Trib. Roma Sez. IX civile – Ord. 30 gennaio 2004

Il Giudice istruttore, dr. Nicoletta Orlanti, nella causa iscritta al n.67795/2003 R.G.C., vertente tra

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Trib. Savona – Sent. n. 844/04

l’indagine effettuata presso la ditta in questione appare assolutamente lacunosa non essendo stata effettuata né la duplicazione delle memorie dei computer, né un sequestro degli stessi; né fotocopie delle licenze esibite. Uniche prove sono pertanto costituite dalla relazione tecnica del pm composta da due sole laconiche righe: non essendo stata presentata alcuna documentazione comprovante il regolare possesso del software rinvenuto durante l’ispezione e indicato come “sprovvisto di licenza d’uso” si conferma quanto precedentemente indicato nel verbale di ispezione”; nonché dal verbale di ispezione stesso … Ora avendo la difesa in data odierna prodotto 5 fatture di acquisto di quel software risalenti come data di acquisto a periodo precedente alla ispezione, è possibile ritenere, e comunque nulla dimostra il contrario, che dette fatture non siano state rinvenute al momento della ispezione ma solo successivamente per un disguido. In presenza di queste incertezze gli imputati vanno assoluti con la formula piena non essendovi la prova circa l’elemento né oggettivo né soggettivo dei reati contestati.”.

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Trib. del riesame Bolzano – Ord. 31 dicembre 2003

Il Tribunale di Bolzano, riunito in camera di consiglio, composto dai Magistrati :

Dott. Edoardo Mori – Presidente
Dott. Claudio Gottardi – Giudice
Dott. Tullio Joppi – Giudice

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Cass. Sez. Lavoro Sent. 02912/04

R.G.N. 6060/2003

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

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Agenzia entrate Roma Ris. n. 209/03

Testo: La societa’ XY S.p.A., nel formulare il quesito oggetto dell’istanza di interpello in esame, ha rappresentato quanto segue. La societa’ istante, al fine di promuovere il servizio Adsl…….. ha stipulato un contratto di collaborazione commerciale con la societa’ K S.p.A. la quale svolge attivita’ di marketing e promozione generale per K. In base a tale contratto il servizio Adsl………. viene promosso all’interno della campagna denominata …………… La K S.p.A. riconosce 1000 punti dell’operazione a premi …………ad ogni socio K che acquisti on line il servizio Adsl……….. collegandosi al sito K e seguendo la procedura indicata nel sito informatico.

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Cass. Sez. III penale Sent. n. 1778/03

ANNO/NUMERO 200303983 SEZ. 3
SENT. 18/11/2003 DEP. 03/02/2004
PRES. Zumbo A

Camera di Consiglio 18/11/2003
SENTENZA N. 1778
REGISTRO GENERALE N. 030920/2003

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Corte dei conti – Sezione giurisdizionale Piemonte Sent. n.1856/03

Mancata osservanza delle procedure di sicurezza nell’uso del personal computer – Responsabilità erariale del dipendente per i danni derivanti dalla negligenza – Sussiste
Utilizzo a scopo personale del collegamento all’internet dell’ente – Responsabilità del dipendente – Sussiste

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Cass. Sez. IV penale Sent. n. 3449/04

ANNO/NUMERO 200403449 SEZ. 4

SENT. 13/11/2003 DEP. 29/01/2004

PRES. Durso G

Camera di Consiglio 13/11/2003

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Trib.Milano Sez. Feriale – Ord. 3 settembre 2003 – N. 47507/03 R.G.

TRIBUNALE DI MILANO
SEZ. FERIALE

Riunita la camera di consiglio nella persona dei sigg.
Dott. Carlo CRIVELLI Presidente
Dott. Mariano DEL PRETE Giudice
Dott. Marisa G. NARDO Giudice Rel.
Nel procedimento di reclamo ex art. 669 terdecies c.p.a. promosso da:
M.P. WEB S.r.l. con gli Avv.ti Bruno Capponi, Luciano Daffarra ed Antonio Maria d’Addio;
reclamante

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Cass. Sez. II penale n. 32440/03

Presidente Sirena

Relatore Fenu

Pg Galasso

Ricorrente Vodafone Omnitel

Premessa

D.L. è stato tratto a giudizio del Tribunale di Torino per rispondere di detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici e telematici, codici contenuti nelle carte di credito telefoniche della società Omnitel (articolo 615quater Cp) e di frode informatica (articolo 640ter Cp), commessi in due tempi, in data anteriore e prossima al 30 ottobre 1999, in concorso con tale A.M., e in data anteriore e prossima al 12 novembre 1999. La società Vodafone Omnitel spa gìà Omnitel Pronto Italia spa – si costituiva parte civile. Era emerso dall’attività istruttoria che il L. aveva ricevuto da parte di persona a lui sconosciuta offerta di ricaricare il cellulare proprio e di altri dietro il versamento di somma inferiore a quella necessaria per l’acquisto della carta telefonica e, dopo aver acquisito e usato dei numeri di codice che gli erano stati segnalati, aveva fatto analogo favore a un suo collega di lavoro, tale A.M., di poi separatamente giudicato.

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Trib. Roma – Ord. 18 luglio 2003

IL TRIBUNALE
Composto da:
dr. Ernesto Caliento presidente
dr. Oronzo De Masi giudice
dr. Gabriele Muscolo giudice rel.
Sciolta la riserva
RITENUTO

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Trib. Milano Sez. I Civile – Ord. 14 luglio 2003 – R.G. 186391/03

TRIBUNALE DI MILANO

Sezione I civile

Il giudice, dott. Claudio Marangoni;

sciogliendo la riserva assunta all’esito dell’udienza del 7/7/2003 nell’ambito del procedimento cautelare promosso da MP WEB s.r.l. nei confronti di ANSA s.c.a r.l., di ANSA WEB s.p.a. nonché di PARMA A.C. s.p.a.;

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GIP Perugia Sent. n. 313/03

Tribunale Civile e Penale di Perugia,
Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari
Sentenza 8 luglio – 30 dicembre 2003
N. 313/03 Reg. Sentenze

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Trib. Ancona Ord. 31 maggio 2003

Il giudice, a scioglimento della riserva:

rilevato che ogni questione di contraddittorio e’ superata dalla costituzione della convenuta in cautelare.

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Trib. Lecce Ord. 28 maggio 2003

Segnalazione alla Centrale rischi della Banca d’Italia dell’esistenza di un credito a sofferenza – ammissibilità solo in caso di incapacità del debitore di far fronte in modo ordinario alle proprie obbligazioni verso l’intermediario bancario o finanziario segnalante – sussistee
Segnalazione alla Centrale rischi della Banca d’Italia dell’esistenza di un credito a sofferenza – ammissibilità in caso di uno stato di insolvenza desumibile da altri fattori – non sussiste
Segnalazione alla Centrale rischi della Banca d’Italia dell’esistenza di un credito a sofferenza – non corretta segnalazione alla Centrale rischi della Banca d’Italia dell’esistenza di un credito “a sofferenza” – idoneità a produrre effetti pregiudizievoli di perdurante attualità e determinazoione di progressiva accentuazione degli stessi – integrazione elementi del periculum in mora – concedibilità di un provvedimento d’urgenza – sussiste

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GIP Arezzo Ord. 26 maggio 2003 – N. 68702 RGNR

TRIBUNALE DI AREZZO

UFFICIO del GIUDICE per le INDAGINI PRELIMINARI

Il Giudice per le Indagini Preliminari,
Letta la richiesta di incidente probatorio formulata dai difensori di XXXXXXXXXX , indagato insieme ad altri nell’abito del procedimento penale N. 68702 RGNR per il reato di cui all’art. 171 bis comma I° L. 63341;
rilevato ché i difensori chiedono procedersi a perizia per conoscere il contenuto dell’ hard disck del computer sequestrato il 28.2.02 al XXXXXXXXXX, I per verificare se in esso si rinvengono elementi di prova a sostegno dell’ipotesi di reato;
considerato che i difensori assumono che nel caso in esame sussiste sia il requisito della “modificazione non evitabile” del disco fisso di cui alla lett, f) dell’art. 392 cpp (poiché dall’epoca del sequestro il computer sarebbe custodito in una scatola di cartone priva di prese d’aria con la conseguenza che gli apparati elettronici potrebbero deperire), sia quello di cui all’ultimo comma della citata disposizione, in quanto l’espletamento della perizia superebbe il termine dei sessanta giorni;
ritenuta la richiesta non accoglibile in quanto:
1- il pericolo di modificazione non evitabile” della cosa deve dipendere dalla natura della cosa sé e non dalle modalità di custodia della stessa, “evitabili” con ordinari ed elementari accorgimenti “tecnici” ( nel caso di specie il P.M. avrebbe potuto innanzi tutto disporre subito una consulenza ex art. 359 cpp. ovvero impartire le direttive necessarie ad evitare pericoli deterioramento, es. autorizzando l’effettuazione di piccoli fori di areazione Sul cartone in cui è custodito il computer sequestrato);
2 – nessuna elemento fattuale desumibile dagli atti induce a ritenere o, quanto meno, a sospettare, che l’esame dell’hard disck sia, nel caso specifico, talmente complesso da impegnare un arco temporale superiore a 60 giorni;
Letto ed applicato l’art.398 comma 1 c.p.p.;
PQM
Rigetta la richiesta di incidente probatorio, così come formulata dei difensori del XXXXXXXXXX.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di rito.
Arezzo 26 maggio 2003
Il GIP
Dott. Umberto Rana

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Cass. Sez. III penale Sent. 904/03

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.:
1. Dott. Giuseppe Savignano Presidente
2. Dott. Claudio Vitalone Consigliere
3. Dott. Aldo Rizzo Consigliere
4. Dott. Guido De Maio Consigliere
5. Dott. Amedeo Franco Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto dal procuratore della repubblica presso il tribunale per i minorenni di Salerno;
avverso la ordinanza emessa il 7 febbraio 2003 dal tribunale per i minorenni di Salerno, quale giudice del riesame, nei confronti di B.Ll.;
nella udienza in camera di consiglio in data 8 maggio 2003;
sentita la relazione fatta dal consigliere Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Vittorio Meloni, che ha concluso per l’annullamento con rinvio della ordinanza impugnata;
sentito il difensore avv. Bruno Desi del foro di Bologna, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

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Cass. Sez.V Penale – n. 20072/03

(Presidente F. Marrone – Relatore P.A. Bruno)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 7 novembre 2000, il G.I.P. del Tribunale di Palermo,  pronunciando con le forme del rito abbreviato, dichiarava G. N. , l’avv. S. D. M., Q. D., I. S. e C. C. responsabili dei delitti loro rispettivamente ascritti e li condannava alle pene di seguito indicate.

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Cass. – Sez. V penale – n. 18058/03

(Presidente B. Foscarini – Relatore P.F. Marini)

LA CORTE OSSERVA

Richiesto della emissione di decreto penale di condanna nei confronti di C. S. ed E. F. in ordine al reato di cui all’art. 615 bis cod. pen. , il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Termini Imerese pronunciava viceversa sentenza di proscioglimento di entrambi ex art. 569 cod. proc. pen..

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Trib. Roma Sez. IX Ord. 29 marzo 2003

Proc.20221/2003 RG
Tribunale di Roma  
Sez. IX civile
 Ordinanza del 29/03/2003
 
Il G.D.
 
Premesso che:
 
·         con ricorso ex art. 700 c.p.c. presentato ante causam in data 12/3/2003, la Juventus F.C. s.p.a. la Milan A.C. s.p.a. e la H3G s.p.a., in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t. (… omissis…), hanno chiesto (le prime due società sportive, quali titolari dei diritti di sfruttamento economico sugli eventi agonistici disputati, nel Campionato di Calcio italiano di Serie A, dalle rispettive squadre ed organizzati da dette società, diritti peraltro concessi in licenza esclusiva alla H3G, e quest’ultima società, quale nuovo gestore di telefonia mobile della cosiddetta “terza generazione”, in forza di acquisto della licenza UMTS (Universal Mobile Telecommunication System), i cui servizi sono commercializzati con il marchio “3”) che venisse inibito alla TIM Telecom Italia Mobile spa la prosecuzione delle attività di trasmissione e diffusione sui telefoni cellulari, attraverso la tecnologia GPRS (General Racket Radio Service), UMTS e successive generazioni ed ogni altra tecnologia, di “dati, fotografie ed immagini relative alle gare (c.d casalinghe, secondo le regole sportive)”, disputate dalle squadre delle due società Milan A.C. spa (di seguito Milan) e Juventus F.C. spa (di seguito Juventus), nonché dell’attività promozionale e pubblicitaria, avviata dalla stessa resistente, da fine ottobre 2002, relativamente, in particolare, al nuovo servizio per gli abbonati (potenziali e attuali) TIM, denominato “Serie A Tim Live”, in tecnologia GPRS, il tutto in vista di un giudizio di merito instaurando avente ad oggetto l’azione di accertamento della illiceità della condotta posta in essere dalla resistente, rispetto agli art. 2043 e 2598 c.c., oltre che per responsabilità contrattuale, nei confronti della sola società Milan, con conferma del provvedimento cautelare e condanna della stessa TIM al risarcimento dei danni cagionati con la illecita diffusione delle immagini delle partite;
 
·        in punto di fatto costituito dell’azione inibitoria cautelare promossa, le ricorrenti hanno dedotto che: 1) la TIM ha avviato, a partire da fine ottobre 2002, una articolata campagna pubblicitaria nell’ambito della quale veniva offerto un servizio denominato “Tutto il calcio sul tuo telefonino”, contemplante, tra l’altro, la trasmissione, sui displays dei telefoni cellulari in tecnologia GPRS, di un MMS (Multimedia Messaging Service) “per  ogni goal segnato in campionato”, unitamente ad una cronaca multimediale delle azioni e dei goal di varie squadre italiane, tra cui quelle del Milan e della Juventus, e veniva pubblicizzato, in particolare, un servizio (rientrante in una articolato pacchetto di servizi calcio), a titolo oneroso (al costo di 1 euro a goal), denominato   “Serie A TIM Live” dove, secondo l’assunto delle ricorrenti, “Serie A” indica la disponibilità di tutte le squadre e “Live” sta per diffusione in diretta”, composto da tre elementi multimediali (forniti a Tim dall’Ansa), un testo descrittivo dell’azione che ha portato al goal, un file audio, una serie di immagini digitali aggregate tra loro e con il testo, la cui diffusione ha luogo “circa 20’ minuti dopo il goal”; 2) la diffusione degli MMS è iniziata a novembre 2002 ed ha riguardato anche partite di calcio disputate dal Milan e dalla Juventus; 3) le due società ricorrenti Milan e Juventus non hanno ceduto a TIM il diritto di trasmettere, sulla rete di telefonia mobile, con tecnologia GPRS o UMTS, le immagini degli eventi sportivi disputati dalle rispettive squadre, avendoli invece concessi in esclusiva al nuovo gestore H3G, ed hanno pertanto inoltrato a TIM diverse diffide; 3) dopo un breve periodo di sospensione, la TIM ha tuttavia ripreso a diffondere, a fine dicembre 2002, le immagini dei goal di varie squadre, tra cui il Milan e la Juventus, ed a svolgere attività promozionale senza fare alcuna distinzione tra le squadre di cui TIM ha contrattualmente acquisito il diritto alla trasmissione su tecnologia GPRS (le società Roma, Lazio, Torino e Inter) e le altre squadre che hanno conservato o ceduto a terzi, diversi da TIM, tali diritti, presentandosi sul mercato, secondo l’assunto delle ricorrenti, come “l’unico operatore di telefonia mobile in grado di offrire un pacchetto di “servizi-calcio” onnicomprensivo e rivolto senza distinzioni ai tifosi di tutte le squadre del campionato italiano di massima serie”, nell’intento di fidelizzare i propri clienti e di sminuire, oltretutto, la novità ed appetibilità dei servizi offerti dal nuovo entrante H3G (il quale ha invece acquistato, oltre i diritti UMTS, anche i diritti GPRS da alcune squadre di calcio, tra cui Milan e Juventus);
 
·        in punto di diritto e di fumus boni iuris, le ricorrenti lamentano una responsabilità della resistente TIM, extracontrattuale, verso tutte e tre le ricorrenti, per illecito concorrenziale, in violazione dell’art. 2598 nn.2 (appropriazione di pregi) e 3 (uso di mezzi scorretti, in particolare uso di in veridica pubblicità con messaggi ingannevoli) c.c., ovvero per illecito aquiliano, secondo l’art 2043 c.c., per indebita turbativa delle relazioni contrattuali altrui, e contrattuale, nei soli riguardi della società Milan, per violazione di una clausola, contenuta nel contratto di sponsorizzazione, stipulato tra Milan e TIM il 4-28/12/2000 (con effetti sino al 30/6/2004), e nel successivo “Addendum”, concluso il ?/5/2001, con quale era pattutito che “TIM non ha diritto di sfruttare le immagini della squadra del Milan attraverso mezzi tecnologici di comunicazioni quali…le tecnologie…GPRS, UMTS o successive generazioni”, e contestano che la condotta di TIM possa essere giustificata come esercizio del diritto di cronaca, non fornendo detto soggetto effettivamente informazione ma solo sfruttando lo stesso commercialmente (offrendo un servizio in favore di utenti determinati ed a pagamento) lo spettacolo del calcio, attraverso la riproduzione quasi contemporaneamente e comunque in un arco di tempo molto ravvicinato all’evento e durante lo svolgimento delle partite o poco dopo, del cuore dell’azione sportiva; in punto di periculum, le ricorrenti invocano lo sviamento di clientela, quanto essenzialmente al nuovo gestore H3G, e l’annacquamento dei diritti di sfruttamento economico, quanto alle società sportive Milan e Juventus;
 
·        respinta dal giudice designato la richiesta di emissione di decreto inaudita altera parte, si è costituita, all’udienza del 20/3/2003 la resistente TIM spa, in persona del legale rappresentante p.t. (con gli Avv.ti Prof. Ruffolo, Libonati, Mincato, Banorri, Pappalardo, Berruti e Rendo), contestando in toto la fondatezza del ricorso cautelare e chiedendone il rigetto;
 
·        la resistente ha dedotto, in punto di fatto, che
1) essa ha avviato, negli ultimi anni, vari servizi, ricevibili sul displays dei telefoni cellulari, connessi al mondo del calcio, diversi tra loro, alcuni riconducibili alla tecnologia GSM, consistenti in servizi di Short message (c.s. SMS), brevi messaggi di testo, in servizi Voice, vocali, ed altri riconducibili alla tecnologia GPRS, servizi di messaggistica multimediale (c.s. MMS), di tre tipi, “Diretta Stadio”, consistente nella trasmissione di figure disegnate, “Squadre in campo”, consistente nella trasmissione di immagini in sequenza degli eventi sportivi relativi a quattro squadre di serie A (Roma, Lazio, Inter e Torino), con la quale essa ha stipulato appositi accordi di autorizzazione alle riprese sul campo di operatori autorizzati, e “Serie A TIM Live”;
2) quest’ultimo servizio consiste nella trasmissione, con un MMS, di informazioni dei soli goal segnati, non prima di 25’-30’ dalla loro realizzazione, rappresentate da una fotografia del goal, scattata da fotografi dell’ANSA, cooperativa di editori che svolge attività di raccolta e distribuzione di ogni informazione giornalistica o altro servizio connesso all’informazione (in forza di un contratto stipulato con Ansaweb il 3/2/2003), espressamente autorizzati dalle relative squadre e posizionati a bordo campo o sugli spalti, con un brevissimo scoramento, e più precisamente si compone “di frames, quali la copertina, il risultato parziale della partita, due immagini fisse di diverso contenuto relative al goal realizzato (una relativa all’azione, una successiva al goal), un primo piano del calciatore che ha segnato, di repertorio, e un solo commento in formato testo”;
3) le immagini fornite sono quindi fisse,uno o due fotogrammi, e non in sequenza;
4) la campagna pubblicitaria avviata, con specifico riferimento a tale servizio “Seria A TIM Live”, non presenta caratteri né di ingannevolezza né di illiceità:
 
·        la resistente, in punto di diritto, ha quindi dedotto che :
1) le immagini statiche trasmesse su tecnologia GPRS, in MMS, con il servizio “Serie A TIM Live” non costituiscono rappresentazione dello “spettacolo agonistico” del calcio ma “mera cronaca giornalistica sportiva multimediale ridotta all’osso”, sulla base del diritto costituzionalmente garantito dall’art. 21 Cost.;
2) non sussiste rapporto concorrenziale né tra TIM e le due società sportive ricorrenti (per diversità dei prodotti offerti e perché le stesse hanno ceduto i diritti di sfruttamento economico degli incontri sportivi su tecnologia GPRS e UMTS a terzi) né tra TIM e H3G (essendo quest’ultimo un soggetto ancora non operativo sul mercato e che opererà in futuro sulla nuova tecnologia UMTS, che TIM non è ancora pronta a lanciare, tecnologia che consente la diffusione di veri e propri filmati video, con modalità e caratteristiche del tutto diverse dal servizio “Serie A Tim Live” attualmente offerto da TIM su tecnologia GPRS);
3) non sussiste inadempimento contrattuale di TIM rispetto al contratto di sponsorizzazione in essere con la società Milan;
4) non sussiste il periculum in mora dedotto;
 
·        alla stessa udienza del 20/03/2003, sono intervenute volontariamente le società Ansa-Agenzia Nazionale Stampa Associata soc. coop. a. r.l. e Ansaweb, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t. (con gli Avv.ti Prof. Claudio Consolo, Cicconi e Valli), aderendo alla difesa svolta da TIM e concludendo per il rigetto del ricorso cautelare e/o perché risulti comunque “assicurato per qualità e quantità l’esercizio del diritto di cronaca giornalistica, esplicatesi anche per immagini fotografiche, in ordine all’andamento delle partite di calcio”;
 
·        le intervenienti hanno, in particolare, dedotto che:
1) esse hanno concluso un accordo non esclusivo con TIM, alla fine di settembre 2002, iniziando a realizzare, nell’ambito della loro attività editoriale e di cronaca, i servizi MMS diffuse sui telefoni cellulari, aventi ad oggetto partite del campionato italiano di calcio di serie A, inizialmente distribuiti in via sperimentale e poi commercializzati al costo di un euro per ogni MMS, sotto la denominazione “Serie A Tim Live”;
2) in pratica, un fotografo dell’Ansa, con accesso allo stadio di calcio, perché accreditato dalla Società ospitante l’incontro agonistico, scatta le fotografie, collegate ad un PC connesso via rete, fissa o mobile alla rete di Ansa, quale server, che le trasmette ad Ansaweb, la quale le organizza in “pacchetti” MMS (formati da testo + immagini + audio) e li invia, attraverso il server Ansa, via Internet, all’operatore di telefonia mobile, il quale li trasmette in automatico agli utenti che hanno richiesto il servizio;
3) Juventus e Milan difettano di legittimazione ad agire, avendo ceduto in via esclusiva a H3G il diritto di sfruttare le immagini delle partite di calcio giocate in casa;
4) il servizio offerto da Ansa e Ansaweb tramite TIM è cronaca giornalistica in formato digitale, in quanto, a differenza degli MMS realizzabili, in modo efficiente, con la tecnologia UMTS, veri e propri videoclip o filmati, con immagini, in sequenza tra loro, che riproducono lo spettacolo della partita, previo acquisto, da parte dell’operatore di telefonia mobile dei diritti dalle società sportive organizzatrici dell’evento, in relazione agli MMS realizzati, su tecnologia GPRS, in formato slideshow (che consiste in una sequenza di fotogrammi scattati in tempi ravvicinati tra loro) e near live ( quasi in diretta o in differita di qualche minuto), laddove sia limitato (come avviene, quanto al servizio Serie A Tim Live, dal 7/12/2002) il numero di fotografie, immagini statiche, trasmesse a   non più di una o due e non in sequenza tra loro, non può parlarsi di riproduzione dello spettacolo calcistico ma di mera informazione sull’andamento della partita;
 
·        nei termini concessi, sono state depositate dalle parti ulteriori memorie scritte, unitamente ad ulteriore documentazione, ed, all’udienza del 25/3/2003, si è proceduto ad ampia discussione orale, con visualizzazione, oltre di un telefono cellulare con marchio “3”, allestante, secondo l’assunto delle ricorrenti, l’entrata in servizio dei cellulari in tecnologia UMTS, anche di alcuni MMS relativi ai servizi offerti dalla Tim, “Serie A Time Live” e “Squadre in campo”, e sono stati depositati ulteriori documenti;
 
·        nelle memorie autorizzate depositate dalle ricorrenti e dalle due intervenienti, rispettivamente il 22/3/2003 ed il 24/03/2003, in particolare, le ricorrenti hanno contestato l’ammissibilità dell’intervento delle due società Ansa e Ansaweb, per carenza di un interesse giuridico correlato ad un possibile loro pregiudizio in rapporto causale dell’emanando provvedimento cautelare, mentre dette intervenienti hanno eccepito l’inammissibilità delle domande cautelari ex adverso avanzate per difetto di competenza funzionale del Tribunale adito, dovendo ritenersi, ai sensi dell’art 33 L.287/1990 c.d. Legge “antitrust”, competente la Corte d’Appello, essendo contestati comportamenti di TIM qualificabili come “abusi di posizione dominante, anche con riguardo alla disciplina dettata dal D.lgs 74/1992 in materia di pubblicità ingannevole, e pertanto riconducibili nell’ambito dell’art.3 della L.287/1990;
 
tanto premesso, ritenuto preliminarmente che:
 
