici e gente comune ci credano. Gli autori di questa operazione non sono migliori di coloro che hanno criticato.
Il terzo riguarda il malinteso – e strumentalizzato – senso della privacy al nostro tempo. La privacy non esiste. Non troverete questa parola nelle costituzioni europee e americane, non in quella russa o giapponese. La privacy è come l’Araba Fenice: che ci sia ciascun lo dice, cosa sia nessun lo sa.
Invece di preoccuparsi, duque, di proteggere qualcosa che non c’è, faremmo meglio a preoccuparci di resistere ai tentativi pubblici e privati di prendere il controllo della nostra esistenza a suon di DRM e geoblocking, controllo sulla libertà di espressione con la scusa di “combattere hate speech e fake news” e privatizzazione della giustizia in nome della lotta ai “contenuti illeciti”.
A differenza delle “minacce per la privacy”, queste sono minacce reali che si sono già concretizzate.
Ma che non fanno notizia, visto che nessuno, su Facebook, ne parla…
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