·        può ritenersi ammissibile, nell’ambito del presente procedimento cautelare, l’intervento volontario, ex art.105 c.p.c., della società Ansa e Ansaweb, trattandosi di società che, in forza del contratto in essere con la TIM, distribuiscono il loro prodotto tramite la TIM, apponendo il logo ANSAWEB sull’ultima schermata del messaggio MMS trasmesso, e che quindi sono portatrici di un interesse giuridico, e non di mero fatto, a non essere pregiudicati dal provvedimento cautelare richiesto in danno di TIM (vale  a dire, l’inibitoria all’ulteriore diffusione e trasmissione sui telefoni cellulari delle immagini delle partite di calcio casalinghe disputate da Milan e Juventus, i cui diritti di sfruttamento economico sono nella titolarità delle rispettive società sportive e sono stati ceduti in esclusiva ad H3G);
 
·        non meritano poi di essere condivise le eccezioni, in rito, sollevate dalle parti intervenienti, e precisamente:
1)l’eccezione di incompetenza funzionale del Tribunale ordinario adito, per essere competente la Corte d’Appello ex art.33 L.287/1990, atteso che le istanze cautelari sono state proposte dalle ricorrenti espressamente invocando la tutela contemplata, avverso gli illeciti concorrenziali, dall’art.2598 nn. 2 e 3 c.c., sotto i due profili della appropriazione di pregi e dell’uso di mezzi scorretti, e non anche la tutela offerta dalla L.287/1990 ed in particolare dall’art. 3 contemplante il divieto di posizioni dominanti, dirette ad attuare le condotte descritte dai punti a), b), c) della norma, all’interno del mercato nazionale o di una sua parte rilevante, per cui non si pone neppure una questione di possibile coincidenza degli elementi costitutivi dell’illecito antitrust e dell’illecito concorrenziale e di opzione tra la scelta della cumulabilità dei due rimedi (A.Milano 25/9/1995, G.A.D.I., 1996, 3434) e quella della prevalenza del rimedio speciale di cui alla L.287/1990, per il carattere sussidiario dell’azione ex art.2598 c.c. (T. Roma 31/3/2000, AIDA, 2000,959);
2) l’eccezione di incompetenza del Tribunale adito, con riguardo al D.lgs. 74/1992, disciplinante la pubblicità ingannevole (normativa peraltro essenzialmente alla tutela del consumatore), atteso che la competenza, ivi prevista, riservata, per la tutela amministrativa, all’Autorità Garante che applica la legge antitrust, lascia sempre salva “la giurisdizione del giudice ordinario in materia di atti di concorrenza sleale, a norma dell’art.2598 c.c., ai sensi dell’art.7 comma 13 D.lgs. 74/1992, con conseguente applicabilità da parte del giudice ordinario della medesima legge ai soli fini di accertare l’ingannevolezza del messaggio pubblicitario e di verificare la sussistenza di una condotta di concorrenza sleale per pubblicità sleale (T. Roma 25/2/1998, G.I., 1990, 335);
 
·        non merita neppure accoglimento l’eccezione, sollevata dalla resistente e dalle intervenienti, di carenza di legittimazione attiva delle ricorrenti società sportive Milan e Juventus, per avere le stesse ceduto a H3G il diritto di sfruttare le immagini delle partite casalinghe disputate dalle corrispondenti squadre di calcio, atteso che:
1) le società sportive sono da tempo qualificate come imprese in quanto esse svolgono, sopportando i relativi costi ed effettuando investimenti (rispetto ai giocatori di calcio, alla gestione dello stadio, il luogo chiuso ove viene svolta la partita, ed al personale), ed assumendo il conseguente rischio d’impresa, attività economiche, di organizzazione e promozione di manifestazioni agonistiche (le partite), che si traducono, nei confronti del pubblico cui sono destinate, nella produzione e nell’offerta di spettacoli o eventi sportivi, suscettibili di sfruttamento economico (C.C. 2118/1963; C.C. S.U. 174/1971; C.C. 374/1998);
2) i ricavi delle società sportive discendono essenzialmente da detto sfruttamento economico degli spettacoli sportivi, consistente nella vendita dei biglietti di ammissione allo stadio, nella vendita dei diritti radiofonici e televisivi, nelle sponsorizzazioni tecniche e commerciali e nel merchandising;
3) la titolarità dei diritti economici connessi alle manifestazioni sportive spetta quindi alla società che giuridicamente ha la disponibilità del luogo chiuso ove viene svolta la partita e che organizza l’evento e, nell’ambito del settore del calcio, più precisamente, alla squadra ospitante;
4) il prodotto di impresa (nella specie, si ripete lo spettacolo agonistico), in tutte le sue possibili forme di utilizzazione economica, può essere gestito direttamente dalla società sportiva ovvero, come accade peraltro in tutte le ipotesi di titolarità di un diritto di privativa su bene immateriale (si pensi, ad es., ai diritti connessi in materia di opere dell’ingegno), il relativo esercizio (delle attività di utilizzazione economica) può essere trasferito meglio concesso, in tutto o in parte, in capo a terzi, in via esclusiva o meno, in genere per un arco temporale ben definito, attraverso gli strumenti delle concessioni o licenze (Cons. Stato 17/2/199? n.172, F.Am., 1999, 395);
5) con la licenza o concessione di una o più facoltà di utilizzazione economica non passa anche la titolarità del diritto di privativa, in quanto il titolare può in ogni tempo condizionare l’esercizio da parte del terzo fino al punto di porre termine a questo, quando non ricorrano le condizioni;
6) nella fattispecie, le stesse ricorrenti società Milan e Juvnetus hanno permesso in ricorso di avere concesso in licenza esclusiva a H3G (società assegnataria di una delle cinque licenze UMTS italiane), nel gennaio 2001, per un periodo di sette anni, il diritto di effettuare riprese visive e sonore delle partite e di trasmissione sui telefoni cellulari, di seconda e terza generazione, a mezzo quindi delle tecnologie GPRS e UMTS, delle immagini delle partite di calcio casalinghe del Campionato di Serie A, per quello che qui interessa (vedasi, in assenza degli specifici contratti di licenza, non prodotti, i doc.ti sub 55 e 65 atti-ricorrenti, quest’ultimo consistente nel Prospetto informativo della società Juventus relativo all’Offerta Pubblica di vendita e sottoscrizione ed all’ammissione alla quotazione sul Mercato Telematico Azionario organizzato e gestito dalla Borsa Italiana spa, conforme a quello depositato presso la CONSOB il 5/12/2001);
7) ne deriva  che la titolarità del diritto sul prodotto-spettacolo, bene immateriale, continua a permanere in capo alle società sportive ricorrenti Milan e Juventus, mentre è stato trasferito, in capo ad H3G, il solo diritto secondario, di natura patrimoniale, di uso temporaneo delle immagini dello spettacolo stesso sugli apparecchi di telefonia mobile;
8) le due società sportive ricorrenti sono pertanto legittimate ad agire in giudizio a tutela del relativo diritto sullo spettacolo calcistico, contro l’asserito uso abusivo attuato da TIM (anche perché la condotta di TIM, di sfruttamento in live o near live delle immagini, sia pure statiche, dei momenti salienti (i goal) delle partite casalinghe di Mila e Juventus, al di fuori di una specifica acquisizione contrattuale dei relativi diritti, sul presupposto dell’invocata sussistenza di un diritto di cronaca, potrebbe determinare meccanismi a catena di “imitazione”, anche in settori di sfruttamento diversi, come in quello della ripresa televisiva da parte delle emittenti televisive, vedasi lettera 8/3/2003, trasmessa dalla emittente locale Teletutto ad altra società sportiva, prodotta dai ricorrenti, all’udienza del 25/3/2003);
 
                   venendo all’esame delle specifiche richieste cautelari avanzate dalle tre ricorrenti, ritenuto che, in ordine al fumus boni iuris dell’altrui illecito concorrenziale lamento, consistente nell’uso, da parte della resistente TIM, di mezzi contrari alla correttezza professionale, ex art.2598nn. 2e 3 c.c., sotto il profilo della pubblicità ingannevole o meglio sleale, non appare sufficientemente dimostrato, nei limiti della suddeta cognizione sommaria, l’illecito in questione, in quanto:
 
1) pur nella distinzione necessaria tra pubblicità ingannevole, disciplinata dal D.lgs. 74/1992, illecito lesivo dell’interesse dei consumatori, e pubblicità sleale ex art.2598 nn.2 (appropriazione di pregi inesistenti o presentazione del proprio prodotto in modo recettivo) e 3 (uso di mezzi non conformi alla correttezza professionale) c.c. (C.C. 2020/1982, GADI, 1982, 1585), illecito lesivo dell’interesse del concorrente, il carattere ingannevole di un messaggio pubblicitario, sia nel suo profilo informativo sia in quello persuasivo, che si invochi integrare gli estremi di una condotta di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 nn.2 e 3 c.c, deve essere individuato alla stregua dei parametri e dei criteri fissati dal D.lgs. 74/1992, con l’ulteriore conseguenza che la mancanza dell’ingannevolezza preclude ogni ulteriore indagine sulla lesione reale o potenziale del concorrente (T:Roma 2/2/1999, G.C. 2000, 1189);
 
2) secondo l’art.2 lett. B) del D.lgs. 74/1992, è ingannevole “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che per questo motivo leda o possa ledere un concorrnte”;
 
3) è quindi sufficiente l’idoneità del messaggio in primis ad ingannare il consumatore ed, in via riflessa, a ledere il concorrente, sotto il profilo dello sviamento di clientela e dell’immagine aziendale, e l’ingannevolezza può riguardare il contenuto della pubblicità o la sua modalità di presentazione;
 
4) nell’espletamento dell’attività di controllo e repressione della pubblicità ingannevole, l’Autorità Garante ha indubbiamente assunto una posizione di centralità in detta materia ed, in particolare, con riguardo alle offerte commerciali tra imprese di telecomunicazioni, ha richiesto ripetutamente che, nella prospettazione del prezzo dei servizi della telefonia mobile, tutte le informazioni rilevanti siano di immediata percezione, complete negli estremi e comunque di agevole comprensione (provvedimento n. 7359 del 1/7/1999; provvedimento n. 10239 del 13/12/2001; provvedimento n. 8455 del 28/6/2000, sub doc.to 60 atti-ricorrenti);
 
5) nella fattispecie, i documenti prodotti dalle ricorrenti a sostegno del proprio assunto consistono in a) una brochure o volantino (doc.to 1) diffuso da TIM dal titolo “Tutto il calcio sul tuo telefonino”, ove sotto la voce “Serie A TIM Live” è scritto riceverai le immagini di ogni goal della tua squadra: foto, audio e testi per emozioni da rivivere ogni giorno; le squadre disponibili sono: Roma, Lazio, Inter, orino, Milan, Juventus”, mentre sotto la voce “Squadre in campo”, si legge “per che preferisce un riassunto complessivo della partita TIM offre la sintesi per immagini degli episodi cruciali, con un vivace commento giornalistico. Un MMS per ogni tempo di gioco. Le squadre disponibili sono: Roma, Lazio, Inter, Torino; b)nella pubblicità comparsa sui siti Internet della TIM (doc.ti 2 e 3 in allegato al ricorso) e dell’ANSA (doc.to 4), dove viene pubblicizzato il servizio “Serie A TIM Live”, con indicazione della possibilità di ricevere “in tempo reali” sul telefonino i goal di alcune squadre di calcio, tra cui il Milan e la Jucentus; c) nella promozione, sempre da parte di TIM, di un pacchetto di vari servizi-calcio (doc.to 9); d) nella sponsorizzazione della trasmissione “Mai dire Domenica” del 2/3/2003 (doc.to 20), con lo spot “MMS Calcio TIM i goal e le azioni della tua squadra in diretta sul tuo telefonino”; e) nello spot televisivo TIM trascritto sub doc.to21 (colloquio tra una intervistatrice ed un V.I.P., ove compare il messaggio promozionale “MMS Calcio in tempo reale direttamente sul tuo telefonino le immagini dei goal fatti e subiti dalla tua squadra del cuore. Una sequenza di foto e testi da rivivere ogni giorno); f) nello spot televisivo avente come protagonista il calciatore interista Batistuta; g) le ricorrenti lamentano che in dette campagne pubblicitarie la TIM si presenta sul mercato come “l’unico operatore di telefonia mobile in grado di offrire un pacchetto di “servizi-calcio” onnicomprensivo e rivolto senza distinzioni ai tifosi di tutte le squadre del campionato italiano di massima serie”, nell’intento di fidelizzare i propri clienti e di sminuire, oltretutto, la novità e l’appetibilità dei servizi offerti dal nuovo entrante H3G;
 
          ritenuto che, in tutti i messaggi pubblicitari di TIM sopra elencati, vi è per lo più una panoramica complessiva dei diversi servizi offerti da TIM (la quale è anche sponsor ufficiale, giusta contratto di sponsorizzazione stipulato sin dal 1998 con la Lega Calcio, del Campionato di Calcio di Serie A, in forza del quale la suddetta manifestazione calcistica viene denominata a fini pubblicitari, come si può notare sul sito Internet dalla TIM e sul sito Internet della Lega Calcio, “Serie A Tim”, da non confondere, quindi, con il servizio di telefonia mobile “Serie A Tim Live”, oggetto del presente giudizio cautelare), in relazione al mondo del calcio sui telefoni cellulari (“Voice”, messaggi vocali, “SMS”, messaggi di solo testo, “Diretta Stadio”, immagini grafiche, e “MMS”, messaggi multimediali, immagini+testi+audio, offerti sui soli cellulari GPRS, con immagini fotografiche statiche (Serie A TIM Live o in sequenza (“Squadre in campo”)) e detti messaggi, necessariamente sintetici, salvo specificazione della possibilità di acquisire ulteriori informazioni presso i punti vendita TIM sugli specifici contenuti (e non sul costo dei servizi, espresso chiaramente), non appaiono in sé recettivi e ingannevoli per il consumatore, così da indurlo in errore sul contenuto dei vari servizio sul loro costo e sottrarlo, quale potenziale cliente alla diretta concorrente H3G, in particolare;
 
           ritenuto che inoltre, in nessuno di detti messaggi promozionali la TIM, la quale da alcuni anni offre servizi telefonici sul mondo del calcio, si propone come “unico operatore di telefonia mobile in grado di offrire un pacchetto di servizi calcio onnicomprensivo” (vedasi peraltro la analoga pubblicità “Videogoal” della H3G, doc.to 32 dei ricorrenti) e pertanto le pubblicità relative al servizio “Serie A TIM Live”, non sono in sé ingannevoli o sleali, in quanto effettivamente, ad oggi, con detto sevizio viene offerto all’utente, al costo di un euro, IVA inclusa, un MMS contenente l’immagine dei goal delle squadre (un MMS per ogni goal), tra cui Milan e Juventus, sul presupposto, quanto a dette due squadre calcistiche, del legittimo esercizio del diritto di cronaca;
 
          ritenuto, anzitutto, che non appaiono fondate le eccezioni sollevate dalla resistente e dalle intervenienti, inerenti il difetto di rapporto di concorrenza, necessario ai fini dell’applicabilità dell’art.2598 c.c., tra la TIM e le due società sportive Milan e Juventus, da un lato, e tra la TIM e la società H3G, dall’altro lato:
1) invero, da tempo, la stessa giurisprudenza della Suprema Corte ha adottato una nozione allargata del requisito del “rapporto di concorrenza”, riconoscendone l’esistenza anche tra imprenditori che operino in diversi stadi della catena produttivo-distributiva, ove la loro attività incida comunque sulla medesima cerchia di clienti finali e quindi l’atto compiuto da uno dei concorrenti sia idoneo ad operare uno sviamento di clientela in danno dell’altro (C.C. 4458/1997, D.I., 1997, 668), intendendo per clientela finale “l’insieme delle domande che il mercato esprime ovvero è potenzialmente in grado di esprimere rispetto ad un determinato bisogno o a bisogni analoghi” (C.C. 1617/2000);
2) si ha rapporto di concorrenza non solo in presenza di una interferenza attuale tra l’oggetto delle rispettive attività delle due imprese ma anche di fronte a sviluppi potenziali e prevedibili, in termini di rilevante probabilità, che costituiscano le naturali conseguenze dello svolgimento di una determinata attività commerciale, considerata nella sua naturale dinamicità, ovvero nell’ipotesi di attività preparatoria all’esercizio dell’impresa, quando si pongano in essere fatti diretti a dare inizio all’attività produttiva (C.C. 1617/2000; C.C. 697/1999; C.C. 10728/1994);
3) Nella fattispecie e, con riguardo alle società sportive ricorrenti, sussiste rapporto di concorrenza con TIM, in quanto destinatari finali del servizio telefonico offerto a TIM, quello “Serie A Tim Live”, in particolare intendono soddisfare lo stesso bisogno di fruizione (sia pure anche a livello di ricezione dell’informazione corrispondente, corredata però dall’immagine visiva) dello spettacolo agonistico, offerto dalle società organizzatrici dell’incontro di calcio ai propri consumatori finali, sia quelli che hanno pagato il biglietto per accedere allo stadio sia quelli che assistono all’incontro attraverso i vari strumenti tecnologici di riproduzione visiva, in diretta dell’evento, i cui diritti vengono ceduti, dietro corrispettivo, dalle prime;
4) con riguardo poi alla ricorrente H3G è stato documentato che la stessa società:
   a) ha pacificamente acquisito una delle licenze per la trasmissione su telefonia della terza generazione, in tecnologia UMTS;
   b) è, come tale, legittimata anche ad utilizzare la rete GPRS, evoluzione e sviluppo della rete GSM, per lanciare i propri prodotti (sfruttando quindi l’elemento visivo. Principalmente), avendo diritto (delibera 2/01/CONS del 10/1/2001 dell’Autorità Garante delle Comunicazioni) ad ottenere “il roaming nazionale sulle reti di servizio radiomobile di seconda generazione secondo quanto previsto dall’art 5 della delibera n. 388/00/CONS” (in base al quale gli operatori esistenti aggiudicatari concedono ai nuovi entranti il roaming nazionale, vale a dire l’ospitalità sulla propria rete mobile che copre una determinata area con il proprio segnale, a condizione eque e trasparenti) ed avendone fatto richiesta a TIM in data 11/2/2003;
   c) ha iniziato a raccogliere sottoscrizioni di abbonamenti per i propri servizi ed ha cominciato già a fornire ai propri clienti, tra la fine del 2002 ed i primi mesi del 2003, su terminali mobili in vendita, alcuni servizi, per quanto dedotto anche in sede di udienza del 25/3/2003;
   d) in ogni caso, per quanto detto sopra, non è necessario, per ritenere sussistente un rapporto di concorrenza, che uno dei due imprenditori abbia effettivamente iniziato la propria attività ed essendo sufficiente. Al più, che abbia già posto in essere atti preparatori all’esercizio dell’attività imprenditoriale;
   e) la clientela cui si rivolgono TIM e H3G è la medesima, in quanto, anche a volere considerare assolutamente diversi i prodotti offerti su tecnologia GPRS (immagini statiche o al più in slideshow, veri e propri videoclips) e si tecnologia UMTS (veri e propri filmati di qualità e visibilità superiore), H3G, per quanto detto sopra, oltre ad essere legittimata ad operare su tecnologia UMTS, ha anche diritto di operare su tecnologia GPRS ed ha provveduto già a richiedere ad uno degli operatori già esistenti ed operanti sul territorio, la TIM, il roaming nazionale;
 
          ritenuto poi, con riguardo specifico all’esercizio del diritto di cronaca, opposto dalla resistente e dalle intervenienti, al fine di legittimare, limitatamente al servizio “Serie A TIM Live”, l’uso, in assenza di cessione, da parte delle società sportive Milan e Juventus titolari, dei relativi diritti di diffusione, su tecnologia GPRS e UMTS, delle immagini, in numero, attualmente, limitato (due fotogrammi), delle azioni salienti delle partite di calcio c.d. “casalinghe”, disputate, nel Campionato di Serie A, dalle squadre del Milan e della Juventus, che:
 
1)  da quando si è avviata la diffusione delle gare sportive, dapprima attraverso mezzi radiofonici e poi televisivi (ed oggi la telefonia mobile o la Rete Internet), è sorto un dibattito sul conflitto tra gli organizzatori, legittimati al loro sfruttamento economico, in via esclusiva, primaria e secondaria e quindi anche nelle varie forme di produzione e trasmissione, ed i terzi, che intendono sfruttare, a scopo commerciale, la manifestazione sportiva attraverso riprese televisive o radiofoniche ovvero che intendono riprendere e diffondere l’evento a scopo meramente informativo, nell’esercizio del diritto di cronaca;
2) gli organizzatori degli incontri, quali imprese, e quindi, con riguardo al Campionato nazionale, le società titolari delle squadre ospitanti che gareggiano in luoghi chiusi, gli stadi (accessibili ad un pubblico pagante), hanno indubbiamente, in base al generale principio consacrato dall’art.41 Cost., un potere dispositivo sullo spettacolo sportivo, che rappresenta, oltre che un fatto agonistico, il prodotto principale della loro attività economica (C.C. 2188/1963; T. Roma 21/7/1978, F.I., 1978, 2318; A.Roma 10/11/1980, F.I. 1981, 520; P.Roma 3/7/1981, D. Aut. 1982, 280; T. Catania 20/10/1988, Riv. Dir. Comm. 1990, II, 251; P. Roma 10/12/1992, AIDA, 1994, II, 222/1) ;
3) Secondo una certa interpretazione il diritto dell’organizzatore dello spettacolo sportivo calcistico sarebbe assimilabile al diritto dell’autore di un’opera dell’ingegno e quindi si configura come diritto assoluto, con estensione della relativa tutela anche nelle forme secondarie di utilizzazione, per cui deve ritenersi comunque illecita l’appropriazione dell’opera altrui, a prescindere dalla quantità e dalle modalità di diffusione, essendo lecita solo « la notizia della programmazione delle partite e del risultato finale » (P.Roma 18/9/1987, Riv. Dir. Sport. 1989, 72; su posizioni analoghe anche P.Roma 10/12/1992, AIDA, 1994, II, 222/1 ed in Riv.Dir.Sport. 1993, 512);
4) l’accostamento della gara sportiva all’opera dell’ingegno viene però contestato da chi osserva che, al di là della sua mancata inserzione negli artt. 1 e 2 L.633/1941, elencazione questa non tassativa, lo schema di gioco consiste in regole articolate in forma essenziale e non in un progetto ideativi in sé compiuto (C.C. 1264/1988), nel cui ambito l’attività dei giocatori si sviluppa, sul campo, in maniera non del tutto prevedibile, in gran parte affidata al caso, per cui ciò che manca, rispetto all’opera teatrale, “è la finzione, che implica preordinazione”;
5) peraltro le gare sportive di calcio, a determinati livelli. Costituiscono anche avvenimenti di vasta risonanza nel pubblico e non possono sottrarsi alle esigenze della cronaca giornalistica, tutelato direttamente dall’art. 21 Cost., e si è cercato quindi di trovare un contemperamento, in difetto di convenzione tra le parti o di disciplina legislativa, tra i due diritti, che trovano entrambi riconoscimento in sede di Carta Costituzionale, con gli artt. 41 e 21, principalmente con riferimento alla cronaca visiva (in quanto la radiocronaca sportiva ha indubbiamente una minore capacità di riproduzione dello spettacolo agonistico, implicando una forte capacità di immaginazione nell’ascoltatore);
6) così, a livello giurisprudenziale, contrariamente all’orientamento sopra  richiamato sub 3 (che configura in capo alla società sportiva un diritto assoluto erga omnes, impermeabile rispetto a qualsiasi tipo di limitazione o di interferenza) è stata ritenuta lecita: a) una “cronaca cinegiornalistica e televisiva…contenuta in un sintetico resoconto della manifestazione, sufficiente a darne notizia al teleutente dellavvenimento sportivo”, purchè sempre “in differita” e mai in contemporanea allo svolgimento dell’incontro, non potendo essa consistere “nella diffusione dell’intero spettacolo o di una larga parte di esso…o di una serie di sequenze eccedente una rapida sintesi”, con necessità quindi di precisi limiti sia relativi alla durata delle riprese visive sia relativi al momento della loro trasmissione (T.Roma 21/7/1978; F.I., 1978, 2318; P.Roma 26/11/1977, Temi Romana, 1977, 630);
   b) una cronaca televisiva dell’evento corredata da solo “immagini statiche”  e non attuata mediante “la telediffusione dello spettacolo nella dinamica del suo svolgimento”, così da “informare il pubblico…circa la manifestazione da altri organizzata, senza però offrirgli nel contempo, in proprio, a proprio intuitivo profilo, lo spettacolo frutto dell’attività altrui”, offrendo “la notizia dello spettacolo e non lo spettacolo come notizia” (A.Roma 10/11/1980, F.I. 1981, 520, da notare che in detta pronuncia non venisse affrontato il problema della differita o diretta della ripresa televisiva, trattandosi di un appello promosso, rispetto alla sentenza del Tribunale di Roma del 21/7/1978, sopra richiamata, dall’emittente televisiva che si doleva soltanto di no potere trasmettere, pur in differita, l’intero avvenimento sportivo e di doverne trasmettere, sulla base delle sentenza di primo grado solo una breve sintesi);
 
          rilevato che la Lega Calcio (salva naturalmente la cessione di singoli diritti da parte delle varie società sportive ospitanti le gare) ha regolamentato (da ultimo per la stagione sportiva 2002-2003, doc.ti 49-50 atti ricorrenti):
1) l’esercizio della cronaca radiofonica, fissando una “finestra informativa di tre minuti ogni quindici minuti di gioco, fino ad un massimo di tre finestre per ognuno dei due tempi di gara”, finestre non frazionabili e non cumulabili;
2) l’esercizio della cronaca televisiva per ogni giorno di calendario solare nel quale si svolgono incontri del campionato di calcio di Serie A TIM e di Serie B TIM (sponsor ufficiale), fissando limiti all’utilizzazione delle riprese audiovisive autorizzate “esclusivamente in differita nell’ambito dei telegiornali e delle trasmissioni che abbiano contenuto informativo dopo le 20.30 se riferite alle partite pomeridiane con orario di inizio entro le 15.00, dopo le 22.30 se riferite alle partite pomeridiane con orario di inizio entro le ore 18.00; dopo le 24.00 se riferite a quelle serali”, con durata massima di utilizzo delle immagini di tre minuti per singola partita, nonché divieto per le emittenti televisive di fare uso delle riprese visive e sonore per la commercializzazione in generale nel settore multimediale;
3) l’accesso gratuito allo stadio per i fotografi accreditati dalla Società ospitante, in occasione delle gare ufficiali, ed anche l’accesso al recinto di gioco;
 
          rilevato che non risulta invece regolamentato, neppure a livello di Lega Calcio, il settore dello sfruttamento delle immagini sui dispositivi di telefonia mobile, ma è stata prodotta dai ricorrenti, all’udienza del 25/3/2003, una bozza dei “New Media Rights”, elaborata dalla UEFA, ancora in via di definitiva approvazione da parte degli organi competenti, dove sotto la voce “Wireless segment principles”, viene prevista una disciplina dello sfruttamento, in capo alla UEFA ed ai singoli Club, quanto alle partite UCL, delle immagini “fisse o in movimento su dispositivi mobili”, in diretta o in quasi diretta (“still images and moving images on mobile divices” “live” o “near live”);
 
          rilevato che il legislatore nazionale è poi intervenuto, in materia radiotelevisiva e con riguardo alle emittenti televisive in ambito locale, con il D.L. 323/1993 e quindi con la Legge di conversione 422/1993, dove all’art.5 è stato previsto che “è consentita, ai fini e nei limiti dell’esercizio del diritto di cronaca, l’acquisizione e la diffusione di immagini materiali o sonore e di informazione su tutte le manifestazioni di interesse generale che interessano il bacino di utenza oggetto della concessione”, mentre il legislatore comunitario con la Direttiva 97/36/CE del Consiglio del 30/6/1997 ha stabilito, all’art.3 bis, che ogni Stato membro può adottare misure volte ad assicurare la trasmissione non in esclusiva”, da parte delle emittenti televisive, di eventi di “particolare rilevanza per la società” e l’Autorità Garante delle Comunicazioni, con delibera n.??2/1999, ha fissato una lista di eventi considerati “di particolare importanza per la società”, non inserendovi peraltro le partite del campionato nazionale di Serie A (da notare che invece A.Roma 15/1/2001, nella vicenda Strema-Telepiù, ha ritenuto, in ambito però di applicazione dell’antitrust, mercato rilevante proprio quello dell’acquisizione dei diritti televisivi delle partite di calcio riguardanti il Campionato nazionale soprattutto di Serie A”);
 
         ritenuto che:
1) va condivisa quell’opinione dottrinale secondo la quale il diritto d’informazione non ricomprende necessariamente il libero accesso alle fonti di informazione, in quanto la libertà di informazione come forma di espressione della libertà di manifestazione del pensiero viene tutelata dalla Costituzione non come diritto ad ottenere informazioni anche invito domino ma come diritto ad essere informati limitatamente alle sole fonti accessibili;
2) il diritto di cronaca non comporta pertanto la possibilità di esercitare un autonomo potere giuridico sulla fonte materiale del fatto oggetto di interesse, laddove tale oggetto appartenga alla sfera giuridica o privata di un altro soggetto, in quanto la ratio del diritto costituzionalmente garantito sta nel diritto all’informazione dell’utente e non in uno sfruttamento commerciale di tipo concorrenziale;
3) quindi va riconosciuto all’ente organizzatore della partita di calcio il diritto di stabilire le modalità di accesso strumentale alla diffusione della manifestazione sportiva;
4) con riguardo alla trasmissione di immagini della manifestazione sportiva, non espressamente convenuta con accordi negoziali o accordi collettivi tra associazioni di categoria, importanza fondamentale assume la ratio dell’utilizzazione (ad es. l’inserzione all’interno di un notiziario, alieno da fini di promozione commerciale, o di un programma comico, del tutto distante dall’ambito sportivo) e la tempistica sia della durata degli spezzoni utilizzati sia della collocazione temporale degli stessi rispetto all’evento;
5) il diritto di informazione non può essere utilizzato per giustificare l’utilizzazione dello spettacolo sportivo da parte di soggetti estranei all’organizzazione sportiva e spinto sino al punto di assicurare la libera diffusione in diretta di estratti significativi della manifestazione e della competizione sportiva, in quanto esso è finalizzato ad informare il pubblico dell’avvenimento, delle modalità del suo svolgimento, del suo esito ma non può consentire la riproduzione della manifestazione sportiva attraverso riprese filmate ed immagini diffuse durante lo svolgimento della gara;
6) non è sufficiente distinguere tra cronaca consentita, se realizzata con immagini statiche ( a prescindere dalla loro qualità o visibilità), e spettacolo, realizzato con immagini dinamiche, in quanto anche immagini statiche possono essere spettacolari, soprattutto laddove raffigurino l’azione cruciale del goal e vengano ricevute e visionate quando ancora è vivo il pathos creato dall’evento sportivo;
7) può essere utile il richiamo all’art.70 della L.633/1941, norma che consente “il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera, per scopi di critica, di discussione ed anche di insegnamento” ma “nei limiti giustificati da tali finalità e purchè non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera”;
8) nell’ambito della normativa sulla concorrenza sleale per appropriazione di pregi, consistenti nella realizzazione stessa dello spettacolo agonistico, deve essere quindi considerata illegittima la appropriazione integrale del servizio spettacolo o di brani dell’evento sportivo che pur brevi non vengano diffusi successivamente alla manifestazione ma contestualmente al suo svolgimento, con modalità tali da interferire con la normale attività di sfruttamento delle immagini da parte del titolare; 8) la concorrenza sleale per appropriazione di pregi dei prodotti e dell’impresa altrui, di cui al n.2 dell’art.2598 c.c., ricorre infatti quando un imprenditore “in forme pubblicitarie od equivalenti attribuisce ai propri prodotti od alla propria impresa pregi, quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, qualità indicazioni, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all’impresa di un concorrente, in modo da perturbare la scelta dei consumatori” (C.C. 9387/1994; C.C. 6928/1983), peraltro pur mantenendo ferma la distinzione d’identità tra i diversi prodotti (a differenza di quanto si verifica nella condotto, con fusoria, dell’imprenditore che, utilizzando segni distintivi altrui, viene a confondere la propria attività con quella del concorrente, come descritto dall’art.2598 n.1 c.c, C.C. 1310/1986);
 
          ritenuto che pertanto, nella fattispecie, la riduzione operata da TIM, a partire dal 7/12/2002, nell’ambito del servizio di telefonia mobile denominato “Serie A TIM Live”, del numero di fotogrammi (due), ritraesti immagini salienti (l’azione del goal ed una azione di gioco successiva) della partita di calcio, disputata in casa, nel Campionato nazionale di serie A, dalle squadre del Milan e della Juventus, da cui essa TIM non ha acquisito i diritti di sfruttamento economico, non è sufficiente ad escludere l’illiceità della condotta, ai sensi dell’art.2598 nn.2 c.c. (con riguardo alle società sportive, organizzatrici degli incontri agonistici e titolari del diritto di sfruttamento economico con le più varie tecnologie, ed alla società H3G, licenziataria in esclusiva del relativo diritto di trasmissione su tecnologia GPRS  e UMTS), attesa la spettacolarità intrinseca alle immagini in questione, raffiguranti aspetti salienti della partita (anzi l’azione cruciale del goal) e la tempistica stessa della trasmissione delle immagini, effettuate a 20’-30’ dal goal ma comunque, salvo casi particolari (documentati dalle intervenienti), durante lo svolgimento dell’incontro e prima della sua chiusura, il che determina una illegittima anteprima dello spettacolo calcistico, rispetto ai tradizionali e convenzionali canali di diffusione, ed esclude che si verta in ipotesi di legittimo esercizio del diritto di cronaca e di mera informazione sul risultato;
 
          ritenuto che inoltre la condotta di TIM appare anche illecita, nei limiti della presente cognizione sommaria, sotto il profilo contrattuale, con riferimento alle società Milan, in quanto l’utilizzo sui telefoni cellulari, attraverso la tecnologia GPRS, a fini di sfruttamento commerciale, da parte di TIM delle immagini delle partite casalinghe disputate dal Milan nel Campionato di Serie A, integra anche una violazione della clausola, contenuta nel contratto di sponsorizzazione, stipulato tra Milan e TIM il 4-28/12/2000 (con effetti sino al 30/6/2004), o meglio nel successivo “Addendum”, concluso il 7/5/200?, con il quale è stato pattuito espressamente che “TIM non ha diritto di sfruttare le immagini della squadra del Milan attraverso mezzi tecnologici di comunicazione quali…le tecnologie…GPRS, UMTS o successive generazioni”, considerato che, da un lato, non si ravvisa, nell’ampiezza della clausola, un limite del divieto, nel senso voluto da TIM, vale a dire il suo riferirsi al solo utilizzo delle immagini per scopi pubblicitari diversi da quelli descritti nel contratto e, dall’altro lato, non si verte, per quanto detto sopra, in tema di diritto di informazione;
 
         tanto premesso in punto di fumus, deve osservarsi che ricorre anche il requisito del periculum, richiesto dall’art.700 c.p.c., atteso che, da un lato, permane il pericolo di aggravamento del pregiudizio lamentato dalle ricorrenti (tuttora in itinere), di difficile quantificazione economica, consistente nel possibile annacquamento del diritto di sfruttamento degli eventi agonistici, nello sviamento di clientela, nella perdita di avviamento e di immagine e, quanto in particolare alla H3G, nella possibile perdita di interesse e di appetibilità della clientela verso un servizio innovativo quale quello offerto da detto nuovo gestore di telefonia della terza generazione (in presenza dell’offerta di TIM, già presente da tempo sul mercato della telefonia mobile, di un servizio “live” di immagini di squadre, sia pure in tecnologia, qualitativamente inferiore, GPRS, comprensivo, tra le altre, anche delle squadre del Milan e della Juventus), e, dall’altro lato, la sussistenza dello stesso requisito non può essere negata per il solo fatto che la condotta asseritamene illecita è iniziata oltre sei mesi addietro, poiché essa non è avvenuta, per quanto sopra detto, con la tolleranza ed il conseguente disinteresse degli aventi diritto ma a fronte e malgrado la loro precisa opposizione (rectius, in particolare delle società Milan e Juventus, titolari dei diritti di sfruttamento economico, concessi in licenza esclusiva a H3G, sin dalla iniziale pubblicità ed attivazione del servizio da parte di TIM);
 
          ritenuto che pertanto, allo stato, in attesa dell’istaurazione del giudizio di merito, è opportuno inibire, in via provvisoria, proprio per impedire un potenziale aggravarsi degli effetti pregiudizievoli lamentati dalle ricorrenti, alla resistente TIM: a) la trasmissione e diffusione sui telefoni cellulari, con il servizio denominato “Serie A TIM Live”, attraverso la tecnologia GPRS (non ravvisandosi la necessità di estensione della inibitoria alla tecnologia UMTS, implicante pacificamente la trasmissione non di immagini statiche ma di filmati, necessitanti, per ammissione della stessa TIM, di specifica cessione dei diritti da parte delle società sportive, o tanto più alle “successive generazioni ed ad ogni altra tecnologia”, per difetto di determinatezza), delle immagini relative alle azioni salienti delle gare (c.d. casalinghe, secondo le regole sportive), disputate dalle squadre delle due società Milan A.C. spa e Juventus F.C. spa, con le attuali modalità sopra descritte e principalmente durante lo svolgimento dell’incontro di calcio e non prima della sua chiusura (non possono essere fissati dal giudice, in positivo, specifici limiti temporali di trasmissione dopo il termine della partita, in difetto,a l riguardo, di regolamentazione patrizia o legislativa); b) l’indicazione, in conseguenza, nella pubblicità e promozione del relativo servizio di telefonia mobile denominato “Serie A Tim Live”, tra le “squadre disponibili” all’interno degli MMS (Multimedia Messaginig Service), delle squadre del Milan e della Juventus;
 
          ritenuto che le spese andranno liquidate all’esito del giudizio di merito, da instaurare nel termine perentorio di gg. Trenta;
 
PQM
 
          In parziale accoglimento del ricorso ex art.700 c.pc., presentato ante causam in data ?2/3/2003, dalla Juventus F.C. sspa, dalla Milan A.C. spa e dalla H3G spa, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t. (…omissis…), nei confronti della resistente TIM spa, in persona del legale rappresentante p.t. (…omissis…), e con l’intervanto volontario delle società Ansa-Agenzia Nazionale Stampa Associata soc.coop. a.r.l. e Ansaweb spa, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t. (…omissis…), nel contraddittorio delle parti:
 
I)                    inibisce alla resistente TIM spa la trasmissione e diffusione sui telefoni cellulari, con il servizio denominato “Serie A TIM Live”, attraverso la tecnologia GPRS, delle immagini relative alle azioni salienti delle gare (c.d. casalinghe, secondo le regole sportive), disputate dalle squadre delle due società Milan A.C. spa e Juventus F.C. spa, con le attuali modalità, descritte in motivazione, e principalmente durante lo svolgimento dell’incontro di calcio e non prima della sua chiusura;
 
II)                  inibisce altresì alla resistente TIM spa l’indicazione, nella pubblicità e promozione del relativo servizio di telefonia mobile denominato “Serie A Tim Live”, tra le “squadre disponibili” all’interno degli MMS (Multimedia Messaging Service), delle squadre del Milan e della Juventus;
 
III)               rigetta il ricorso relativamente alla richiesta di inibitoria provvisoria concernete una asserita pubblicità sleale attuata dalla resistente;
 
IV)               spese all’esito del giudizio di merito, da instaurare nel termine perentorio di gg. Trenta.
 
Si comunichi.
 
Roma 29/3/2003
 
Il G.D.
 
  
 
Depositato in cancelleria
 
Roma, lì 31/3/2003
 

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Trib. Arezzo Sent. 320/03

TRIBUNALE DI AREZZO
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale di Arezzo, Sezione Penale, in composizione monocratica, in persona del Dr.
Giampiero Borraccia, Magistrato all’udienza del 18/3/03 ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Nei confronti di: V.F. , nato ad XXXX il XXXXXXXXXX, residente in XXXXXXXXXXXXXXXXXX – elettivamente domiciliato in Arezzo presso studio Avv.
Marco Amatucci LIBERO- CONTUMACE
Difensore di fiducia Avv. Marco Amatucci del Foro di Arezzo.

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Trib. Verona Ord. 9 marzo 2003

Tribunale civile di Verona

Ordinanza del 9 marzo 2003

Il Giudice designato per la trattazione del procedimento cautelare promosso ante causam, sciogliendo la riserva di cui al verbale di udienza del 28 febbraio 2003, esaminati gli atti ed i documenti di causa, osserva quanto segue.

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Trib. Bergamo Sez. I civile Sent. 634/03

Trib. I Sez. Civile&nbspBergamo
03/03/03
Sent. n.634/03

N. 4351/98 ruolo generale
N. 0634-2003 sentenza
N. 5286 cronologico
N. 1036/03 repertorio
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI BERGAMO
Sezione I^ civile
 
Il Tribunale di Bergamo in composizione monocratica in persona della dott.ssa Elda Geraci, ha emesso la seguente
SENTENZA
 nella causa civile di primo grado iscritta al n. 4351 del ruolo generale degli affari contenziosi dell’anno 1998 promossa
DA
 
Giorgio Armani s.p.a., con gli avv.ti Mariacristina Rapisardi e Bruno Lucchini
ATTRICE
 
CONTRO
 
Armani Luca, con l’avv. Stefano Bassetta
CONVENUTO
 
OGGETTO: violazione legge marchi
CONCLUSIONI
 
Per Giorgio Armani s.p.a.:
voglia il Tribunale Ill.mo, ogni contraria istanza disattesa e respinta nel merito:
1) accertare e dichiarare che la registrazione e l’utilizzazione da parte del convenuto del domain name “armani” è illecita ai sensi della Legge Marchi e conseguentemente ordinarne la cancellazione e inibirne la prosecuzione dell’illecito;
 
2) accertare e dichiarare che il comportamento del convenuto è illecito anche ai sensi delle norme repressive della concorrenza sleale ex art. 2598 e ss. c.c. e conseguentemente inibire la prosecuzione dell’illecito;
 
3) inibire al convenuto l’utilizzo della parola “armani” sotto qualsiasi forma ed a qualsiasi titolo qualora non sia accompagnata da elementi idonei a differenziarla dai marchi e dalla ragione sociale dell’attrice per evitare la confondibilità con gli stessi;
 
4) condannare il convenuto al risarcimento in favore della Giorgio Armani s.p.a. di tutti i danni dalla stessa patiti e patiendi in conseguenza di tutti gli illeciti sopra indicati, in misura da liquidarsi in via equitativa e comunque non inferiore ad euro 300.000;
 
5) in ogni caso condannare il convenuto al pagamento in favore dell’attrice di una provvisionale di importo non inferiore ad euro 200.000 ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 278 c.p.c.;
 
6) fissare una somma non inferiore ad euro 10.000 dovuta dal convenuto all’attrice per ogni violazione della sentenza e per ogni ritardo nell’esecuzione dei provvedimenti in essa contenuti;
 
7) ordinare la pubblicazione dell’emandata sentenza, a cura dell’attrice e a spese del convenuto, sul Corriere della Sera e su Il Sole 24 Ore, nonché su Internet Magazine e Inter.net, nonché sul sito Internet dell’attrice o su altri siti Internet che verranno appositamente creati a tale scopo dall’attrice;
 
8) con vittoria di spese, diritti ed onorari, oltre il 10% spese generali, Iva e Cpa.
 
In via istruttoria:
 
nella denegata ipotesi di ammissione dei capitoli formulati da controparte si chiede ammettersi prova per testi sul seguente capitolo di prova:
 
“vero che svariati clienti da tutto il mondo mi hanno segnalato di avere avuto problemi con il reperimento del sito della Giorgio Armani s.p.a. a causa della presenza in internet del domain name “armani.it” di titolarità del Timbrificio Armani.
 
Si indica a teste il sig. Brunello Bianchi presso Giorgio Armani s.p.a., via Borgonuovo 11 Milano.
 
  
Per Armani Luca:
 
voglia l’Ill.mo Giudice del Tribunale di Bergamo, ogni contraria istanza disattesa, così provvedere:
in via principale e di merito:
 
1) rigettare ogni domanda attrice per quanto concernente l’asserita illecita registrazione ed utilizzazione del domain name “armani.it”, in quanto infondata in fatto e in diritto;
 
2) rigettare ogni domanda attrice per quanto concerne il presunto ed indimostrato illecito concorrenziale ex art. 2598 c.c. perché infondato in fatto ed in diritto e di conseguenza rigettare ogni istanza di inibitoria e di provvisionale ex art. 278 c.p.c.;
 
3) rigettare ogni domanda attrice per quanto concerne il risarcimento di preteso ed indimostrati danni patiti e patiendi, in quanto infondata in fatto ed in diritto;
 
4) accertare e dichiarare la temerarietà della lite svolta dalla Giorgio Armani s.p.a. e per l’effetto ex art. 96 c.p.c. condannare la parte attrice al risarcimento dei danni in favore di parte convenuta nella misura ritenuta di giustizia ed in via equitativa;
 
5) condannare parte attrice al pagamento delle spese, diritti ed onorari di causa, con distrazione in favore del sottoscritto procuratore anticipatorio.
 
In via subordinata di merito:
 
Si insiste nelle istanze istruttorie formulate in corso di causa, con particolare riferimento alla memoria istruttoria ex art. 184 c.p.c. del 18.1.2001 sia per interrogatorio formale che per testi, nonché nella istanza di consulenza tecnica diretta ad accertare e descrivere le caratteristiche tecniche del domain name che del sito web www.armani.it opponendosi ad ogni ulteriore nuova e tardiva istanza istruttoria di parte attrice.
 
Svolgimento del processo
 
Con atto di citazione notificato il 22 ottobre 1998, Giorgio Armani s.p.a. – premesso di vantare una tradizione ultraventennale nel settore della moda nel campo dell’abbigliamento e di essere incontestabilmente una delle società leader dello stesso settore; di avere ampliato il proprio settore produttivo, estendendolo agli accessori di moda, profumi, occhiali, calze, orologi e prodotti di pelletteria; di avere sempre prestato la massima attenzione alla politica promozionale; di essere titolare del marchio Armani, universalmente riconosciuto come marchio supernotorio e celebre, protetto in tutte le sue diverse utilizzazioni per i prodotti ricompresi in quasi tutte le classi di registrazione, come da certificati di registrazioni prodotti a mero titolo esemplificativo; di essersi sempre avvalsa per promuovere la propria immagine e pubblicizzare attività, prodotti ed iniziative di tutti gli strumenti e canali di comunicazione disponibili; di avere quindi avvertito la necessità di comparire sulle rete Internet, costituendo il canale divulgativo più efficace e capillare di ogni tempo, considerando a tal fine che il sito all’interno del quale il pubblico dei consumatori avrebbe potuto reperire notizie, curiosità ed informazioni avrebbe dovuto essere contraddistinto dal domain name costituito dall’universalmente noto marchio “Armani” – esponeva:
 
che nell’eseguire i controlli preliminari alla richiesta di registrazione del domain name “armani.it” era venuta a conoscenza del fatto che il domain name “armani.it” era già stato registrato da Luca Armani quale titolare del Timbrificio Luca Armani, con sede in Treviglio il quale aveva registrato presso la RA Italiana il dominio “armani.it” per contraddistinguere il proprio sito Internet ed utilizzarlo per la vendita di timbri;
 
che per la sua funzione – cioè quella di consentire l’accesso alla rete Internet e quindi ad un numero infinito di informazioni, contraddistinguendo sulla rete l’attività d’impresa, i prodotti o il marchio del suo titolare – l’uso del domain name doveva equipararsi all’uso di un segno distintivo;
 
che tale essendo la funzione del domain name, l’utilizzo del dominio “armani.it” da parte del Timbrificio era idonea a ingenerare nel pubblico degli utenti di Internet confusione;
 
che, infatti, essendo il marchio Armani di titolarità dell’attrice marchio celebre, l’utente consumatore, nel reperire nel database che raccoglie tutti i domini depositati il domain name “armani.it” sarebbe stato indotto a credere che il sito così individuato appartenesse alla Giorgio Armani s.p.a. e che, analogamente, l’utente che avesse voluto individuare in Internet la presenza di un sito a nome dell’attrice avrebbe senz’altro digitato il domain name “armani.it”, ipotizzandone la coincidenza con il famoso marchio;
 
che, invece, una volta collegatosi con il sito corrispondente, contrariamente ad ogni legittima aspettativa, il consumatore si sarebbe trovato di fronte ad una pagina WEB costituita da un modulo per l’ordinazione di timbri;
 
che, pertanto, era evidente la gravità degli illeciti commessi dal convenuto per avere contraffatto le privative di marchio di titolarità dell’attrice e la conseguente applicabilità delle norme regolatrici del conflitto tra segni distintivi;
 
che, dal confronto tra le date di registrazione dei marchi Armani da parte dell’attrice con la data di registrazione del Timbrificio Armani nel registro delle ditte, doveva necessariamente concludersi che i diritti della Giorgio Armani s.p.a. sulla parola Armani erano senza dubbio anteriori a quello che poteva vantare la ditta convenuta;
 
che nel caso di specie ricorrevano tutti i presupposti per l’applicabilità della disciplina prevista dall’art. 1 l.m. ovvero quella di cui all’art. 13 l.m.;
 
che, in particolare, sussistevano entrambe le condizioni degli indebiti vantaggi e del pregiudizio, richieste peraltro in via alternativa dall’art. 1 l.m., cui la legge subordina la tutela del marchio che gode di rinomanza nello Stato;
 
che, infine, il comportamento di controparte, oltre che costituire una palese contraffazione delle privative dell’attrice, costituiva atto illecito ex art. 2598 c.c. in quanto idoneo a creare confusione con i segni distintivi legittimamente utilizzati dall’attrice.
 
Tutto ciò esposto, Giorgio Armani s.p.a. chiedeva A) che fosse accertato e dichiarato che la registrazione e l’utilizzazione da parte del convenuto del domain name “armani” fosse illecita ai sensi della legge marchi e che quindi ne fosse ordinata la cancellazione e inibita la prosecuzione dell’illecito; B) che fosse accertato e dichiarato che la registrazione e l’utilizzazione da parte del convenuto della parola “armani” come domain name fosse illecita ai sensi dell’art. 2598 c.c. e che quindi ne fosse ordinata la cancellazione e inibita la prosecuzione dell’illecito; C) che fosse inibito al convenuto l’utilizzo della parola “armani” sotto qualsiasi forma ed a qualsiasi titolo ove non accompagnata da elementi idonei a differenziarla dai marchi e dalla denominazione sociale dell’attrice per evitare la confondibilità con gli stessi; D) che il convenuto fosse condannato al risarcimento dei danni ed in ogni caso al pagamento di una provvisionale; E) che fosse fissata una somma per ogni violazione della sentenza e per ogni ritardo nell’esecuzione dei provvedimenti in essa contenuti; F) che fosse ordinata la pubblicazione della sentenza; il tutto con vittoria di spese.
 
Con comparsa depositata il 25.3.1999, si costituiva Armani Luca il quale chiedeva il rigetto della domanda e contestava la qualificazione del domain name alla stregua di un segno distintivo, consistendo esso piuttosto in un mero indirizzo che identifica un certo sito o un server sulla Rete; deduceva che non aveva contraffatto il marchio Giorgio Armani s.p.a. in quanto si era limitato a dare il proprio cognome al proprio indirizzo nella rete; che, da una rapida e non esaustiva ricerca, si potevano rinvenire ben 1064 Armani nella rete Internet ed affinando la ricerca si rinvenivano nella sola Italia 187 domini con Armani identificativi nella loro pagina web, oltre a Giorgio Armani s.p.a., anche di rivenditori di piastrelle, studi di geometri, panetterie etc.; e che proprio l’enorme quantità di siti similari, aveva portato la giurisprudenza a considerare che, fino a quando l’utente non accede effettivamente alla pagina web, il domain name non ha alcuna attinenza o relazione con i servizi o beni offerti da quel sito, sicchè la confusione e l’uso illegittimo del marchio altrui andava determinata al momento dell’accesso alla pagina web, allorché l’utente viene in contatto con le pagine pubblicitarie del sito cui si collega; che, pertanto, era infondata la domanda formulata con riferimento alla tutela del marchio in quanto l’uso di un domain name su Internet, riproducente un marchio registrato da altra società, per fornire a sua volta dei servizi sulle rete telematica, poteva integrare la fattispecie della contraffazione del marchio, solo in quanto attività idonea a creare confusione tra gli utenti, limitatamente ai servizi e ai prodotti resi da entrambi i soggetti nel medesimo settore di attività; che, nel caso di specie, l’evidente differenziazione delle attività espletate dalle due società escludeva ogni pericolo di confusione; che non era corretta l’affermazione dell’attrice secondo cui l’uso del dominio in contestazione da parte del convenuto impediva all’attrice stessa di poter usufruire della stessa forma di pubblicità e del servizio Internet, rendendo concreto e reale il pericolo di confusione da parte di un potenziale cliente, ben potendo infatti l’attore richiedere l’uso di un dominio top level a livello internazionale; che era altresì privo di fondamento il contestato illecito concorrenziale ai sensi dell’art. 2598 c.c., anche in ragione della notevole differenziazione tra i prodotti e servizi resi dall’attrice con quelli del convenuto.
 
Nel corso del giudizio le parti si scambiavano le comparse ai sensi degli artt. 170 e 180 c.p.c., depositavano le memorie ex art. 183 ultimo comma c.p.c. e quelle per deduzioni istruttorie.
 
Quindi la causa, senza assunzione di mezzi di prova, era rinviata per la precisazione delle conclusioni all’udienza del 17 ottobre 2002.
 
A tale udienza le parti precisavano le conclusioni trascritte in epigrafe, con richiesta di termini ex art. 190 c.p.c., decorsi i quali la causa era trattenuta dal giudice per la decisione.
 
Motivi della decisione
 
Con il giudizio promosso, Giorgio Armani s.p.a. chiede la tutela accordata dalla legge marchi e dalle norme del codice civile in tema di concorrenza sleale in quanto ritiene che la registrazione e l’utilizzazione da parte di Luca Armani, titolare dell’impresa individuale Armani Luca, del nome a dominio “armani”, al fine di accedere al suo sito Internet utilizzato per la vendita di timbri, integri la fattispecie della contraffazione del marchio Armani di cui essa è titolare, in tutte le sue diverse utilizzazioni per i prodotti ricompresi in quasi tutte le classi di registrazione, nonché della concorrenza sleale confusoria per l’utilizzazione di segni distintivi confondibili con quelli legittimamente usati dall’attrice stessa (art. 2598, n. 1 c.c.).
 
In assenza di una normativa che regolamenti le modalità di risoluzione dei conflitti tra titolari di nomi a dominio e titolari di altri diritti sui segni corrispondenti, il punto di partenza per valutare il fondamento della domanda dell’attrice non può che essere l’esame della funzione del nome a dominio in ragione della quale può pervenirsi alla successiva qualificazione giuridica dello stesso e alla conseguente individuazione della normativa ad esso applicabile.
 
Sotto tale profilo – contrariamente a quanto deduce il convenuto il quale invoca l’improcedibilità della domanda poiché nell’ordinamento giuridico vigente manca una normativa specifica concernente la rete Internet, sicchè la materia dovrebbe essere regolata dagli aspetti operativi, tecnici e logici propri del Domain Name System – va anzitutto affermato che le regole di naming dettate dalla Naming Authority e cioè quelle che stabiliscono la procedura per l’assegnazione dei nomi a domino, costituiscono mere regole contrattuali di funzionamento del sistema di comunicazione delle rete Internet, di carattere amministrativo interno, che non possono essere utilizzate dal giudice atteso che l’autorità giudiziaria è chiamata ad applicare la legge e non una normativa amministrativa interna.
 
Pertanto, l’assenza di una legge specifica importa non certo il ricorso alle regole interne di naming, bensì il ricorso all’analogia e quindi alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe alla fattispecie relativa all’utilizzo dei nomi a dominio.
 
Ne consegue che le regole per l’assegnazione dei nomi a dominio fondate sul principio first come first served per il quale il nome a dominio viene assegnato a chi lo richiede per primo, così come le procedure di riassegnazione del nome a dominio per valutare se sussistano o meno in capo al richiedente i requisiti per l’ottenimento e il mantenimento del nome a dominio assegnatogli in base alla suddetta norma tecnica del first come first served, non possono rappresentare le regole cui fare riferimento per la soluzione della controversia sottoposta all’attenzione di questo Tribunale, dovendosi invece fare ricorso alla analogia che, anzitutto, implica che sia individuata la funzione del nome a dominio sì da accertare se essa sia equivalente a quella dei segni distintivi dell’impresa.
 
Tanto premesso, il nome a dominio attraverso il quale si accede alla rete Internet – che, come è noto, è composto da diverse parti: quella iniziale comune a quasi tutti i nomi (http://www); quella centrale specificatamente individualizzante e quella finale che indica la cosiddetta estensione (com, net, org, edu, gov, it) – costituisce lo strumento indispensabile che consente di rendere visibile all’interno della rete un certo contenuto o attraverso il quale possono essere cercate notizie o informazioni su determinati argomenti.
 
In quanto strumento che concorre all’identificazione di un sito e, quindi, dei beni e/o servizi offerti per il suo tramite, non è contestabile che ad esso vada per lo più riconosciuta una funzione non limitata alla stregua di un mero indirizzo che consente tecnicamente all’utente l’accesso al sito contrassegnato, bensì anche di segno distintivo, perchè volto ad attirare l’attenzione degli utenti e ad invogliarli a visitare il sito.
 
La funzione di indirizzo è svolta dal nome a dominio nella sua integrità, mentre l’altra funzione si concentra nella parte centrale del nome che svolge quindi una funzione distintiva, con la conseguenza che, ove si tratti di siti commerciali, assume una funzione di segno distintivo di impresa e, pertanto, dei beni e/o servizi offerti dalla stessa.
 
La precisazione relativa al fatto che si tratti di siti commerciali consente di rilevare che è priva di pregio l’obiezione svolta dal convenuto nel contestare l’equiparazione del nome a dominio ad un segno distintivo dell’impresa: al riguardo, osserva il convenuto che, mentre il marchio ha una funzione commerciale e contraddistingue dei prodotti, il nome a dominio ben può essere utilizzato per fini diversi da quelli commerciali, dato che Internet non è solo strumento di sviluppo di industrie ed imprese, ma anche area di veicolazione di opinioni ed idee che non rientrano in una logica esclusivamente commerciale.
 
Incontestabile la ben più ampia area di Internet, non certamente circoscritta alle attività commerciali, il rilievo del convenuto non supera la conclusione sopraesposta, ma piuttosto vale ad evidenziare l’estrema varietà delle situazioni che possono venire in considerazione attraverso lo strumento in esame; tale enorme varietà, peraltro, deve solo portare ad escludere che al nome a dominio possa attribuirsi una qualificazione unica, dovendosi invece analizzare la concreta situazione, in quanto – a seconda delle circostanze del caso e avuto riguardo al contenuto e alla configurazione del sito – potrà a ragione, allorché il sito abbia carattere commerciale, equipararsi il nome a dominio ad un segno distintivo del tipo marchio d’impresa; nelle altre e diverse ipotesi in cui, ferma restando la funzione distintiva del nome a dominio nella sua parte descrittiva, esso sia utilizzato non già per accedere ad un sito commerciale e quindi non in funzione di individuazione di un’attività economica, bensì di trasmissione di opinioni e di idee, verrà certamente a mancare la ratio sottesa all’equiparazione del nome a dominio ai segni distintivi di impresa, con conseguente, e del tutto legittima, diversa qualificazione del nome a dominio.
 
Tanto rilevato, nelle ipotesi in cui il nome a dominio consente di accedere ad un sito commerciale, esso, nella parte individualizzante, sostanzialmente, viene a svolgere la funzione propria del marchio di distinzione di prodotti e servizi e, pertanto, è senz’altro suscettibile di entrare in conflitto con altri segni distintivi, ponendosi di conseguenza i problemi tipici dei segni distintivi d’impresa e correlativamente delle condizioni di tutelabilità dei segni stessi. Tale essendo, in queste ipotesi, la funzione del nome a dominio e quindi stante la sua notevole affinità con i segni distintivi tipici, in mancanza di una legislazione specifica in materia, deve ritenersi corretto il riferimento alla disciplina dei marchi registrati.
 
Ne deriva che l’uso di un nome a dominio su Internet corrispondente ad un marchio registrato altrui va considerato lesivo del diritto di esclusiva spettante al titolare del marchio ex art. 1 l.m. e che al conflitto tra domain name e marchio debbono applicarsi le norme che disciplinano i conflitti tra segni distintivi; ne deriva altresì che il titolare del marchio può opporsi all’adozione di un nome a dominio uguale o simile al proprio segno distintivo se, a causa dell’identità o affinità fra prodotti e servizi, possa crearsi un rischio di confusione che può consistere anche in un rischio di associazione.
 
La conclusione che precede è conforme al prevalente orientamento dei giudici di merito – tra le numerose, vedi Trib. Roma 2.8.1997 e 9.3.2000; Trib. Napoli 25.5.1999; Trib. Viterbo 24.1.2000: Trib. Cagliari 30.3.2000; Trib. Reggio Emilia 20.5.2000 e 30.5.2000; Trib. Parma 9.6.2000; Trib. Milano 3.2.2000; Trib. Brescia 10.10.2000 e 30.11.2000 – che ha senz’altro superato il contrario indirizzo espresso da alcuni Tribunali – Trib. Firenze 29.6.2000 ed anche Trib. Empoli 23.11.2000, richiamati dalla difesa del convenuti – che, invece, avevano attribuito al nome a dominio la funzione di un mero indirizzo elettronico. Siffatta qualificazione del nome a dominio, alla luce dei rilievi sopraesposti, coglie solo una funzione del segno in esame, tralasciando di considerare l’innegabile ed ulteriore funzione distintiva che la dottrina più attenta e la giurisprudenza ormai prevalente ha, a ragione, colto nel nome a dominio, valutando proprio la sua capacità di concorrere all’identificazione del sito e dei servizi commerciali offerti al pubblico attraverso esso.
 
Venendo quindi a considerare il caso sottoposto all’esame di questo tribunale, anzitutto si rileva che, come da documentazione in atti, attraverso il sito cui si accede digitando “armani.it” sono proposti i prodotti della impresa individuale Luca Armani (la cui attività precipua è la produzione di insegne luminose, targhe, timbri ed intarsio mobili, incisoria meccanica e commercio all’ingrosso di materiale elettrico per insegne luminose).
 
E’ pertanto pacifico, alla luce del contenuto del sito, che il nome a dominio “armani.it” registrato in favore di Armani Luca è utilizzato per identificare l’attività economica che fa capo al convenuto e che, stante la natura commerciale del sito, in forza di tutto quanto si è esposto e, quindi, della riconosciuta funzione di segno distintivo di impresa del nome a dominio, vengono in considerazione le norme che regolano il conflitto tra segni distintivi ed in particolare quelle dettate a tutela del titolare del marchio registrato, visto che l’attrice è titolare del marchio Armani e non è oggetto di alcuna discussione il fatto che quel marchio sia un marchio celebre.
 
La qualificazione del marchio Armani come marchio registrato che gode di rinomanza comporta che il titolare benefici della tutela ampliata, che esorbita cioè il limite dell’identità o affinità tra prodotti e servizi, potendo egli – ai sensi dell’art. 1, comma 1 lett. c) l.m. – vietare a terzi l’uso di un segno identico o simile, a prescindere dal rischio di confusione, laddove l’uso del segno consenta, alternativamente, di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca ad esso pregiudizio.
 
La tutela merceologicamente ampliata riconosciuta dalla legge del marchio celebre – quindi al di là della confondibilità in quanto, in tale ipotesi, il bene protetto non è l’interesse alla non confondibilità, bensì l’interesse di chi ha reso rinomato il segno a non vedersi sottratte o pregiudicate le utilità economiche che possono derivare da tale rinomanza – ogni volta che ricorra una delle condizioni previste dal citato articolo 1 l.m. sgombera il campo dalla rilevanza delle ulteriori difese del convenuto.
 
Secondo il convenuto, l’uso illegittimo del marchio altrui andrebbe valutato solo nel momento in cui l’utente viene in contatto con la pagina web e cioè con i beni e servizi offerti dal sito, nel senso che potrebbe ravvisarsi la fattispecie della contraffazione del marchio, allorché il domain name, utilizzato per fornire servizi sulla rete telematica riproducente il marchio registrato da altra società, sia idoneo a creare confusione tra gli utenti circa i servizi ed i prodotti resi dai soggetti nel medesimo settore di attività.
 
E’ agevole osservare che la ben più ampia tutela di cui gode il marchio celebre, sganciato dalla confondibilità tra prodotti e/o servizi, evidenzia come il tema di indagine proposto dal convenuto sia del tutto irrilevante al fine di valutare se ricorrano o meno gli elementi costitutivi della fattispecie della contraffazione del marchio celebre, che, come si è scritto, sono previsti nell’art. 1, comma 1, lett. c), l.m. (precisato sin d’ora che a conclusioni differenti si perverrà con riguardo alla fattispecie della concorrenza sleale confusoria, pure invocata dall’attrice a tutela dei propri diritti).
 
Orbene, tutte le condizioni previste dalla norma in esame ricorrono nel caso di specie.
 
In primo luogo, il nome a dominio “armani.it” è identico al marchio di cui la società attrice è titolare.
 
In secondo luogo, sussistono entrambe le ulteriori condizioni, peraltro richieste in via alternativa dalla legge.
 
Per quanto riguarda l’indebito vantaggio, l’adozione come nome a dominio della parola corrispondente ad un marchio che per la sua celebrità è entrato nel patrimonio di tutti i consumatori e che, pertanto, ha una fortissima capacità attrattiva, nonchè valore evocativo, consente al convenuto di procurarsi una vastissima notorietà, in quanto non vi è dubbio che l’utente Internet che desideri reperire il sito del celebre stilista digiterà proprio “armani.it” trovandovi, peraltro, indicazioni sui prodotti della ditta di Treviglio di cui è titolare il convenuto. Ne consegue che il titolare del timbrificio, sfruttando l’indiscutibile capacità attrattiva del marchio Armani, ottiene un notevole guadagno in termini di pubblicità (come è anche comprovato dalla rassegna stampa riportata nel sito del convenuto – doc. n. 9 dell’attrice – da cui emerge che i consumatori dei prodotti della celebre casa di moda digitino armani.it al fine di cercare il sito del noto stilista, imbattendosi, per errore, nel sito del convenuto), guadagno peraltro indebito perché derivato dallo sfruttamento dell’enorme fama acquisita dal marchio in questione che richiama un vastissimo numero di utenti Internet.
 
L’utilizzo del nome Armani da parte del convenuto, poi, reca pregiudizio all’attrice sol ove si consideri che impedisce alla stessa di utilizzare il proprio marchio come nome a dominio per l’estensione “it”.
 
Sotto tale profilo, il principio del “first come first served” – dettato dalla necessità tecnica per cui il corretto funzionamento della rete Internet esclude che vi possano essere identici nomi a dominio con la conseguenza che, se il nome prescelto è già stato assegnato ad un soggetto, non può essere assegnato ad altri, se non dopo il fruttuoso esperimento della procedura amministrativa di riassegnazione del nome a dominio – comporta che il titolare del marchio, che sia stato registrato da altri come domain name, non potrà utilizzare il proprio segno distintivo come nome a dominio.
 
La privazione della facoltà di utilizzare il proprio segno distintivo come nome a dominio costituisce pregiudizio per il titolare del segno stesso dal momento che l’indiscutibile diritto di ciascuna impresa di presentarsi attraverso il proprio nome e marchio al pubblico, secondo ogni modello di comunicazione, comporta che l’uso del segno distintivo in Internet debba essere ritenuta una prerogativa del titolare del segno, costituendo tale uso null’altro che esplicazione delle diverse e molteplici forme di uso commerciale del nome riservate al titolare della privativa.
 
E’, quindi, ravvisabile il pregiudizio per l’attrice che, in ragione della condotta del convenuto, non può presentarsi sulla rete Internet proprio attraverso il celebre marchio che costituisce indiscutibile richiamo per numero elevatissimo di consumatori, con conseguente perdita di tutti quegli utenti meno esperti delle rete Internet che limitino la propria ricerca al dominio armani.it. (fatto comprovato dai dati risultanti dai siti che rilevano il numero di utenti che hanno visitato il sito del convenuto, numero pari, in relazione ad un trimestre, a tre volte al numero degli utenti che hanno visitato il sito “giorgioarmani.it”).
 
Si osserva, inoltre, che è del tutto irrilevante la ricerca svolta dal convenuto il quale ha verificato l’esistenza di numerose pagine web riconducibili alla Giorgio Armani s.p.a., ricerca attraverso la quale il convenuto intende confutare l’affermazione dell’attrice secondo cui a causa dell’illegittimo comportamento di controparte il marchio Armani non può trovare ingresso in Internet.
 
Ed invero la ricerca svolta ha ad oggetto le pagine web in cui è presente la parola armani e non i nomi a dominio dei relativi siti: ciò premesso, è indiscutibile che, proprio in ragione della celebrità della parola “armani”, essa non può che comparire frequentemente nelle pagine web, ma ciò nulla ha a che fare con la questione oggetto del giudizio relativa al riconoscimento del titolare del marchio di utilizzare in via esclusiva il proprio marchio come domain name al fine di contraddistinguere il proprio sito.
 
Il pregiudizio è anche ravvisabile sotto il profilo dell’annacquamento del celebre segno in quanto, utilizzato in associazione alla vendita di timbri e targhe, viene a perdere la sua unicità sul mercato e per essa la forza di identificazione con i prodotti del celebre stilista, con conseguente indebolimento del carattere distintivo del marchio medesimo.
 
Per tutto quanto esposto, la registrazione e l’utilizzazione come nome a dominio della parola armani da parte del convenuto, per accedere al sito ove sono posti in vendita timbri, costituisce ipotesi di contraffazione del marchio di cui è titolare la società attrice.
 
Non vi sono le condizioni per ritenere applicabile in favore del convenuto la riserva posta dall’art. 1 bis l.m. che limita lo “ius excludendi”, spettante al titolare del marchio allorché il terzo utilizzi nell’attività economica il proprio nome e indirizzo purchè l’uso sia conforme ai principi della correttezza professionale e quindi non in funzione di marchio, ma solo in funzione descrittiva.
 
Al riguardo, il convenuto contesta di avere contraffatto il marchio altrui, osservando di essersi limitato ad utilizzare il proprio patronimico come nome a dominio, “considerato che il domain name è principalmente per sua natura un indirizzo elettronico” e, quindi, realizzando una condotta lecita ai sensi dell’art. 1 bis l.m..
 
L’eccezione del convenuto si sviluppa lungo l’erroneo presupposto che il nome a dominio costituisca un mero indirizzo elettronico, qualificazione che porterebbe conseguentemente a ritenere che l’uso della parola “armani” non sia in funzione di marchio.
 
Ricordato che l’art. 1 bis l.m. limita lo ius excludendi spettante al titolare della privativa allorché il terzo utilizzi nell’attività economica il proprio nome e indirizzo purchè l’uso sia conforme ai principi della correttezza professionale e quindi non in funzione di marchio, ma solo in funzione descrittiva, si osserva che la riconosciuta funzione distintiva del nome a dominio, cioè di identificazione dell’attività economica e per essa dei relativi prodotti e servizi, è circostanza che comprova l’erroneità della qualificazione operata dal convenuto e, al contempo, vale ad affermare che l’utilizzo del segno in esame come nome a dominio costituisce una forma di impiego di quel segno proprio in funzione del marchio.
 
Da ciò consegue che Giorgio Armani s.p.a., quale titolare del marchio Armani fondatamente può vietare al convenuto l’impiego nell’attività economica come nome a dominio del suo patronimico “armani” in quanto effettuato in funzione di marchio.
 
Si aggiunga che la circostanza che il convenuto abbia registrato come nome a dominio la sola parola “armani”, in luogo di quella corrispondente alla ditta sotto la quale esercita l’attività economica, conferma che di tale parola è fatto un uso non conforme ai principi della correttezza professionale, stante l’assenza di ogni doverosa aggiunta sì da differenziare il proprio domain name dal celebre marchio dell’attrice.
 
Neppure vale il richiamo operato dal convenuto alla disposizione dell’art. 21 l.m. a mente della quale la registrazione del marchio non impedirà, a chi abbia diritto al nome, di farne uso nella ditta da lui prescelta.
 
L’art. 21, coordinato con la disposizione di cui all’art. 13 che vieta l’adozione come ditta del marchio altrui e letto alla luce dell’art. 2563 c.c. che detta il contenuto obbligatorio della ditta laddove stabilisce che deve comunque “contenere almeno il cognome o la sigla dell’imprenditore”, va inteso nel senso di consentire all’avente diritto al nome di usare il nome stesso nella ditta da lui prescelta, ma anche di escludere che la ditta medesima possa consistere esclusivamente in quel nome ove l’inserimento di esso possa dar luogo a risultati confusori.
 
La facoltà attribuita dalla norma in commento concerne quindi l’uso del nome nella ditta, nel contesto di elementi idonei a differenziarla dal marchio registrato in modo da escludere il rischio di confusione per il pubblico che può consistere anche in un rischio di associazione tra i due segni.
 
Ciò rilevato, da un lato si osserva che non viene affatto contestato al convenuto la facoltà di impiegare nella ditta prescelta il proprio nome Armani; dall’altro lato, peraltro, è di tutta evidenza che laddove il convenuto impiega come nome a dominio la sola parola “armani” si è al di fuori della previsione della norma invocata, essendo la ditta prescelta dal convenuto – “Armani Luca” – diversa dal nome a dominio “armani”; pertanto, non è corretto invocare l’art. 21 l.m. per ottenere la tutela di un segno non corrispondente alla ditta e che, proprio perché differente da essa, ha di fatto comportato la mancanza di ogni elemento che valesse a differenziarlo dal marchio registrato della controparte.
 
Si conferma, pertanto, che la registrazione e l’utilizzazione da parte del convenuto del nome a dominio “armani” costituisce contraffazione dell’altrui marchio registrato; ne consegue che al convenuto, ai sensi dell’art. 63 l.m., deve essere inibito l’utilizzo della parola “armani” presso la rete Internet come nome a dominio, ove non accompagnata da elementi idonei a differenziarla dal marchio dell’attrice.
 
Ai sensi dell’art. 65 l.m., allo scopo di ristabilire chiarezza presso il pubblico dei consumatori circa la riconducibilità del nome a dominio “armani” al titolare del relativo marchio, il dispositivo della presente sentenza dovrà essere pubblicato, a spese del convenuto, sui quotidiani “Il Corriere della Sera” e sulla rivista “Internet Magazine”, oltre che sul sito Internet dell’attrice medesima.
 
L’attrice invoca anche la tutela prevista dal codice civile per le ipotesi della concorrenza sleale confusoria ex art. 2598 c.c..
 
Secondo Giorgio Armani s.p.a., il comportamento del convenuto, il quale utilizza come nome a dominio la parola corrispondente al marchio “Armani” registrato dall’attrice, è atto illecito anche ai sensi dell’art. 2598 c.c. in quanto idoneo a creare confusione con i segni distintivi legittimamente utilizzati dall’attrice.
 
La sussistenza della fattispecie invocata dall’attrice è contestata dal convenuto che deduce la mancanza di un rapporto di concorrenza tra attrice e convenuto i quali operano in settori merceologici del tutto differenti.
 
L,art. 2598, n. 1 comma I, c.c., laddove sanziona l’imprenditore che usa nome o segni distintivi idonei a produrre confusione con nomi o con segni distintivi legittimamente usati da altri, accorda una tutela limitata dalla necessità dell’effetto confusorio; ciò comporta che vi deve essere confondibilità sotto il profilo merceologico o del tipo di attività svolta in quanto, in mancanza, non è ravvisabile confusione in senso proprio e cioè la riconduzione di un prodotto o di un’attività da un imprenditore diverso dal suo autore. Occorre pertanto, o che i prodotti contrassegnati dai segni confondibili siano a loro volta confondibili, ovvero che, pur trattandosi di prodotti tra loro non confondibili, per il fatto di essere contraddistinti da segni confondibili e di essere merceologicamente affini, fanno ritenere al pubblico che vadano ricondotti all’attività produttiva o commerciale di un imprenditore diverso da quello cui competono.
 
Osservato che la tutela della disposizione in commento va accordata anche al segno distintivo costituito dal marchio registrato, sebbene trovi la propria specifica tutela nella legge marchi, si rileva che non sempre la contraffazione di un marchio costituisce anche concorrenza sleale confusoria, attesi i limiti della disciplina di quest’ultima rispetto alla tutela prevista nella legge marchi.
 
Ciò premesso, se vi è concorrenza sleale allorché si utilizza un segno altrui per prodotti identici o affini, essendo in tale caso ravvisabile il rapporto di concorrenza, non altrettanto può dirsi quando si tratti di prodotti non affini.
 
In tale ipotesi il titolare del marchio contraffatto non può invocare anche la tutela dell’articolo in commento, in quanto non ricorrerà la concorrenza sleale per mancanza del presupposto del rapporto di concorrenza. In altri termini, mentre la legge marchi conosce una categoria di segni – i marchi che godono di rinomanza – tutelati ben oltre il principio di relatività, e quindi al di là del limite dell’affinità tra prodotti, questi stessi segni non sono tutelabili ai sensi dell’art. 2598 c.c. laddove, per la mancanza di affinità tra prodotti, non sussista il rapporto di concorrenza.
 
Applicando questi principi al caso di specie si vede come l’utilizzo da parte del convenuto del nome “armani” come nome a dominio per accedere ad un sito ove sono offerti prodotti e servizi del tutto distanti da quelli di pertinenza dell’attrice e quindi per contrassegnare un settore produttivo che non è in rapporto di concorrenza ai sensi dell’art. 2598 c.c. con quello dell’attrice, non è riconducibile all’ipotesi della concorrenza sleale confusoria di cui al numero 1 dell’articolo citato.
 
Il richiamo operato dall’attrice al concetto di concorrenza potenziale – per cui, ai fini dell’applicazione dell’art. 2598 c.c., sarebbe sufficiente un rapporto di concorrenza potenziale tra i soggetti coinvolti – accolto da una parte della giurisprudenza nella prospettiva di estendere l’ambito di applicazione della norma in commento, non è idoneo a superare la conclusione sopraesposta. Ed invero, valutata la concorrenza potenziale sotto il profilo merceologico, essa può ravvisarsi, non già considerando astrattamente la mera potenzialità espansiva dell’impresa, bensì allorché appaia razionalmente prevedibile una estensione dell’ambito operativo di un’impresa a quello dell’altro.
 
Orbene, riconoscendo certamente la sicura tendenza espansiva della società attrice nei diversi settori dell’attività produttiva, come comprovato, tra l’altro, dall’ampliamento dal settore dell’abbigliamento a quello dei suoi più disparati accessori, nonché agli articoli per la casa, libri, composizioni floreali, dolci, deve escludersi che tale estensione possa in futuro portare ad un’operatività dell’attrice nel settore in cui opera il convenuto, vista l’assoluta estraneità dell’attività esercitata dall’uno rispetto a quella dell’altro.
 
Alla luce di quanto precede, deve escludersi che nei fatti dedotti dall’attrice siano ravvisabili gli elementi costitutivi dell’illecito concorrenziale confusorio.
 
Non viene invece presa in esame la fattispecie di cui al n. 3 dell’art. 2598 c.c., invocata per la prima volta dall’attrice in comparsa conclusionale, mentre in atto di citazione (pag. 16) la condanna del convenuto era stata chiesta solo ai sensi del n. 1 del citato articolo, avendo l’attrice fatto esplicito riferimento alla idoneità del comportamento del convenuto a creare confusione con i segni distintivi legittimamente utilizzati dall’attrice medesima; essendo le fattispecie contemplate dall’art. 2598 c.c. tra di loro autonome, è inammissibile la richiesta di condanna formulata per la prima volta in comparsa conclusionale ai sensi del n. 3 in luogo del n. 1 della citata disposizione del codice civile.
 
Venendo infine a considerare la domanda di risarcimento del danno, tale domanda non può essere accolta, non avendo l’attrice fornito alcun elemento di prova relativo al lucro cessante in concreto ad essa derivato dall’altrui condotta illecita, tenuto conto che il ricorso alla liquidazione equitativa del danno non è ammissibile laddove la parte ometta del tutto di fornire specifici dati di fatto al fine della determinazione del danno stesso.
 
Le spese del giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza e, pertanto, sono poste a carico del convenuto.
 
P.Q.M.
 
il Tribunale di Bergamo, in composizione monocratica, rigettata ogni altra ogni domanda, eccezione, deduzione, definitivamente pronunciando, così provvede:
– dichiara l’illiceità della registrazione e della utilizzazione da parte del convenuto del domain name “armani” ai sensi della legge marchi e per l’effetto ordina la cancellazione della parola “armani” nel nome a dominio registrato in favore del convenuto ed inibisce al convenuto stesso l’uso della parola “armani” come nome a dominio, ove non accompagnata da elementi idonei a differenziala dal marchio “Armani”;
 
– fissa la somma di euro 5.000 dovuta dal convenuto all’attrice per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione della presente sentenza;
 
– ordina la pubblicazione del dispositivo della presente sentenza, a cura dell’attrice e a spese del convenuto, sul quotidiano il “Corriere della Sera”, sulla rivista “Internet Magazine”, nonché sul sito Internet dell’attrice;
 
– condanna Armani Luca alla rifusione delle spese del giudizio sostenute da Giorgio Armani s.p.a., che liquida in complessivi euro 13.526 di cui euro 10.000 per onorari, euro 2.536 per diritti, euro 990 per spese, oltre spese generali su diritti ed onorari Iva e Cpa;
 
Bergamo, 3 marzo 2003
 
Il Giudice Elda Geraci

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Trib. Siena Sent. m arzo 2003

Dispositivo di sentenza e successiva motivazione

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

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Trib. riesame Genova Ord. 7 gennaio 2003

reg. ries. 186s/02
 
IL TRIBUNALE DI GENOVA
 
SEZIONE PER IL RIESAME
 
riunitosi in camera di consiglio in data 7 gennaio 2003 nelle persone dei Magistrati:
 
dott. Nicoletta CARDINO         – Presidente
 
dott. Massimo CUSATTI           – Giudice est.
 
dott. Cristina DAGNINO          – Giudice
 
ha pronunziato la seguente
 
o r d i n a n z a
 
provvedendo sulla richiesta di riesame proposta nell’interesse di G. G. avverso il decreto del 6.12.02 con cui il P.M. presso il Tribunale di Genova ha convalidato il sequestro, eseguito dalla p.g. nei confronti dello stesso ricorrente, di cinque videogiochi – con le somme di denaro in essi contenute – relativamente all’ipotesi d’accusa di cui agli artt. 718, 719 c.p. e 110 t.u.l.p.s. – acc. in Genova, il 3.12.2002
 
 
 
Il Tribunale
 
letti gli atti trasmessi dall’Autorità procedente,
 
sentito il difensore comparso all’odierna udienza camerale,
 
o s s e r v a
 
quanto segue.
 
Va premesso che nessuna questione è stata sollevata dal ricorrente – né risulta rilevabile d’ufficio – in punto di validità del provvedimento impugnato.
 
Quanto al merito, ritiene il Tribunale che l’entrata in vigore, nelle more di questo procedimento cautelare, della legge n° 289/2002 – che all’art. 22 ha innovato la normativa anche di rilievo penale in materia di apparecchi e congegni da divertimento ed intrattenimento – imponga un preliminare raffronto fra i due testi normativi, al fine di verificare quale dei due rechi norme di precetto più favorevoli all’indagato – fermo restando che i limiti edittali di pena sono stati decisamente inaspriti dalla novella legislativa, e dunque saranno inapplicabili in esito al giudizio -. Si tratta, peraltro, di una verifica che va necessariamente condotta in concreto, cioè sulla scorta degli elementi materiali posti a fondamento del provvedimento di sequestro, e con un approccio complessivo: nel senso che risulterà più favorevole quello tra i due testi normativi che, globalmente considerato, sarà fonte di un precetto penale di portata minore, avuto riguardo alla concreta condotta a suo tempo sottesa al provvedimento di sequestro eseguito in danno di G..
 
Orbene, la citata novella legislativa ha profondamente mutato l’assetto normativo della materia degli apparecchi da videogioco, per come precedentemente interpretato dalla stessa giurisprudenza di legittimità. In estrema sintesi:
 
1.     sono state chiarite e meglio differenziate le varie categorie di apparecchi da gioco d’azzardo e da gioco lecito; in particolare, mentre è rimasta identica la nozione degli apparecchi e congegni da gioco d’azzardo, sembra essere stata notevolmente ristretta l’area dei limiti di vincita il cui superamento comporta in ogni caso la configurabilità dell’azzardo: la legge 388/2000 faceva esclusivo riferimento ai giochi da intrattenimento ed abilità di qualsiasi tipologia, laddove consentissero il prolungamento o la ripetizione della partita non immediatamente dopo la conclusione di quella precedente e per più di dieci volte; la nuova legge, per contro, qualifica come gioco d’azzardo solo quello che superi i limiti di vincita sanciti dal “nuovo” comma 6°, inerente ad una categoria di apparecchi da trattenimento ed abilità fino ad oggi non prevista: quelli che distribuiscono vincite in denaro – in precedenza sempre e comunque precluse – di valore non superiore a venti volte il costo della partita, erogate subito dopo la sua conclusione ed esclusivamente in monete metalliche, sempre che l’apparecchio non riproduca neanche in parte le regole del gioco del poker;
 
2.     è stata enucleata un’altra nuova categoria di apparecchi “elettromeccanici privi di monitor”, che distribuiscono premi consistenti in prodotti di piccola oggettistica non convertibili in denaro: si tratta di una riproduzione, con qualche ritocco, della disciplina prevista dal precedente 6° comma dell’art. 110 t.u.l.p.s.;
 
3.     è stata diversamente delineata la disciplina dei “vecchi” apparecchi da trattenimento ed abilità, coincidenti con la vasta area di tutti quelli che – muniti di monitor – non sono d’azzardo, non distribuiscono premi leciti né in denaro né in prodotti di piccola oggettistica ed infine non sono basati sulla sola abilità fisica, mentale o strategica del giocatore (scorporati, invece, dal ‘vecchio’ comma 6° ed eretti a categoria autonoma dalla lett. c) del ‘nuovo’ comma 7°). Nel dettaglio, è stato introdotto il nuovo requisito dell’attivazione solo con moneta metallica (prima prevista soltanto in relazione agli apparecchi oggi rientranti nelle categorie a) e c) dello stesso 7° comma, non anche per quelli di cui all’odierna lett. b) – in precedenza disciplinati dal ‘vecchio’ 5° comma); è stato ridotto da 1 a 0,50 € il costo di ciascuna partita; è stata confermata la possibilità di ripetere o prolungare la partita, subito dopo la sua conclusione, per un massimo di dieci volte; è stato soppresso il requisito della durata minima della partita prima prevista in 12 secondi: si tratta di un elemento che è stato riprodotto, al 6° comma oggi vigente, soltanto per i giochi da trattenimento ed abilità che distribuiscono premi in denaro;
 
4.     sono stati meglio precisati, infine, i precetti colpiti da sanzione: il precedente testo dell’art. 110 prevedeva genericamente, all’8° comma, che “i contravventori” erano soggetti a sanzione penale, mentre il vigente comma 9°, dopo avere ribadito la persistente applicabilità delle autonome sanzioni previste dal codice penale per il gioco d’azzardo, restringe l’operatività della nuova – e più grave – sanzione penale alla condotta di chi installa o consente l’uso degli apparecchi vietati in assoluto (quelli per il gioco d’azzardo, previsti dal 4° comma) o di quelli astrattamente rientranti nelle altre categorie di cui ai commi 6° e 7° ma in concreto non rispondenti alle caratteristiche e prescrizioni ivi riportate.
 
Come si vede, si tratta di un complesso intreccio di vecchie e nuove ipotesi di reato che rende estremamente ardua l’individuazione della disciplina normativa in concreto più favorevole per l’indagato, sotto il profilo del precetto penale. Ad avviso del collegio, per accertare in questa sede la sussistenza del necessario fumus di reato non resta che: identificare correttamente, alla luce di entrambe le normative succedutesi nel tempo, la tipologia degli apparecchi sequestrati; verificare quali siano gli addebiti mossi al ricorrente sulla scorta della vecchia normativa e raffrontarli con la nuova, per delinearne in tal modo l’eventuale diversità di estensione; valutare, da ultimo, il “peso” complessivo degli aspetti penalmente rilevanti alla luce delle due diverse discipline, e trarne le conclusioni sul piano interpretativo.
 
Procedendo nell’ordine, ritiene il Tribunale che gli apparecchi in questione fossero classificabili, sulla scorta della previgente normativa, come finalizzati al gioco d’azzardo, in quanto consentivano vincite pari a 300 volte il costo della partita (3000/10 bet o 6000/20 bet, in caso di cumulo dei crediti). Ed invero, al di là dell’assenza di ogni riscontro circa il fine di lucro perseguito dagli utilizzatori degli apparecchi sequestrati – in mancanza del quale non sarebbe stato possibile affermare che questi avessero “insita la scommessa” o che consentissero “vincite puramente aleatorie di premi in denaro o di altra natura” -, la più recente giurisprudenza di legittimità era orientata nel senso che ad integrare l’ipotesi di reato del gioco d’azzardo per mezzo di apparecchi elettronici, prevista dal ‘vecchio’ 4° comma dell’art. 110 t.u.l.p.s., bastasse che le vincite consentite dagli stessi fossero di valore superiore ai limiti fissati al successivo 5° comma (v., in tal senso, Cass., sez. III, sent. n° 1072 del 23.9.02, ric. Nardelli e Poggianti).
 
Si tratta di una classificazione decisamente preclusa dal nuovo testo in oggi vigente, sulla cui scorta – in base a quanto poc’anzi evidenziato al punto 1. – gli apparecchi sequestrati a G. sono da inserire tra quelli di cui alla lett. b) del nuovo comma 7° dell’art. 110 t.u.l.p.s.: quelli da trattenimento ed abilità che non distribuiscono premi, bensì consentono il prolungamento o la ripetizione della partita fino ad un massimo di dieci volte.
 
Passando all’esame degli addebiti formulabili a carico del ricorrente sulla base della vecchia normativa, ad avviso del Tribunale questi si riducono a due: la reiterabilità della partita per più di dieci volte e la durata della stessa inferiore, su tutti e cinque i videogiochi, a 12 secondi. Alla stregua nel nuovo testo normativo, invece, delle due prescrizioni resterebbe violata soltanto la prima, essendo stato abrogato – in parte qua – il suddetto limite cronologico; vi sarebbe affiancata, tuttavia, l’ulteriore violazione del precetto inerente al costo della partita, pari ad 1 € anziché a 0,50 € come prescritto ex novo (fermo restando, invece, il rispetto del requisito dell’attivabilità degli apparecchi solo con moneta metallica: nel caso di specie, quella da 2€).
 
Dal raffronto tra gli elementi come sopra evidenziati si ricava una serie di dati assai significativi ai fini che ne occupano:
 
– gli apparecchi da trattenimento ed abilità del tipo di quelli sequestrati, cioè che non distribuiscono premi in denaro, non possono più dare luogo – ancorché in via residuale, sulla scorta del rinvio normativo contenuto nel vigente 4° comma del citato art. 110 – a fattispecie di gioco d’azzardo; sembra trattarsi di una vera e propria abrogatio legis, per cui sul punto nemmeno è necessario procedere a verifiche di sorta circa la normativa più favorevole all’indagato;
 
– nondimeno, anche sulla scorta del previgente testo dell’art. 110 t.u.l.p.s. la mancanza di taluna delle caratteristiche ivi prescritte per gli apparecchi da trattenimento ed abilità  era configurata come una fattispecie di reato contravvenzionale: sicché è su questo punto che va effettuata la comparazione tra le due diverse discipline succedutesi in materia, al fine di individuare quella più favorevole al ricorrente;
 
– ora, se è vero che il limite cronologico dei 12 secondi per ciascuna partita è stato abrogato dal nuovo testo normativo, è anche vero che quest’ultimo ha introdotto due requisiti più restrittivi rispetto a quelli prescritti in precedenza: l’attivazione soltanto con moneta metallica – e non anche con banconote, com’era pacificamente ammesso in precedenza purché nel rispetto del limite di valore di 1€ per ciascuna partita – ed altresì il dimezzamento del costo della singola partita. Si tratta di connotazioni particolarmente incisive, perché attengono alle basilari modalità di attivazione dell’apparecchio e non già alla successiva evoluzione del suo funzionamento: ad avviso del Tribunale, pertanto, il nuovo precetto normativo non è applicabile nel caso di specie, in quanto la disciplina che ha introdotto riguardo agli apparecchi sequestrati risulta, nel complesso, più restrittiva e rigorosa rispetto a quella previgente; l’abrogazione del limite dei 12 secondi, invero, appare compensata e superata – contrariamente all’assunto difensivo – dall’introduzione dei predetti requisiti più restrittivi. Né è pensabile che possa “ritagliarsi” per G. una più favorevole disciplina virtuale ad hoc, estrapolando dai due testi normativi a confronto i singoli aspetti di maggiore tenuità: il raffronto va sì effettuato in concreto, ma sulla scorta dei testi normativi nella loro integrità – fatta eccezione, ovviamente, per i profili attinenti alla sanzione edittale -, non essendo consentito isolare dalla nuova disciplina, complessivamente più rigida, il solo elemento costituito dalla scomparsa del parametro cronologico della durata minima della partita (peraltro integrante un’abrogazione parziale, e dunque ben difficilmente rapportabile ad un testo previgente che, sul punto, deve ormai ritenersi definitivamente sorpassato).
 
– Va chiarito, in ogni caso, che il requisito della reiterabilità della partita per più di dieci volte è rimasto comune ad entrambi i testi normativi succeditisi in materia: pertanto, scendendo sul concreto terreno della fattispecie, a nulla rileva – se non riguardo alla sanzione edittale in futuro irrogabile nei confronti del ricorrente – l’identificazione del testo normativo applicabile. Ad ogni modo, dalla circostanza che la nuova disciplina si sia arricchita dei due nuovi requisiti di cui s’è appena detto (l’attivazione soltanto con moneta metallica ed il valore della partita pari a 0,50 €) sembra doversi ricavare che essa sarebbe comunque più sfavorevole a G., in tal caso astrattamente esposto ad un ulteriore profilo di illiceità penale – ovviamente solo virtuale, perché altrimenti connotato da efficacia retroattiva – costituito dal valore addirittura doppio, rispetto a quello in oggi consentito, delle singole partite praticabili sugli apparecchi in sequestro.
 
In tali termini, dunque, il Tribunale ritiene sussistente il fumus del solo reato di cui all’art. 110, 5° ed 8° comma, t.u.l.p.s. nel testo previgente rispetto alla recentissima novella legislativa, dovendosi escludere – per le ragioni esposte – il fumus del gioco d’azzardo.
 
Pacifica, da ultimo, è la natura di corpo del reato da riconoscere ai videogiochi in questione, trattandosi – a norma dell’art. 253 c.p.p. – delle cose mediante le quali il reato è stato commesso; e se è così, non pare necessario spingersi oltre per motivare l’ammissibilità e la stessa necessità del sequestro probatorio eseguito dalla p.g. e convalidato dal P.M..
 
In conclusione, il provvedimento impugnato dev’essere confermato, seppure in relazione alla più ristretta ipotesi d’accusa di cui sopra. Alla pronuncia fa seguito la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento incidentale.      
 
P. Q. M.
 
Visti gli artt. 309 e 324 c.p.p.,
 
c o n f e r m a
 
il provvedimento impugnato, limitatamente all’ipotesi d’accusa di cui agli artt. 2, 3° co, c.p. e 110, 5° e 8° co., t.u.l.p.s. (nel testo introdotto dal previgente art. 37, 3° co., l. 388/2000);  
 
c o n d a n n a
 
il ricorrente G. G. al pagamento delle spese del procedimento incidentale;
 
m a n d a
 
alla Cancelleria per le comunicazioni di rito.
 
Genova, 7 gennaio 2003

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Trib. Teramo Ord. 6 novembre 2002

TRIBUNALE DI TERAMO

SEZIONE CIVILE

Riunito in camera di consiglio, composto dai Magistrati:

Dott.ssa Maria Luisa Ciangola Presidente

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Trib. Torino Sez. III Sent. 30 settembre 2002

R E P U B B L I C A I T A L I A N A
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
TRIBUNALE CIVILE E PENALE DI TORINO
TERZA SEZIONE PENALE
 
Il giudice, dr. Paolo GALLO, ha pronunciato la seguente
 
S E N T E N Z A
 
nella causa penale contro
 
Tizio, (omissis)
 
I M P U T A T O
 
P) del reato di cui all’art. 615 quater comma 1 c.p. per essersi abusivamente procurato, al fine di procurare a sé un profitto o di arrecare ad altri un danno, mezzi idonei all’accesso ad un sistema telematico protetto da misure di sicurezza – segnatamente codici segreti a 14 cifre contenuti nella Value Card della Omnitel Pronto Italia S.p.A. destinati a consentire la ricarica della SIM Card della medesima società; con l’aggravante ex art. 61 n. 2 c.p. di aver commesso il fatto per porre in essere il reato di cui al capo successivo.
 
Q) del reato di cui all’art. 640 ter comma 1 c.p. per essere intervenuto, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso ex art. 81 cpv. c.p., senza diritto su programmi contenuti in un sistema informatico, in particolare per essersi procurato ed avere comunque utilizzato sulle utenze 0347/7737…, 0347/4868…, 0347/7238…, 0347/7336…, 0347/9082…, e 8721…, nella sua disponibilità, codici segreti a 14 cifre contenuti nella Value Card della Omnitel Pronto Italia S.p.A. destinati a consentire la ricarica della SIM Card della medesima società al fine di utilizzare telefoni cellulari con schede prepagate senza avere versato il corrispettivo per l’ottenimento delle schede stesse, utilizzando tali codici per accreditare gli importi delle schede su telefoni cellulari nella propria disponibilità, chiamando il risponditore automatico della società con il cellulare e digitando quindi i codici in oggetto, con conseguente accredito delle schede, del valore di £. 110.000, in tal modo procurando a sé l’ingiusto profitto costituito dal valore delle schede e del relativo servizio telefonico con altrui danno (segnatamente rimborso da parte della società di gestione di cui infra del valore delle schede prepagate ai soggetti che si erano resi legittimi acquirenti delle medesime).
 
In Torino, entrambi i reati in data anteriore e prossima al 12.11.1999.
 
In concorso con Caio ex art. 110 c.p.:
 
R) del reato di cui all’art. 615 quater comma 1 c.p. per essersi abusivamente procurato Caio, ottenendolo dal Tizio, al fine di procurare a sé un profitto o di arrecare ad altri un danno, mezzi idonei all’accesso ad un sistema telematico protetto da misure di sicurezza – segnatamente codici segreti a 14 cifre contenuti nella Value Card della Omnitel Pronto Italia S.p.A. destinati a consentire la ricarica della SIM Card della medesima società; con l’aggravante ex art. 61 n. 2 c.p. di aver commesso il fatto per porre in essere il reato di cui al capo successivo.
 
S) del reato di cui all’art. 640 ter comma 1 c.p. per essere intervenuto, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso ex art. 81 cpv. c.p., senza diritto su programmi contenuti in un sistema informatico, in particolare per essersi Caio procurato, ottenendolo dal Tizio, ed avere comunque Caio utilizzato sull’utenza 0347/8721…, nella sua disponibilità, codici segreti a 14 cifre contenuti nella Value Card della Omnitel Pronto Italia S.p.A. destinati a consentire la ricarica della SIM Card della medesima società al fine di utilizzare telefoni cellulari con schede prepagate senza avere versato il corrispettivo per l’ottenimento delle schede stesse, utilizzando tali codici per accreditare gli importi delle schede su telefoni cellulari nella propria disponibilità, chiamando il risponditore automatico della società con il cellulare e digitando quindi i codici in oggetto, con conseguente accredito delle schede, del valore di £. 110.000, in tal modo procurando a sé l’ingiusto profitto costituito dal valore delle schede e del relativo servizio telefonico con altrui danno (segnatamente rimborso da parte della società di gestione di cui infra del valore delle schede prepagate ai soggetti che si erano resi legittimi acquirenti delle medesime).
 
In Torino, entrambi i reati in data anteriore e prossima al 30.10.1999.
 
Con la presenza della parte civile VODAFONE OMNITEL S.p.A. (già Omnitel Pronto Italia S.p.A.), con il patrocinio dell’Avv. G. del Foro di Torino.
 
CONCLUSIONI DEL PUBBLICO MINISTERO: dichiararsi l’imputato responsabile dei reati ascritti, unificati dal vincolo della continuazione, e concesse le attenuanti generiche condannarsi il medesimo alla pena di mesi quattro di reclusione e 500 euro di multa;
 
CONCLUSIONI DELLA PARTE CIVILE: dichiararsi l’imputato responsabile dei reati a lui ascritti e condannarsi il predetto alle pene di legge; condannarsi altresì il medesimo al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali cagionati alla parte civile costituita VODAFONE OMNITEL S.p.A. (già Omnitel Pronto Italia S.p.A.) in misura di euro 3.500,00 ovvero in misura da liquidarsi in separato giudizio civile; condannarsi infine l’imputato alla rifusione delle spese di costituzione e rappresentanza sostenute dalla parte civile come da allegata nota;
 
CONCLUSIONI DELLA DIFESA: assolversi l’imputato dai reati di cui ai capi Q) ed S) perché il fatto non sussiste; per i reati di cui ai capi P) ed R) concedersi le attenuanti generiche, e con la diminuente del rito irrogarsi la pena di mesi uno e giorni sei di reclusione e 297 euro di multa, con la sospensione condizionale della pena.
 
M O T I V A Z I O N E
 
1) Premessa: il meccanismo di “ricarica” delle SIM cards OMNITEL mediante “value cards”. La vicenda per cui è processo non può essere correttamente compresa senza una premessa, che si reputa di basilare importanza, relativa ad alcune nozioni fondamentali sul funzionamento dei telefoni cellulari e sui loro sistemi di “ricarica”. Si tratta di nozioni derivanti in parte da massime di comune esperienza (attesa la capillare diffusione dell’uso dei telefoni cellulari nella vita quotidiana), ed in parte dalle dichiarazioni contenute nell’atto di denuncia-querela che ha originato il procedimento nonché dalle dichiarazioni rese il 30.9.2002 dal teste Celestino (responsabile del dipartimento investigazioni della OMNITEL) per quanto più specificamente attiene ai contratti di utenza stipulati con la predetta società.
 
Come è noto, ogni telefono cellulare necessita di corrente elettrica per il suo funzionamento. Tutti i telefoni cellulari in commercio sono perciò dotati di batterie ricaricabili (mediante allacciamento alla rete domestica del possessore) che assicurano l’approvvigionamento dell’energia elettrica necessaria. Non è peraltro questo il tipo di “ricarica” che assume rilievo nel presente processo. Nel linguaggio corrente, infatti, si parla, alquanto impropriamente, anche di una “ricarica” relativa alla “SIM card” di ciascun telefono cellulare: ogni apparecchio, come è noto, funziona grazie all’inserimento in esso di una piccola scheda, la SIM card, che reca in sé il numero di utenza dell’apparecchio, rappresentandone per così dire “l’anima”. Tramite questa scheda è possibile porre in atto un certo traffico telefonico, per il quale, naturalmente, l’utente deve versare alla società telefonica un corrispettivo.
 
Mentre risulta sempre meno frequente l’adozione del sistema -utilizzato normalmente per le utenze fisse- del computo delle chiamate effettuate, della loro durata e della loro distanza, con successivo addebito in bolletta del corrispettivo per esse dovuto, la prassi oggi più comunemente adottata nei contratti relativi ad utenze cellulari è la seguente: ogni possessore di cellulare stipula un contratto con una delle società che gestiscono il traffico telefonico (le più note: Telecom Italia Mobile, Omnitel, Wind, Infostrada e altre), in forza del quale egli potrà attivare un “traffico telefonico” (normalmente costituito da chiamate in uscita, essendo la ricezione per lo più gratuita) corrispondente al credito da lui previamente costituito presso il gestore.
 
Nella telefonia mobile, dunque, “ricaricare” la SIM card del telefonino (o, ellitticamente, ricaricare il telefonino) significa semplicemente accreditare alla società che gestisce il traffico telefonico una certa somma di denaro che consentirà al possessore del cellulare di mettere in atto un corrispondente traffico telefonico (traffico che varierà in funzione del numero di chiamate, della loro durata, della tipologia -verso utenze fisse o verso cellulari- ecc.).
 
Per effettuare questo tipo di “ricarica” (che, si è detto, è semplicemente un accredito di denaro al gestore del traffico telefonico) la prassi commerciale ha escogitato una serie di meccanismi i più disparati: si va dalla “ricarica” tramite “Bancomat”, alla ricarica tramite comunicazione telefonica effettuata presso i punti vendita dei vari gestori sparsi sul territorio, fino alla ricarica mediante schede acquistabili presso numerosi pubblici esercizi (per lo più tabaccherie).
 
Il sistema che assume rilevanza nel presente procedimento è proprio quest’ultimo: la “ricarica” mediante scheda acquistata in tabaccheria. Esso consta dei seguenti snodi procedurali (cfr. esame teste Celestino cit.):
 
1) il gestore (nel nostro caso la OMNITEL), mediante un apposito programma informatico, seleziona secondo la domanda del mercato un certo quantitativo di “codici”, ossia successioni di 14 cifre. L’elenco di tali codici (in sostanza, un elenco di numeri a 14 cifre) viene trasmesso (mediante supporto informatico criptato) ad una ditta che provvede a produrre altrettante tessere di cartoncino ciascuna delle quali contiene un diverso numero, coperto da una vernice asportabile;
 
2) le tessere (che la OMNITEL ha ribattezzato “Value Cards”) vengono poi vendute in tabaccheria, al prezzo di lire 60.000 o 110.000 (secondo che permettano di costituire presso il gestore un credito pari a lire 50.000 o rispettivamente 100.000 di traffico telefonico);
 
3) l’utente, acquistata la tessera, gratta la vernice che nasconde il numero a 14 cifre, venendo con ciò a conoscenza del numero stesso; indi chiama il numero telefonico 2010, mettendosi così in contatto con un risponditore automatico collegato al “sistema informatico ricariche” OMNITEL; procede poi a digitare, sul proprio apparecchio, il numero a 14 cifre che ha appreso dalla scheda acquistata: il numero digitato dall’utente viene automaticamente raffrontato dal sistema informatico con l’elenco dei codici a 14 cifre messi in commercio dalla OMNITEL: se il numero risulta esistente e ancora non utilizzato né “bloccato” per altro motivo, il sistema accredita automaticamente all’utente una “ricarica” corrispondente al valore della scheda, provvedendo contemporaneamente ad annotare informaticamente che il numero digitato è stato utilizzato.
 
In pratica, collegarsi col 2010 e digitare il codice a 14 cifre è come fornire alla OMNITEL la prova dell’avvenuto versamento della somma di lire 60.000 o 110.000 per l’acquisto della “Value Card”, ciò che dà diritto ad usufruire del corrispondente traffico telefonico. L’intera operazione, spogliata dei contenuti tecnologici, assomiglia assai da vicino a ciò che avviene in quei bar nei quali, per ottenere la tazzina di caffè, occorre esibire al barista lo scontrino attestante l’avvenuto pagamento del prezzo alla cassa: digitare il codice a 14 cifre è come rammostrare al cameriere lo scontrino.
 
Volendo poi approfondire la riflessione sulla natura delle “Value Cards”, non può sfuggire l’analogia con i titoli di credito al portatore: il possessore della “Value Card” è automaticamente possessore anche del credito al traffico telefonico da essa abilitato: quali che siano i modi con cui è venuto in possesso della scheda, egli potrà comunque “ricaricare” il proprio apparecchio semplicemente telefonando al 2010 e digitando il numero a 14 cifre appreso dopo aver grattato l’apposito campo della scheda. Si tratta peraltro soltanto di una analogia, perché nel nostro caso, a ben guardare, il conseguimento dell’accredito telefonico deriva non già dal possesso della scheda (=principio di “incorporazione” del credito), bensì dalla semplice conoscenza del numero stampigliato sulla stessa: in altre parole, per poter ricaricare il proprio cellulare non è neppure necessario entrare materialmente in possesso della “Value Card”, essendo sufficiente conoscere il numero in essa contenuto: la possibilità della ricarica è legata ad un elemento immateriale quale la conoscenza di un numero.
 
* * *
 
2) La notitia criminis, le indagini, il processo.
 
In data 12 agosto 1999 Roberto, procuratore della OMNITEL PRONTO ITALIA S.p.A., dopo aver brevemente illustrato il meccanismo di ricarica mediante “Value Cards”, denunciava alla Polizia postale di Roma che a partire dal precedente mese di febbraio, e con intensità via via crescente, nella zona di Torino e provincia si erano verificate contestazioni da parte di clienti i quali, pur avendo regolarmente acquistato “Value Cards” nei punti vendita autorizzati, non erano riusciti a ricaricare il proprio cellulare perché, digitando il codice a 14 cifre dopo aver chiamato il risponditore automatico, apprendevano che il codice era stato già utilizzato. Il denunciante sporgeva poi formale querela, esternando sospetti sugli incaricati delle società (in particolare la Alfa s.r.l. e la coop. Beta) incaricate della distribuzione delle “Value Cards” ai singoli esercenti (ipotizzando in sostanza che costoro fossero venuti abusivamente a conoscenza dei codici a 14 cifre stampigliati sulle cards prima che queste ultime venissero vendute al dettaglio). Il denunciante forniva altresì alla polizia giudiziaria un elenco dei soggetti (convenzionalmente definiti “contestatari”) che non erano riusciti a ricaricare il loro cellulare, elenco che costituiva il punto di avvio delle indagini. La Polizia Postale del compartimento di Torino provvedeva a verificare quali utenze fossero state “ricaricate” con le “Value Cards” che successivamente erano state acquistate dai “contestatari”; e dai numeri di tali utenze risaliva all’identità degli intestatari, convenzionalmente definiti “beneficiari”. Il risultato della verifica era decisamente sorprendente e assai indicativo: l’elenco dei “beneficiari”, vale a dire dei soggetti che avevano ricaricato il proprio cellulare con schede successivamente acquistate da altri, si compone quasi esclusivamente di cittadini romeni e moldavi, con rare eccezioni riguardanti italiani e albanesi (cfr. l’elenco allegato alla richiesta di indagini del P.M. in data 13.1.2000, relativo ad alcune centinaia di “Value Cards”). I nominativi più ricorrenti, in particolare, erano quelli dei cittadini romeni dimoranti in Torino Vasile (436 chiamate al 2010 per ricaricare utenze cellulari); Doinita (206 chiamate al 2010), e Constantin, alias Razvan, con 297 chiamate a fini di ricarica (non tutte le chiamate, per la precisione, si concludevano con l’effettiva ricarica, perché poteva accadere che, per un errore nella digitazione dei tasti o altro intoppo, la procedura venisse interrotta e ripetuta, potendosi pertanto avere anche due o più chiamate al 2010 per una medesima ricarica) (omissis). L’impressionante frequenza con cui, a fronte di “contestatari” sempre diversi, ricorrevano le medesime persone, oltretutto appartenenti ad un ambito geografico ben determinato e ad un’area di “marginalità sociale” (testimoniata per es. dall’uso di false generalità e confermata dai servizi di appostamento e pedinamento svolti dalla P.G.), induceva evidentemente a ritenere provata la buona fede dei “contestatari”, e contemporaneamente costituiva grave indizio di responsabilità a carico dei sopra menzionati stranieri. Restava però da comprendere quale fosse il modus operandi in virtù del quale le “Value Cards” potevano essere utilizzate una prima volta ed essere poi reimmesse nel mercato in danno dei successivi acquirenti in buona fede. La citata annotazione di P.G., a pagina 4, ci informa che “allo stato attuale delle indagini non sono emersi elementi tali da far ricondurre il fenomeno delittuoso a soggetti operanti nella catena creazione / distribuzione”.
 
A pag. 5 dell’annotazione citata la polizia postale definisce invece come “di particolare rilevanza” le informazioni fornite a verbale da tale Adobrite, beneficiaria di una ricarica abusiva. Adobrite, cittadina rumena, viene sentita a verbale il 24.11.1999 (il verbale trovasi allegato alla più volte citata annotazione): in quella sede la donna fornisce una sua giustificazione in merito alla ricarica abusiva (che dice effettuata da un suo cugino abitante in Romania, cui ella avrebbe prestato il cellulare); indi si dichiara conoscente di Vasile e di Doinita (che chiama col nomignolo di “Doina”); infine rivela agli inquirenti le modalità utilizzate dai predetti Vasile e Doinita per i loro illeciti traffici, modalità che la Adobrite avrebbe sentito esporre durante una festa di compleanno ai suoi connazionali sopra citati. Il meccanismo descritto dalla Adobrite è il seguente: si acquista regolarmente una “Value Card” e la si utilizza dopo aver evidenziato il codice a 14 cifre. Successivamente, con uno smalto per unghie color argento, si ricopre il codice e si richiude accuratamente l’involucro di nylon che contiene la scheda nuova. A questo punto ci si reca in tabaccheria e si chiede di acquistare una “Value Card”; la si riceve dal tabaccaio ma, al momento di pagarla, si simula di non avere denaro a sufficienza e si finge di restituire la scheda all’esercente. In realtà, ciò che viene restituito al tabaccaio non è la “Value Card” nuova, bensì quella già utilizzata e “rimessa a nuovo” nel modo sopra descritto. Tutta l’operazione, in buona sostanza, si ridurrebbe ad un furto con mezzi fraudolenti (artt. 624 – 625 n. 2 c.p.) della scheda nuova, che viene sostituita con quella già utilizzata senza che il tabaccaio si accorga di nulla.
 
A questo punto il gioco ricomincia, ed anche la scheda così fraudolentemente sottratta viene utilizzata, poi artigianalmente ripristinata e impiegata per un nuovo furto.
 
La Adobrite spiega infine che i suoi connazionali sono soliti portare con loro fogli di carta contenenti elenchi di cifre: evidentemente i codici utilizzabili per le ricariche, da comunicare a terzi a prezzo ridotto, senza materialmente portare con sé le “Value Cards” in cui tali numeri erano originariamente riportati.
 
A quanto risulta dagli atti, gli inquirenti hanno ritenuto che le dichiarazioni rese dalla Adobrite contro i suoi connazionali ed amici siano definitivamente illuminanti circa le modalità di abusivo apprendimento dei codici a 14 cifre. L’ipotesi del furto seguìto dall’artigianale ricostruzione della “Value Card” con smalto per unghie troverebbe altresì serio conforto, sempre secondo gli inquirenti, nei risultati delle perquisizioni eseguite dalla Polizia di Stato nel dicembre 1999, segnatamente nel rinvenimento, presso tale Joita, di “un kit per manicure contenente due forbicine, una spatolina sottile ed un eye-liner di colore grigio” (omissis).
 
Collateralmente ai diretti responsabili dei furti delle Value Cards, l’accusa ha poi individuato una serie di soggetti che -pur in assenza di prove circa il loro diretto coinvolgimento nel furto delle schede- si sarebbero resi responsabili di condotte penalmente rilevanti per avere ricaricato una o più volte il loro cellulare, ovvero quello di familiari o amici, a prezzi decisamente inferiori a quelli praticati dai rivenditori autorizzati, utilizzando codici che sono risultati successivamente reimmessi nel mercato. In questa categoria di soggetti rientra l’odierno imputato Tizio.
 
Più precisamente, a suo carico figurano i seguenti elementi di prova:
 
1) dalle registrazioni dei tabulati forniti dalla OMNITEL alle forze di polizia risulta che Tizio ha effettuato alcune ricariche delle utenze 0347/7336… (intestata a lui medesimo) e 0347/9082… (intestata alla moglie Sempronia). Si tratta di ricariche effettuate digitando numeri che in seguito sono stati vanamente utilizzati da altri utenti in buona fede (cfr. annotazione di P.G. 31.7.2000 del Compartimento Polizia Postale di Torino);
 
2) interrogato in merito alle modalità con cui avesse effettuato le ricariche delle utenze di cui sopra, Tizio ha dichiarato (cfr. verbale di sommarie informazioni 12.11.1999, spontaneamente confermato dopo l’interruzione del verbale e l’invito a nominare un difensore) che nel mese di maggio 1999, mentre si trovava ai giardini pubblici con il figlio in tenera età, era stato avvicinato da uno sconosciuto il quale si era offerto di ricaricargli il telefonino grazie ad alcuni numeri che l’individuo (di nazionalità straniera) portava con sé, annotati su un block notes; il tutto al prezzo di lire 60.000 anziché 110.000 come richiesto nei negozi autorizzati. L’imputato aveva accettato, e la ricarica era stata effettuata, in modo apparentemente regolare. Il giorno dopo il Tizio era tornato nel medesimo luogo, portando con sé il cellulare della moglie e quello del cognato Raffaele, cui aveva preventivamente chiesto se fosse interessato a ricariche a buon mercato, ricevendone risposta positiva. Aveva incontrato lo straniero del giorno precedente ed aveva effettuato le due ricariche. Infine l’imputato ha ammesso di aver proceduto ad ulteriori, analoghe ricariche nei giorni seguenti, sempre per mezzo del medesimo straniero il quale rilevava dal block notes in suo possesso i numeri da digitare per effettuare la ricarica;
 
3) infine, la descritta condotta del Tizio è confermata dalle dichiarazioni rese agli inquirenti da un suo collega di lavoro, Caio (titolare dell’utenza cellulare 0347/88721…), il quale, interrogato in data 20.9.2000, ha riferito: “ … Tizio mi richiese se volessi caricare la scheda OMNITEL cosa che accettai consegnandogli, la sera stessa alla fine del turno di lavoro, il mio cellulare con all’interno la relativa scheda. Il giorno seguente lo stesso mi riconsegnò il cellulare ed io in cambio gli consegnai lire 40.000”.
 
I risultati dell’attività di P.G., le affermazioni sostanzialmente confessorie del Tizio, e le convergenti dichiarazioni del suo collega Caio consentono di affermare con sufficiente certezza che Tizio ebbe ad avvalersi, per la ricarica di cellulari propri, di parenti e di amici, di numeri di codice della cui illecita provenienza non potè non avere contezza considerata l’identità (ignota) di chi gli offriva la ricarica, le anomale modalità di ricarica utilizzate (=digitazione di numeri annotati in un block notes) ed il prezzo pagato (pari alla metà del prezzo di mercato).
 
Tizio, unitamente ad altri undici coimputati fra cui i già citati Vasile, Doinita e Constantin, è stato pertanto citato a giudizio con decreto del P.M. in data 27.2.2002.
 
All’udienza del 13 maggio 2002 egli ha preliminarmente richiesto di essere giudicato con rito abbreviato, subordinando la richiesta all’acquisizione delle trascrizioni degli esami testimoniali (svoltisi in altro procedimento) di Paolo e Silvana, rispettivamente Ispettore di Polizia e dipendente Omnitel. In relazione a tali richieste istruttorie il P.M. ha chiesto a prova contraria l’esame di Celestino.
 
Questo giudice ha accolto la richiesta di giudizio abbreviato ed ammesso tutti i mezzi di prova indicati dalle parti, che sono stati assunti nelle udienze del 14.6 e 30.9.2002. Indi, ultimata la discussione, è stata pubblicata, mediante lettura del dispositivo in udienza, la presente decisione.
 
* * *
 
3. Il delitto di cui all’art. 615 quater c.p. (capi P ed R).
 
Ai capi P ed R della rubrica viene ascritto al Tizio (nel secondo caso in concorso morale con il Caio) il delitto di “detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici o telematici” di cui all’art. 615 quater c.p., delitto commesso allo scopo di intervenire sui dati del sistema informatico e così perpetrare il susseguente delitto di cui all’art. 640 ter c.p..
 
Al fine di meglio valutare la sussistenza degli elementi costitutivi di questa figura delittuosa, introdotta nell’ordinamento con legge n. 547/’93, sembra utile premettere alcune considerazioni interpretative di ordine sistematico, teleologico e letterale.
 
Sotto il profilo sistematico va osservato come l’art. 615 quater c.p. si ponga come norma di completamento della tutela fornita ai sistemi informatici e telematici dall’art. 615 ter c.p.. Con tale ultimo articolo (esso pure introdotto dalla l. 547/’93) si puniscono condotte di abusivo accesso o permanenza all’interno di sistemi informatici; in altre parole, condotte “di danno” qualificate dal verificarsi dell’evento pregiudizievole, individuato dal legislatore nel fatto che persona non autorizzata si introduca o permanga in un sistema informatico. Rispetto alla previsione dell’art. 615 ter c.p. la norma di cui all’articolo seguente fornisce una “tutela anticipata”, giacchè sanziona una serie di condotte preparatorie del reato di ingresso abusivo che potrebbero anche non ricadere nell’ambito del tentativo rilevante ex art. 56 c.p. (=si pensi alla mera ricezione di una chiave d’accesso, che di per sé non configura ancora un atto univocamente diretto all’ingresso abusivo in un sistema informatico). Il carattere “integrativo” dell’art. 615 quater rispetto all’art. 615 ter induce a ravvisare, alla base delle due norme, il medesimo interesse tutelato.
 
Si tocca così l’aspetto riguardante il bene giuridico protetto dalle due disposizioni. A tal proposito non può sfuggire, né esser considerato irrilevante, il fatto che il legislatore abbia collocato gli artt. 615 ter e quater nella medesima sezione del codice penale, quella relativa ai “delitti contro la inviolabilità del domicilio”, e più precisamente dopo il delitto di violazione del domicilio e dopo il delitto di “interferenze illecite nella vita privata” di cui all’art. 615 bis c.p..
 
Il senso della scelta del legislatore è evidentemente quello di considerare il sistema informatico di un soggetto alla stregua del domicilio di questi, o più in generale alla stregua di tutti gli altri spazi in cui si esplica la vita privata della persona (si parla infatti di “spazio informatico del soggetto”).
 
Da questa collocazione si trae inevitabilmente la conseguenza che l’art. 615 quater c.p. (e prima ancora l’art. 615 ter) sanziona penalmente tutte (e solo) le condotte che si sostanzino in violazioni di un ambito di riservatezza informatico di un soggetto.
 
L’esame letterale delle disposizioni si armonizza perfettamente con questo assunto, perché sia l’art. 615 ter che l’art. 615 quater colpiscono solo le condotte che -sia in modo effettivo, sia a livello di atto preparatorio- violino sistemi informatici “protetti da misure di sicurezza”. Questa specificazione normativa rappresenta dunque il cuore dell’oggetto della tutela penale.
 
Fatta questa premessa occorre verificare se nella condotta ascritta al Tizio ricorrano gli elementi costitutivi del reato contestato, e segnatamente se il codice a quattordici cifre di cui egli venne abusivamente a conoscenza sia qualificabile come “mezzo idoneo all’accesso ad un sistema informatico protetto da misure di sicurezza”.
 
Prima di rispondere al quesito, però, va messa in rilievo una significativa contraddizione insita nell’imputazione ex art. 615 quater c.p. elevata dall’accusa: poiché è indiscutibile che il Tizio ebbe in concreto a digitare il codice a 14 cifre appreso dallo straniero casualmente incontrato, ottenendo la ricarica del proprio cellulare, risulta ineludibile la seguente alternativa: o il codice a 14 cifre rappresenta realmente un mezzo idoneo all’accesso al sistema delle ricariche, e allora l’imputazione corretta avrebbe dovuto essere quella di cui all’art. 615 ter c.p. (=accesso abusivo per così dire “consumato”); ovvero non lo è, ed allora non vi è spazio neppure per la contestazione della meno grave condotta “preparatoria” di cui all’art. 615 quater c.p..
 
In verità, ad avviso di questo giudice, una volta richiamate le nozioni di carattere tecnico esposte al par. 1 pare inevitabile pervenire alla conclusione della inapplicabilità al caso di specie di entrambe le norme testè indicate: sembrano infatti far difetto, da un lato, l’idoneità del codice digitato dal Tizio all’“accesso” a un sistema informatico, dall’altro il carattere “protetto” del sistema in cui il Tizio si sarebbe introdotto.
 
Si è già spiegato, infatti, che quivis de populo può connettersi, entrare in rapporto, dialogare con il “sistema delle ricariche” OMNITEL semplicemente telefonando al 2010. In tal modo l’utente entra in contatto con il “risponditore automatico” a cui successivamente fornirà (digitandolo sul proprio apparecchio) un numero di codice a 14 cifre al fine di “ricaricare” il cellulare. Pare anzitutto evidente che la chiamata al 2010 non costituisce, neppure lontanamente, una forma di accesso al sistema OMNITEL, essendo solo un modo per dialogare ab extra con esso. E’ parimenti evidente che non esiste alcuna misura di sicurezza protettiva, essendo al contrario preciso interesse della OMNITEL che la clientela abbia un accesso il più agevole possibile al risponditore automatico, onde incrementare il traffico telefonico (di qui, per es., l’insolita brevità del numero, di sole quattro cifre).
 
Ma gli estremi dell’idoneità all’accesso ad un sistema protetto non ricorrono neppure nella successiva digitazione del codice segreto a 14 cifre. Come si è spiegato più sopra, infatti, digitando quel codice l’utente non accede in alcun modo al sistema delle ricariche, non viene abilitato a modificarne i programmi o ad alterarne i dati: egli continua a rimanere all’esterno del sistema, e semplicemente gli comunica un numero che il sistema medesimo, e non l’utente, raffronterà con l’elenco dei codici delle “Value Cards” che ha in memoria. La sfera di riservatezza informatica della OMNITEL continua a restare totalmente chiusa e inaccessibile all’utente (nel nostro caso il Tizio), il quale non può far altro che “proporre” al sistema un determinato numero per il successivo controllo informatico e l’eventuale accredito della ricarica. Per riprendere il parallelismo del bar e del caffè, proposto al par. 1, il cliente esibisce lo scontrino al barista, ma non è in grado di scavalcare il bancone e prepararsi da solo un espresso.
 
E’ forse possibile che l’opposta opinione sia stata in certa misura indotta dal fatto che il numero di 14 cifre contenuto nella “Value Card” e digitato dall’utente viene definito nella prassi come “codice”, con la medesima locuzione utilizzata nell’esemplificazione contenuta nell’art. 615 quater c.p.. Si tratta, però, di una identità meramente terminologica cui corrispondono due oggetti diversi: nel primo caso si è in presenza del numero identificativo di un credito, che potrà soltanto essere verificato dal sistema informatico al fine di procedere o no all’accredito; nel caso del codice di accesso (si pensi alle “passwords” comunemente usate per l’accesso ai personal computers) si tratta di un numero che abilita a muoversi all’interno del sistema informatico, aprire files, modificarne i dati, variarne i programmi applicativi ecc..
 
Le considerazioni che precedono debbono pertanto indurre all’assoluzione del Tizio dai reati a lui contestati sub P) ed R) con la formula “perché il fatto non sussiste”, difettando gli elementi materiali costitutivi della fattispecie di cui all’art. 615 quater c.p..
 
* * *
 
4. Il delitto di cui all’art. 640 ter c.p. (capi Q ed S).
 
Anche in ordine a tale delitto giova premettere alcune considerazioni interpretative di carattere sistematico e letterale.
 
Sotto il profilo sistematico va valorizzata la collocazione della norma subito dopo gli artt. 640 e 640 bis c.p., concernenti ipotesi di truffa, nel più generale ambito dei delitti contro il patrimonio mediante frode.
 
E’ opinione comune tra i commentatori che l’art. 640 ter c.p. sia stato introdotto allo scopo di adattare la previsione tradizionale di cui all’art. 640 c.p. alle nuove “intelligenze artificiali”, rispetto alle quali sarebbe assai arduo configurare quella “induzione in errore” che costituisce l’essenza del delitto di truffa e che, per la sua natura squisitamente psicologica, mal si adatterebbe ai casi in cui il reo, lungi dal rapportarsi con una persona fisica, “dialoga” con un sistema informatico.
 
Dal testo dell’art. 640 ter c.p. è pertanto scomparso l’elemento dell’induzione in errore ma -si badi- non è sostanzialmente venuta meno la necessità che vengano adoperati “artifici e raggiri”. Semplicemente, anche per tale requisito si è aggiornata la terminologia, prevedendosi nella nuova disposizione la “alterazione del funzionamento” del sistema ovvero l’“intervento” sui dati o programmi in esso contenuti.
 
Mentre è evidente, anche solo fermandosi al dato letterale, che l’alterazione del funzionamento costituisce una arbitraria modificazione delle condizioni in cui il sistema informatico si trovava anteriormente alla condotta delittuosa, ad analoghe conclusioni deve pervenirsi anche con riferimento all’intervento su dati o programmi (è questa la condotta oggi concretamente contestata al Tizio): il concetto di “intervento” reca infatti in sé un nucleo semantico che indica comunque una modificazione delle condizioni originarie del sistema. In tale senso si è espressa anche la Corte di legittimità (Sez. VIa, sent. 4.10.1997 n. 3067, imp. PIERSANTI), affermando, con riferimento al delitto di cui all’art. 640 ter c.p., che esso “postula necessariamente la manipolazione del sistema” (massima).
 
Sembra dunque, e conclusivamente, che il reato di cui all’art. 640 ter c.p. debba essere ricostruito come una fattispecie in cui taluno, attraverso lo strumento dell’arbitraria modificazione del funzionamento del sistema informatico o dei dati e programmi in esso contenuti, consegua un ingiusto profitto con altrui danno. Da ciò discende un importante corollario: affinché sia possibile modificare il funzionamento ovvero il contenuto di un sistema informatico occorre che si sia previamente verificato l’accesso al sistema informatico medesimo. In questo ordine di idee appare tutt’altro che casuale la contestazione dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 2 c.p. che, nel capo d’imputazione, collega i reati di detenzione abusiva di codici di accesso ai reati di frode informatica.
 
Un secondo e diverso aspetto da evidenziare è che nella struttura della fattispecie la modificazione del sistema informatico si pone come mezzo rispetto al fine dell’ingiustificata locupletazione dell’agente.
 
Gli esempi possibili, al riguardo, sono innumerevoli; si pensi al caso del giovane imprenditore che, modificando grazie a complici i dati contenuti nel “cervellone” del Ministero della Difesa, riesca ad apparire come in possesso dei requisiti per l’esenzione dall’obbligo di leva, evitando così la prestazione del servizio militare; oppure al caso del dipendente che, intervenendo sulla banca dati aziendale contenente l’indicazione delle ferie fruite dal personale, riesca ad allungare il periodo di assenza retribuita dal lavoro.
 
Tutto ciò premesso, va ora valutato se nella condotta contestata al Tizio ai capi Q) ed S) ricorrano gli elementi sin qui descritti.
 
Anche in questo caso sembra inevitabile una conclusione negativa: essa discende, in primis, dalla ritenuta insussistenza del delitto di cui all’art. 615 quater c.p. (come pure del delitto, forse più correttamente ipotizzabile, di cui all’art. 615 ter c.p.).
 
Difetta infatti, in primo luogo, il requisito dell’accesso e del conseguente intervento sul sistema informatico della OMNITEL, sistema che -come già illustrato più sopra- rimane impermeabile all’attività dell’imputato e si limita semplicemente a verificare il codice digitato e a procedere al successivo accredito, il tutto secondo il suo ordinario e consueto meccanismo di funzionamento. In altre parole, e come già esposto più volte, l’agente non si introduce nel sistema informatico ma semplicemente gli fornisce ab extra un numero.
 
L’unica modificazione che si produce nel “sistema delle ricariche Omnitel” è, come spiegato dal teste Celestino all’udienza del 30.9.2002, che il sistema medesimo, dopo aver proceduto all’accredito, “annota informaticamente” l’avvenuta utilizzazione del numero a 14 cifre digitato dall’utente, ciò che corrisponde anch’esso al normale funzionamento del sistema e soddisfa lo specifico interesse della OMNITEL a che sia evitato un eventuale successivo utilizzo del medesimo codice: “L’abusivo utilizzo dei codici di ricarica non ha provocato alterazioni sul nostro sistema informatico, ma soltanto il diniego della ricarica al successivo utilizzatore del medesimo codice”. Questa “annotazione”, dunque, non costituisce un “intervento” nel senso sopra precisato, cioè una alterazione non voluta dal titolare del sistema informatico, ma soltanto una conseguenza lecita -voluta ed attuata dalla OMNITEL- dell’uso del codice a 14 cifre.
 
In secondo luogo, tale modificazione dei dati del sistema non costituisce uno strumento finalizzato al conseguimento dell’ingiusto profitto, bensì si pone come una annotazione collaterale all’effettuazione dell’accredito e priva di nesso finalistico con tale evento lesivo.
 
* * *
 
5. Conclusioni.
 
Come esposto nelle pagine precedenti, nessuna delle due fattispecie astratte di reato individuate dall’accusa sembra corrispondere agli elementi fattuali emersi in giudizio. In termini più generali, si rileva che gli strumenti repressivi proposti dal P.M., introdotti dal legislatore per combattere forme assai raffinate di criminalità (“hackeraggio”, “pirateria informatica”) caratterizzate dall’uso di complesse conoscenze di informatica, mal si attagliano a descrivere e sanzionare condotte che, a ben guardare, consistono semplicemente nel furto, in danno di ignari tabaccai, di schede cartacee le quali sono successivamente utilizzate esattamente secondo le modalità previste dalla OMNITEL, senza alcuna deviazione rispetto a quanto programmato in termini generali dal gestore del traffico telefonico per tutta la sua clientela.
 
Si tratta, in definitiva, di una situazione del tutto analoga a quanto avviene qualora taluno, dopo aver sottratto un certo numero di biglietti nuovi di pubblico trasporto, ne faccia successivamente uso, salendo sugli autobus di linea: la rilevanza penale della sua condotta si esaurisce nell’avvenuto furto dei biglietti, senza che vi sia spazio per una ulteriore ed autonoma incriminazione degli atti di utilizzo della refurtiva. E dunque, il fatto che l’utilizzo delle “Value Cards” oggetto di furto possa sfuggire di per sé a sanzione penale non deve apparire come una anomalia o una lacuna del sistema.
 
Naturalmente, l’ordinamento penale potrebbe prevedere altri titoli di reato applicabili al caso di specie. Agli atti vi è traccia del fatto che gli organi di P.G. inquirenti ebbero ad ipotizzare in prima battuta, a carico del Tizio, il delitto di ricettazione (art. 648 c.p.), e che altresì in alcune pronunce di merito in casi analoghi (cfr. sent. Trib. Torino 23.11.2001, imp. D’AVENA, prodotta dalla difesa) è stata ipotizzata la sussistenza della contravvenzione di incauto acquisto (art. 712 c.p.). Entrambe tali ipotesi ricostruttive debbono però essere respinte nel caso oggetto del presente processo, perché sia l’art. 648 c.p., sia l’art. 712 c.p. presuppongono la materialità della cosa oggetto di ricettazione ovvero di incauto acquisto, mentre nella presente vicenda processuale risulta che il Tizio si limitò ad utilizzare informazioni (=numeri) fornitegli da uno straniero che le leggeva da un block-notes, e non ebbe mai a ricevere materialmente le “Value Cards” oggetto di furto dalle quali i numeri predetti erano stati desunti.
 
Per tutto quanto precede, Tizio deve essere assolto da tutti i reati a lui ascritti con la formula “perché il fatto non sussiste”. Ne consegue la reiezione delle domande proposte dalla parte civile.
 
P. Q. M.
 
Visto l’art. 530 c.p.p.,
 
assolve Tizio dai reati a lui ascritti perché il fatto non sussiste.
 
Visto l’art. 544 c.p.p.,
 
fissa quale termine per il deposito della presente sentenza il trentesimo giorno a decorrere dalla data odierna.
 
Torino, 30 settembre 2002
 
Il giudice
dr. Paolo Gallo
 
Per gentile concessione di www.penale.it

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Cass. Sez. IV penale Sent. 30751/02

(Presidente R. Acquarone – Relatore I. S. Martella)
FATTO
Con sentenza emessa il giorno 16.1.2001 il G.U.P. del Tribunale di Campobasso dichiarava non luogo a procedere perché il fatto non sussiste nei confronti di C. R. in ordine al reato di cui agli artt. 81, co. 2° e 314 co. 2° c.p., per essersi, in qualità di dipendente del (omissis) di Campobasso, con più azioni esecutive nel medesimo disegno criminoso, appropriato momentaneamente del telefono attivatogli in ragione del suo ufficio, effettuando sessantaquattro chiamate per motivi personali dal 31 marzo al 3 giugno 1998.
Rilevava il G.U.P. che la sporadicità e l’importo esiguo delle telefonate escludevano il configurarsi di quel comportamento “uti dominus” che vede caratterizzare anche la condotta “appropriativa” di cui alla nuova ipotesi del peculato d’uso prevista dal co. 2° dell’art. 314 c.p.
Propone ricorso il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Campobasso, deducendo che il giudicante ha arbitrariamente introdotto una sorta di “soglia di punibilità” che, in alcun modo, risulta contemplata nel disposto contenuto nella fattispecie punitiva.
Peraltro, anche il rilievo secondo cui l’art. 323 bis c.p. contempla una specifica circostanza attenuante per i casi di “particolare tenuità” del reato attesta come, in subiecta materia, il legislatore ha ritenuto meritevoli di sanzioni penali anche le condotte del pubblico ufficiale che risultano prive di peculiari connotazioni di gravità, antisocialità e riprorevolezza. Peraltro, osserva ancora il P.M. ricorrente, nel caso in esame anche i dedotti “margini di tolleranza” sono stati ampiamente travalicati; l’ imputato, infatti,non si è affatto avvalso del telefono dell’ufficio in maniera episodica, effettuando, per così dire, una telefonata ogni tanto, ma lo ha usato, al contrario, in modo sistematico, effettuando ben sessantaquattro chiamate (anche non urbane) nell’arco di circa due mesi.
DIRITTO
Il ricorso merita accoglimento nei termini di seguito precisati.
Deve rilevarsi che a seguito della novella del ’90, il delitto di peculato é previsto solo in relazione alla condotta di “appropriazione”, consistente, come noto, nel comportarsi nei confronti della cosa altrui, di cui si abbia il possesso o la disponibilità per ragioni di ufficio o servizio, “uti dominus”, attuando un’i8~ersione del titolo del possesso (cfr:, fra le altre, Cass. 10.06.1993, PM c. Ferolla).
L’introduzione, poi, della ipotesi del peculato d’uso, di ci al comma 2 del nuovo art. 314 c.p., ha identificato una condotta nella quale l’uso della cosa è affermativo di un agire “uti dominus ” senza il carattere della definitività.
Tale figura delittuosa, che si applica, secondo la giurisprudenza prevalente, solo alle cose di specie, si risolve nell’uso provvisorio della cosa in difformità della destinazione datale nell’organizzazione pubblica.
In tale fattispecie viene inquadrato, nel capo di imputazione contestato al C., l’utilizzo per chiamate private dell’apparecchio telefonico fisso in dotazione all’ufficio.
Tale inquadramento, però, non appare condivisibile.
Posto che la condotta del C. è consistita nella ripetuta utilizzazione della utenza telefonica del (omissis)  di Campobasso, va precisato che, in questo caso, si è verificata una vera e definitiva appropriazione degli impulsi elettronici attraverso i quali si trasmette la voce, atteso che l’art. 624, 2° co., c.p. dispone che “agli effetti della legge penale, si considera cosa mobile anche l’energia elettrica ed ogni altra energia che abbia valore economico”.
Se, quindi, il pubblico ufficiale e l’incaricato di pubblico servizio, disponendo, per ragione dell’ufficio o del servizio, dell’utenza telefonica intestata alla pubblica amministrazione, la utilizza per effettuare chiamate di interesse personale, il fatto lesivo si sostanzia non nell’uso dell’apparecchio telefonico quale oggetto fisico, come ritenuto in sede di merito, bensì nell’appropriazione, che attraverso tale uso si consegue, delle energie, entrate a far parte della sfera di disponibilità della pubblica amministrazione, occorrenti per le conversazioni telefoniche.
Ciò porta ad inquadrare l’ ipotesi in esame nel peculato ordinario di cui al 1 ° co. dell’art. 314 c.p., considerato che non sono immediatamente restituibili, dopo l’uso, le energie utilizzate (e lo stesso eventuale rimborso delle somme corrispondenti all’entità dell’utilizzo non potrebbe che valere come ristoro del danno arrecato) (cfr.: Cass. Sez. VI 14 novembre 2001, Chirico).
Ciò chiarito in via generale, deve osservarsi che, nel concreto assetto dell’organizzazione pubblica, viene in rilievo una sfera di utilizzo della linea telefonica dell’ufficio per l’effettuazione di chiamate personali, che non può considerarsi esulante dai fini istituzionali, e nella quale, quindi, non si realizza l’evento appropriativo suddescritto. Si tratta delle situazioni in cui il pubblico dipendente, sollecitato, durante l’espletamento del servizio, da impellenti esigenze di comunicazione privata, finirebbe, ove non potesse farvi rapidamente fronte tramite l’utenza dell’ufficio, per creare maggior disagio all’amministrazione sul piano della continuità e/o della qualità del servizio. In questi casi, verificandosi una convergenza fra il rispetto di importanti esigenze umane e il più proficuo perseguimento dei fini pubblici, la stessa amministrazione ha interesse a consentire al dipendente l’utilizzo privato della linea dell’ufficio.
Di tale realtà si rinviene un preciso riscontro formale nel Decreto del Ministro per la Funzione Pubblica del 31 marzo 1994 (in G.U. 28.06.1994, n. 149), che, nel definire (in ossequio al disposto dell’art. 58 bis del D.Lgs. n. 3 febbraio 1993, n. 29) il codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ha specificatamente previsto che in “casi eccezionali” il dipendente può effettuare chiamate personali dalle linee telefoniche dell’ufficio. Recita, infatti, testualmente la prima parte del comma quinto dell’art. 10 del cit. D.M.: “Salvo casi eccezionali, dei quali informa il dirigente dell’Ufficio, il dipendente non utilizza le linee telefoniche dell’ufficio per effettuare chiamate personali”. Statuizione nella quale, chiaramente, l’informativa al dirigente dell’Ufficio riveste natura di mero adempimento formale, che, al di là delle conseguenze disciplinari che possono derivare dalla sua violazione, non condiziona l’ autonoma e sostanziale rilevanza “derogatoria”, ai fini del discorso che qui interessa, del “caso eccezionale” (cfr.: Cass. Sez. VI, 23.10.2000, Di Maggio).
Applicando i principi illustrati al caso in esame, non può escludersene la rilevanza penale, sia pure nell’ambito della fattispecie contestata ex art. 314 2° co. c.p., non essendo stato accertato in fatto dal giudice di merito se le telefonate (che per il loro numero – sessantaquattro – in verità non sembrano rivestire né il carattere della episodicità né tantomeno quello della sporadicità), siano state fatte eccezionalmente dal prevenuto, in quanto effettivamente “compulsato da rilevanti e contingenti esigenze personali”.
Per quanto sopra va disposto l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Campobasso.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte di Cassazione
Annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Campobasso.

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Trib. Rimini Ord. 11 settembre 2002

TRIBUNALE DI RIMINI

ORDINANZA

Il giudice designato

A Scioglimento della riserva di cui all’udienza del 03/09/2002;
esaminati gli atti e i documenti di causa;

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Trib. Teramo Sez. Atri Ord. 23 luglio 2002

Il Giudice,

a scioglimento della riserva assunta in data 3.7.02, letti gli atti;

considerato in fatto che:

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GIP Milano Ord. 10 maggio 2002

Tribunale ordinario di Milano
Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari
Dott. Andrea Pellegrino
 
Ordinanza di archiviazione a seguito di opposizione non accolta 10.5.2002
Artt. 409 co.1, 410 c.p.p.
 
Nel proc. penale sopra epigrafato a carico di C.G. e F.F. entrambi difesi di fiducia dall’avv. Andrea Missaglia
Per il reato di cui agli artt. 51 n. 11, 616, 110 c.p. (in Milano il 31.7.01)Pers. Off.: A. A., dom. ex lege presso il dif. Avv. Mario Faggionato
 
Il Giudice per le indagini preliminari, dott. Andrea Pellegrino
 
Visti gli atti del procedimento,verificata la ritualità delle notifiche e degli avvisi, sentite le parti intervenute all’udienza camerale del 29.4.02, a scioglimento della riserva ivi assunta
 
OSSERVA
 
Con atto presentato presso gli uffici della Procura della Repubblica di Milano in data 7.11.01, l’avv. Mario Faggionato, nella sua qualità di difensore procuratore speciale di A. A., sporgeva denuncia querela nei confronti dei sigg.ri C. G. e R. F. (la prima, responsabile del reparto di project management della ditta (…); il secondo, legale rappresentante della predetta società) per il reato p. e p. dagliartt. 110 [1], 616 [2],61 n. 11 c.p.
[3] nonché per tutti gli altri reati eventualmente ravvisabili dall’Autorità Giudiziaria.
In fatto l’esponente deduceva che la A. in data 13.8.01 aveva ricevuto da parte del proprio datore di lavoro (…) presso la quale aveva svolto in qualità di impiegata mansioni di consultant/account sin dalla data di assunzione avvenuta l’1.9.00) raccomandata datata 6.8.01 del seguente letterale tenore: “il giorno 31 luglio u.s., la sua responsabile (C. G. n.d.r.), durante le normali e periodiche operazioni di lettura della casella aziendale di posta elettronica (cui fanno riferimento i clienti di (…), per i progetti a Lei assegnati) al fine di verificare eventuali messaggi ricevuti durante il Suo periodo di assenza per ferie, si imbatteva in comunicazioni inerenti soluzioni internet inequivocabilmente relative a progetti estranei a quelli attualmente gestiti da (.).”.
Con successiva missiva del 29.8.01 la A. veniva licenziata dalla ditta (.) per presunta violazione dei doveri inerenti al rapporto di lavoro (licenziamento che la lavoratrice impugnava con rivendicazioni economiche).
Nella denuncia-querela l’esponente deduceva che la condotta della C. e del R. presentava aspetti di rilevanza penale (art. 616 c.p.) avendo i medesimi fatto accesso alla corrispondenza della lavoratrice; corrispondenza – quella contenuta all’interno della sua casella di posta elettronica, al pari di quella effettuata per via epistolare, telegrafica, telefonica ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza – la cui segretezza è garantita costituzionalmente. Né si poteva ritenere la ricorrenza di una causa di giustificazione (esercizio di un diritto o adempimento di un dovere) dal momento che in nessun caso – con l’ovvia eccezione, nella specie non ricorrente, dell’ipotesi in cui si abbia motivo di ritenere che in essa siano contenuti elementi comprovanti fatti illeciti che interessino in modo diretto l’agente – è consentito al datore di lavoro di controllare il contenuto de
i messaggi di posta elettronica. Ad ogni buon conto occorreva evidenziare che:i messaggi inviati dai clienti erano, senza dubbio identificabili tra quelli contenuti nella casella postale (e ciò si deduceva dal fatto che la stessa società aveva assegnato tali clienti alla A. e le relative comunicazioni erano state oggetto di altri e precedenti controlli da parte della responsabile sig.ra C.);il controllo delle missive dei clienti era superfluo considerato che gli stessi erano in ferie;il controllo dei messaggi a carattere privato fu compiuto quanto la A. era in ferie evidentemente a sua insaputa e con l’avallo dei responsabili della società;non vi era alcuna fondata ragione, al momento del controllo della corrispondenza destinata alla A., da parte della società, per ritenere che in essa vi fossero contenuti elementi comprovanti fatti illeciti interessanti in modo diretto la società stessa.
 
In data 21.1.02 il P.M. avanzava richiesta di archiviazione del procedimento con la seguente motivazione: “le caselle di posta elettronica recanti quali estensioni nell’indirizzo e-mail @(…).it, seppur contraddistinte da diversi “username” d identificazione e password di accesso, sono da ritenersi equiparate ai normali strumenti di lavoro della società e quindi soltanto in uso ai singoli dipendenti per lo svolgimento dell’attività aziendale agli stessi demandata; considerando quindi che la titolarità di detti spazi di posta elettronica debba ritenersi riconducibile esclusivamente alla società. p.q.m. .omissis”.
L’opposizione risulta inaccoglibile mentre, di contro, l’archiviazione deve essere disposta ritenuta l’infondatezza della notizia di reato.
Dopo aver sgombrato il campo da impropri riferimenti alla normativa contenuta nella legge n. 675/96 relativa al ben diverso (ed assolutamente inconferente) problema della tutela del trattamento dai dati personali, una breve ma doverosa premessa s’impone.
La fattispecie dedotta avanti a questo giudice presenta aspetti di novità nell’ambito di una disciplina che solo da tempi relativamente assai recenti ha iniziato a fare la propria comparsa nelle aule giudiziarie.
Non può negarsi come la nascita e la diffusione di una nuova tecnologia precedono sempre e significativamente l’affermarsi di una cultura comune e standardizzata nell’utilizzo ad ogni livello del nuovo strumento. La preoccupazione della prima fase è solo quella di acquisire la padronanza, a volte anche solo parziale, dell’uso tecnico del nuovo mezzo o strumento senza alcun interesse (o attenzione) nel valutare le modalità di integrazione semiotica o antropomorfa dalla nuova tecnologia (cfr. il recente esempio della telefonia mobile). A questa regola non è certamente sfuggita la “posta elettronica” di internet.
In attesa di una codificazione dei comportamenti ai fini dell’omologazione e dell’accettazione di un uso standardizzato dello strumento, molte sono le problematiche che si sono affacciate con la nascita della “buca delle lettere elettronica”, tra queste dividendole per aree tematiche e con specifico riferimento all’utilizzo di tale strumento da parte del lavoratore si possono elencare le seguenti:
a) utilizzo anche per fine privato dell’indirizzo di posta elettronica da parte del lavoratore con eventuale esposizione dello stesso sulla carta da visita intestata a proprio nome;
b) possesso di un indirizzo “generalista” er cui la posta ivi indirizzata può avere come destinatario un qualunque altro dipendente con conseguente incertezza sulla “consegna”;
c) mancata individuazione del mittente (in possesso di un indirizzo in codice o con sigla) che non provvede a sottoscrivere il messaggio ovvero che non si preoccupa di farsi riconoscere rendendosi di fatto anonimo.
 
Limitando sostanzialmente la nostra analisi alla prima problematica, va detto innanzitutto come non possa mettersi in dubbio il fatto che l’indirizzo di posta elettronica affidato in uso al lavoratore, di solito accompagnato da un qualche identificativo più o meno esplicito, abbia carattere personale, nel senso cioè che lo stesso viene attribuito al singolo lavoratore per lo svolgimento delle proprie mansioni.
Tuttavia, “personalità” dell’indirizzo non significa necessariamente “privatezza” del medesimo dal momento che, salve le ipotesi in cui la qualifica del lavoratore lo consenta o addirittura lo imponga in considerazione dell’impossibilità o del divieto di compiere qualsiasi tipo di controllo/intromissioni da parte di altri lavoratori che rivestano funzioni o qualifiche sovraordinate (fattispecie che potrebbe effettivamente indurre a qualche dubbio), l’indirizzo aziendale, proprio perché tale, può sempre essere nella disponibilità di accesso e lettura da parte di persone diverse dall’utilizzatore consuetudinario (ma sempre appartenenti all’azienda) a prescindere dalla identità o diversità di qualifica o funzione: ipotesi, frequentissima, è quella del lavoratore che “sostituisce” il collega per qualunque causa (ferie, malattia, gravidanza) e che va ad operare, per consentire la continuità aziendale, sul personal-computer di quest’ultimo anche per periodi di tempo non limitati.
Così come non può configurarsi un diritto del lavoratore ad accedere in via esclusiva al computer aziendale, parimenti è inconfigurabile in astratto, salve eccezioni di cui sopra, un diritto all’utilizzo esclusivo di una casella di posta elettronica aziendale.
Pertanto il lavoratore che utilizza – per qualunque fine – la casella di posta elettronica, aziendale, si espone al “rischio” che anche altri lavoratori della medesima azienda che, unica, deve considerarsi titolare dell’indirizzo – possano lecitamente entrare nella sua casella (ossia in suo uso sebbene non esclusivo) e leggere i messaggi (in entrata e in uscita) ivi contenuti, previa consentita acquisizione della relativa password la cui finalità non è certo quella di “proteggere” la segretezza dei dati personali contenuti negli strumenti a disposizione del singolo lavoratore bensì solo quella di impedire che ai predetti strumenti possano accedere persone estranee alla società;E che detto rischio, per essere “operativo”, non debba essere preventivamente ed espressamente ricordato al lavoratore è una evenienza che può ritenersi conseguenziale alle doverose ed imprescindibili conoscenze informatiche del lavoratore che, proprio perché utilizzatore di detto strumento, non può ignorare questa evidente e palese implicazione.
Né si può ritenere che l’assimilazione della posta elettronica alla posta tradizionale, con consequenziale affermazione “generalizzata” del principio di segretezza, si verifichi nel momento in cui il lavoratore utilizzi lo strumento per fini privati (ossia extralavorativi), atteso che giammai un uso illecito (o, al massimo, semplicemente tollerato ma non certo favorito) di uno strumento di lavoro può far attribuire a chi, questo illecito commette, diritti di sorta. A questo punto, peraltro, il problema muta prospettiva perché non riguarda più l’individuazione ed il diritto di chi “entra” nel computer (e nell’indirizzo di posta elettronica) altrui avendo possibilità di leggere i messaggi di posta elettronica non specificamente a lui destinati, bensì diventa quello di “tutelare” il diritto di chi invia il messaggio (a qualunque contenuto: ossia a contenuto privato ovvero lavorativo) credendo che il destinatario dello stesso sia e possa essere esclusivamente una determinata persona (o una cerchia determinata di persone). E’ evidente che questa situazione può trovare tutela rendendo chiaro al proprio interlocutore che l’indirizzo di posta elettronica è esclusivamente aziendale (e, quindi, al di là dell’uso di intestazioni apparentemente personali del lavoratore-principale utilizzatore, lo stesso non è un indirizzo privato secondo quanto precedentemente detto); cosa che può avvenire o usando un inequivoco identificativo aziendale (indirizzato ad un destinatario virtuale) in aggiunta ad altro identificativo personale-nominativo ovvero provvedendo a segnalare adeguatamente al proprio interlocutore (destinatario reale) la circostanza del carattere “non privato” dell’indirizzo. Né può ritenersi conferente ogni ulteriore argomentazione che, facendo apoditticamente leva sul carattere di assoluta assimilazione della posta elettronica alla posta tradizionale, cerchi di superare le strutturali diversità dei due strumenti comunicativi (si pensi, in via esemplificativa, al carattere di “istantaneità” della comunicazione informatica – operante come un normale terminale telefonico – pur in presenza di un prelievo necessariamente legato all’accensione del personal e, quindi, sostanzialmente coincidente con la presenza stanziale del lavoratore nell’ufficio ove è presente il desk-top del titolare dell’indirizzo) per giungere a conclusioni differenti da quelle ritenute da questo giudice.Tanto meno può ritenersi che leggendo la posta elettronica contenuta sul personal del lavoratore si possa verificare un non consentito controllo sulle attività di quest’ultimo atteso che l’uso dell’e-mail costituisce un semplice strumento aziendale a disposizione dell’utente-lavoratore al solo fine di consentire al medesimo di svolgere la propria funzione aziendale (non si possono dividere i messaggi di posta elettronica: quelli “privati” da un lato e quelli “pubblici” dall’altro) e che, come tutti gli altri strumenti di lavoro forniti dal datore di lavoro, rimane nella completa e totale disponibilità del medesimo senza alcuna limitazione (di qui l’inconferenza dell’assunto in ordine all’asserito preteso divieto assoluto del datore di lavoro di “entrare” nelle cartelle “private” del lavoratore ed individuabili come tali, che verosimilmente contengano messaggi privati indirizzati o inviati al lavoratore e che solo ragioni di discrezione ed educazione imporrebbero al datore di lavoro/lavoratore non destinatario di astenersi da ogni forma di curiosità.).Parimenti irrilevante appare l’ulteriore rilievo che anche la posta tradizionale che presenti caratteri inequivoci di “privatezza” , non cessi di assumere detto carattere se fatta recapitare al suo destinatario sul posto di lavoro anziché al proprio domicilio dal momento che in questo caso l’inconfondibilità del carattere di privatezza-esclusività (busta chiusa con nominativo del solo destinatario) della corrispondenza non consente di operare un simile confronto!
Venendo alla fattispecie dedotta in giudizio, si evidenzia come le indagini esperite (assunzione di sommarie informazioni testimoniali rese da P. F., direttore tecnico nonché responsabile del settore informatico per la filiale italiana della (…) ) abbiano consentito di acclarare che:
– all’interno della (…) il lavoratore è depositario di un username e di una password (conosciuti dal solo responsabile tecnico) che vengono utilizzati per entrare nel sistema informatico: identificativi che il singolo lavoratore può in qualsiasi momento modificare;
– l’accesso a tutti gli strumenti aziendali (e-mail compresa) è funzionale all’occupazione del dipendente;
– la funzione svolta dagli identificativi non è quella di proteggere i dati personali contenuti negli strumenti a disposizione del singolo lavoratore bensì quella di proteggere i predetti strumenti dall’accesso di persone estranee alla società;
– è prassi comune fra i dipendenti dell’azienda fornire volontariamente i propri dati d’accesso ad altri lavoratori con funzioni societarie equivalenti onde permettere la continuazione delle relative funzioni in propria assenza;
– nel normale uso dello strumento viene anche tollerato un uso extra-lavorativo della e-mail senza tuttavia che si verifichi un mutamento della destinazione dello strumento, che è quello esclusivo della comunicazione con colleghi e clienti: in ogni caso non viene consentito, anzi è assolutamente vietato, l’utilizzo dello spazio di posta elettronica per motivi personali;
– l’indirizzo di posta elettronica dei dipendenti della società si compone, da sinistra a destra, del nome e del cognome del lavoratore seguiti dal simbolo @ e dal nome della società (…).it.
 
Tutte queste circostanze di fatto attestanti le consuetudini lavorative all’interno dell’azienda e le condotte dei dipendenti sono conformi alle premesse sopra esposte e consentono di escludere la configurabilità a carico degli indagati di fattispecie delittuose.
Fermo quanto precede, si può concludere ritenendo che:
– la A., così come gli altri lavoratori con mansioni e qualifica pari o assimilabili, era tenuta, secondo una consuetudine che non abbiamo difficoltà a ritenere universale, a segnalare (ovvero a non mantenere segreta nel caso di successiva modificazione) la propria password per consentire a qualunque altro suo collega di poterla adeguatamente sostituire durante la sua assenza dal lavoro;
– la A., nell’utilizzazione della casella di posta elettronica della società, non poteva non sapere che alla medesima, indipendentemente dalla sua presenza in società, vi poteva avere lecito accesso qualunque altro suo collega (e, ovviamente, il datore di lavoro) al fine del disbrigo delle incombenze lavorative connesse alle mansioni (invio e ricezione di comunicazioni di lavoro con colleghi e clienti).
 
Fermo quanto precede, da ultimo va detto che quand’anche – per assurdo, atteso quanto sin qui esposto – si volesse ritenere che con la loro condotta la C. e il R. nelle rispettive diverse qualità, entrando nella casella di posta elettronica in uso alla lavoratrice abbiano commesso nei confronti della stessa un’illecita intromissione in una sfera personale privata, nondimeno la configurabilità del reato di cui all’art. 616 c.p. verrebbe ugualmente esclusa sotto il profilo soggettivo attesa la totale mancanza di dolo nella loro condotta;
l’accesso alla casella di posta elettronica dell’A. è avvenuta per motivi assolutamente connessi allo svolgimento dell’attività aziendale, oltre che in assenza della lavoratrice: in una situazione, cioè, nella quale non vi era altro modo per accedere a quelle necessarie informazioni e comunicazioni che, diversamente, se non ricevute ovvero recepite con ritardo, avrebbero potuto arrecare un evidente danno (economico e non solo) per la società.
Da qui il rigetto dell’opposizione e l’archiviazione del procedimento.
 
Visti gli artt. 408 e segg. C.p.p.
 
P.Q.M.
 
rigetta l’opposizione proposta nell’interesse della persona offesa A. A. in data 14.2.02;
dispone l’archiviazione del procedimento e ordina la restituzione degli atti al Pubblico Ministero.
Manda la Cancelleria agli adempimenti di competenza.Milano, lì 10.5.2002
 
Il Giudice per le Indagini Preliminari
Dott. A. Pellegrino

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Cass. Sez. IV penale Sent. 473/02

REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
 
Composta dagli Ill.mi Sigg.

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Cass. Sez. lavoro Sent. n. 4746/02

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il pretore di Frosinone, decidendo su diversi ricorsi proposti da M. P. nei confronti della (omissis) e successivamente riuniti, dichiarava, tra l’altro (e per quel che in questa sede ancora rileva), l’illegittimità dei provvedimenti disciplinari e del successivo licenziamento intimato al ricorrente dalla suddetta società, ordinandone conseguentemente la reintegrazione nel posto di lavoro.

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Trib. Torino Sez. III Sent. 782/02

N. 23564/99 Notizie di reato
N. 2823/01 R.G. Tribunale di Torino
N. 149 Mod. 30
Sentenza del 28.02.2002
N. 782 del Reg. Sent.
Data del deposito 8 aprile 2002

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Cass. Sez. VI penale Sent. 433/02

REPUBBLICA ITALIANA
 
In nome del Popolo Italiano
 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sezione Sesta Penale
 
Composta dai signori:
 
Dott. Luigi Sansone Presidente
1. Dott. Luciano Deriu Consigliere
2. Dott. Antonio S. Agrò Consigliere
3. Dott. Francesco Serpico Consigliere
4. Dott. Giovanni Conti Consigliere
 
ha pronunciato la seguente
 
SENTENZA
 
Sul ricorso proposto da
C. V., n. XXXX il XXXXXXXX
 
Avverso l’ordinanza in data 23-30 agosto 2001 del Tribunale di Roma
 
Visti gli atti, l’ordinanza denunziata e il ricorso;
Udita la relazione fatta dal Consigliere dott. Giovanni Conti;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Mario Fraticelli, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Udito per il ricorrente l’avv. Titta Madia, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
 
Fatto
 
Con ordinanza in data 23-30 agosto 2001, il Tribunale di Roma, adito ex articolo 309 c.p.p., riformava in parte, attraverso l’applicazione degli arresti domiciliari, l’ordinanza in data 6 agosto 2001 del Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale, con la quale era stata applicata a C. V., funzionario del Ministero dell’Economia, la misura della custodia cautelare in carcere in ordine ai reati di cui agli articoli 81 cpv., 110, 615-ter, commi primo, secondo n.2, e terzo, e 61 n.2 c.p. (capo 2: commesso in Roma dal 18 dicembre 2000 al febbraio 2001) e di cui agli articoli 110, 351 c.p. (capo 3: commesso in Roma in data successiva e prossima al 18 dicembre 2000).
Più dettagliatamente, al C. veniva contestato, quanto al capo 2, in concorso con S. P., tenente colonnello dei Carabinieri, L. D., brigadiere CC. del Nucleo Radiomobile di Roma, e C. R. A., maresciallo CC. del ROS, sezione Anticrimine di Roma, di essersi introdotto abusivamente nel sistema informatico della sezione ROS di Roma delegata allo svolgimento delle indagini nel procedimento numero 16236/99 e in varie banche-dati interforza; e quanto al capo 3, in concorso con i predetti soggetti, di avere sottratto la trascrizione del verbale di interrogatorio reso da D. F. A. nel procedimento numero XXXXX/99, cosa particolarmente custodita nella sezione ROS CC. di Roma, delegata allo svolgimento delle indagini e custode del documento.
Avverso la riferita ordinanza del Tribunale del Riesame di Roma ricorre per Cassazione il C., a mezzo dei difensori, che deducono:
1) Manifesta illogicità della motivazione in punto di sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, posto che il Tribunale, trascurando le puntuali deduzioni difensive, si è basato su una mera presunzione (l’interesse del C. a conoscere il contenuto dell’interrogatorio del D. F.) per desumerne una sua condotta di istigazione nei confronti di coloro che materialmente appresero copia della trascrizione del predetto atto difensivo; essendo invece da ritenere che il semplice movente costituisce un mero indizio, non idoneo a sorreggere una misura cautelare, in mancanza di altri elementi indiziari. In particolare il Tribunale ha trascurato di considerare che il C. poteva legittimamente ottenere copia delle trascrizioni dell’interrogatorio reso dal D. F.; che tale atto riguardava una moltitudine di persone potenzialmente interessate a ottenerne copia; che coloro che materialmente si procurarono abusivamente copia dell’interrogatorio non necessariamente erano stati istigati da chi aveva interessa a conoscerne il contenuto, potendo ben avere agito a sua insaputa, per compiacerlo o addirittura per scopo intimidatorio.
2) Erronea applicazione dell’articolo 351 c.p., atteso che l’acquisizione di una mera copia di un atto (nella specie, attraverso la stampa del relativo documento informatico) non determina la sottrazione o la dispersione di questo, che rimane comunque nella disponibilità del pubblico ufficio.
3) Mancanza di motivazione in ordine alle esigenze cautelari, essendosi omesso di esporre quali specifiche esigenze imponessero l’adozione della misura custodiale, sia pure nella forma domiciliare.
 
Diritto
 
Il primo motivo di ricorso, al limite dell’ammissibilità, appare infondato. Contrariamente a quanto dedotto, il Tribunale non ha tratto gli indizi di colpevolezza in ordine al reato di cui al capo 2 da mere presunzioni, avendo fondato il suo convincimento non solo sul movente rappresentato dall’evidente interesse dell’indagato a conoscere il contenuto dell’interrogatorio del D. F. ma sulle specifiche ed obiettive risultanze delle intercettazioni di comunicazioni intercorse tra il C., il S. e il D., in ordine alle quali il ricorrente non spende parola.
In ordine al terzo motivo di ricorso deve rilevarsi la sopravvenuta perdita di interesse, essendo stato nel frattempo il C. posto in libertà con successivo provvedimento.
E’ invece fondato il secondo motivo.
La fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 351 c.p. prevede la condotta di chi “sottrae, sopprime, distrugge, disperde o deteriora corpi di reato, documenti ovvero un’altra cosa mobile particolarmente custodita in un pubblico ufficio, o presso un pubblico ufficiale o un impiegato che presti un pubblico servizio”.
Nel caso in esame è stato contestato al C. di avere in concorso con i coindagati, sottratto la trascrizione del verbale di interrogatorio reso da D. F. A. nel procedimento penale n. XXXXX/99, cosa particolarmente custodita nella sezione ROS dei CC. di Roma, delegata allo svolgimento delle indagini e custode del documento.
Tale condotta sarebbe stata realizzata attraverso l’ottenimento della stampa dell’atto predetto versato sull’archivio informatico del ROS.
Ora, benché la condotta presa in esame dalla norma incriminatrice non esclude che essa possa riguardare non solo l’originale di un atto, ma anche una copia di esso, che rilevi per la sua individualità (Cass., sez. VI, 16 marzo 1993, Chirico), il concetto stesso di sottrazione implica che una determinata res fuoriesca dalla sfera di disponibilità del legittimo detentore, che ne venga conseguentemente privato; il che nella specie non si è verificato, in quanto l’ufficio del ROS non è stato affatto privato dell’atto e nemmeno di una sua copia, trattandosi di una riproduzione su carta, teoricamente illimitata, di un file esistente su supporto informatico, rimasto intatto. In altri termini, la “copia” dell’atto non preesisteva fisicamente alla condotta di impossessamento, ma è stata ottenuta proprio tramite l’abusiva stampa del file, sicché non può dirsi che l’atto sia stato “sottratto” al pubblico ufficio, ferma restando la configurabilità del distinto reato di cui all’articolo 615-ter c.p.
 
L’ordinanza impugnata va pertanto annullata senza rinvio, limitatamente al reato di cui all’articolo 351 c.p., mentre il ricorso va rigettato nel resto.
 
P.Q.M.
 
Annulla senza rinvio l’impugnata ordinanza limitatamente al reato di cui all’articolo 351 c.p.
Rigetta nel resto il ricorso.
 
Così deciso addì 19 febbraio 2002.
 
Il Consigliere Estensore
 
Il Presidente
 
Depositato in Cancelleria VI Sezione Penale
Oggi, 27 agosto 2002

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Trib. Teramo Sent. n. 112/02

DISPOSITIVO DI SENTENZA

(Artt. 544 e segg. 549 C.P.P.)

Il Giudice dott. ALDO MANFREDI

Alla pubblica udienza del 30/01/02 ha pronunziato mediante lettura del dispositivo la seguente

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Cass. Sez. III Penale Sent. n. 5397/01

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE III PENALE

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Trib. Chieti Sent. n.1006/01

N. 1006/01 Reg. Sent. “Mon.”

N. 921/99 Reg. Not. Reato

N. 48/01 Reg. G. “U”

Data del deposito 6.12.2001

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Trib del riesame Alessandria Ord. 15 novembre 2001

TRIBUNALE DI ALESSANDRIA
 
N. 33/2001 R.G.M.C.R.
 
N. 3430/01 N.R.
 
Il Tribunale di Alessandria, in funzione di giudice del riesame, riunito in camera di consiglio, nelle persone dei signori:
 
Dott. ANTONIO MAROZZO Presidente
Dott. ROBERTO AMERIO Giudice
Dott. ERMINIO RIZZI Giudice
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei confronti di
C. D., nato in XXXXXXXXX il XXXXX, res. in XXXXXXXXXXXX
 
Il Tribunale, sciogliendo la riserva che precede , osserva quanto segue:
 
1) Il presente procedimento trae spunto da concomitante indagine instaurata presso la Procura della Repubblica di Avezzano relativamente alla cd. pirateria informatica con particolare riferimento alla riproduzione ed al commercio illecito per il tramite della rete internet di software e materiale ludico e sonoro.
 
Invero secondo quanto prospettato dalla c.n.r.n. generatrice della misura reale, la vendita del materiale illegalmente duplicato veniva proposta tramite inserzioni sul circuito internet e soprattutto su newsgroup di annunci di giochi e programmi per P.C. e veniva parimenti inviata a tutti coloro che ne facevano apposita richiesta.
 
Ancora si faceva presente, sempre nella medesima comunicazione, come la copia e la diffusione illegale del prodotto veniva realizzata in modo frammentato su tutto il territorio nazionale secondo un collaudato schema in cui il soggetto coinvolto rappresentava un semplice “nodo” nel senso cioè, che nella maggior parte dei casi, dopo aver ricevuto un supporto informatico ne realizzava ulteriori copie da distribuire attraverso un proprio portafoglio clienti realizzando profitti idonei a coprire le spese occorrenti per l’originale acquisto.
 
L’indagine in atto evidenziava, poi, come i metodi di spedizione dei pacchi postali ed il pagamento dei vaglia erano sempre state effettuate tramite spedizioni ordinarie in contrassegno postale o con accredito su c/c postale e con spedizioni in postacelere od in alcuni casi mediante corrieri espressi.
 
La cristallizzazione delle indagini preliminari si concretava attraverso l’individuazione delle varie cedole del corriere SDA e della conseguente identificazione dei soggetti “aderenti all’illegale iniziativa “.
 
Proprio in tale contesto venivano individuate nr. 8 cedole del corriere SDA attestanti l’invio di materiale informatico a C. D. al quale veniva sequestrato quant’altro potesse comprovare la sua illecita attività (computer, masterizzatore, programmi originali e duplicati etc).
 
2) Il C., dopo aver proposto istanza di restituzione del materiale al P.M., proponeva avverso il decreto di rigetto opposizione nanti al G.U. del Tribunale di Alessandria.
 
Ancora, avendo il P.M. richiesto ed ottenuto emissione di sequestro Preventivo ( nell’ambito dello stesso decreto di diniego ), il prevenuto a mezzo del proprio procuratore presentava la richiesta di riesame avverso tale ultimo provvedimento.
 
In particolare il ricorrente lamentando la carenza dei presupposti di applicazione della misura reale, sia ” quanto al fumus commissi delicti che quanto al periculum criminis “, evidenziava : in primo luogo come non corretta fosse l’ipotesi di reato elevata ai sensi dell’art. 648 C.P. posto che contestandosi l’acquisto di programmi per elaboratore ed altro materiale informatico illecitamente duplicato e quindi proveniente da delitto, si doveva più specificamente richiamare la normativa speciale introdotta dalla legge nr. 248 del 2000 ed in particolare dall’art. 16 il quale inquadrava la fattispecie nell’ambito del solo illecito amministrativo (statuente altresi la confisca amministrativa del materiale illecitamente duplicato); ed in secondo luogo come parimenti la violazione dell’art. 171 bis legge diritto d’autore presupponeva per la sua configurabilità ” l’abusiva duplicazione, per trarne profitto …. o la detenzione per scopo commerciale od imprenditoriale …”di programmi informatici.
 
Sempre il reclamante a tal proposito, faceva presente “di aver semplicemente acquistato, nell’ambito di una spiccata passione per la materia informatica, alcuni programmi in versione non originale al solo fine ludico e conoscitivo” (svolgendo lo stesso reclamante attività lavorativa incompatibile con l’utilizzazione di programmi di soluzione evoluta per l’ufficio ).
 
Infine il reclamante eccepiva pure l’insussistenza del pericolo di aggravamento delle conseguenze di reato o la commissione di reati nuovi giacchè non essendoci reato, non vi erano conseguenze oggetto di un possibile aggravamento.
 
In ultima analisi si prospettava come unica esigenza cautelare tutelabile quella già cristallizzata nel decreto di sequestro probatorio impugnato.
 
3) Tutto ciò premesso occorre preliminarmente constatare come l’organo inquirente non abbia in alcun modo esplicitato la condotta incriminatrice oggetto della disposta misura reale.
 
Infatti vengono esclusivamente menzionati gli articoli di legge asseritamente violati.
 
Secondariamente dalla disamina degli atti processuali non emergono accertamenti finalizzati ad appurare la natura e la tipologia dei programmi sottoposti a sequestro, essendosi limitato l’organo inquirente a sottoporre a sequestro probatorio prima e preventivo poi, non solo il materiale informatico acquistato tramite corriere dal C. ma altresì tutti gli strumenti correlati al loro utilizzo.
 
In questo contesto deve accogliersi la prima doglianza espressa nel corso della richiesta di riesame presentata con particolare riferimento alla violazione di cui all’art. 648 C.P..
 
Corretta appare infatti la prospettazione della difesa in cui evidenzia come l’art. 16 della Legge 248/2000 abbia in modo chiaro ed inequivoco sanzionato a solo titolo amministrativo chiunque “acquisti o noleggi supporti audiovisivi ….informatici …. non conformi alle prescrizioni della presente legge”.
 
Non solo ma con la norma citata si è finalmente giunti a chiarire come, considerata la natura del bene “oggetto di ricettazione”, si possa unicamente ritenere integrata la fattispecie ipotizzata dal P.M., allorquando la condotta materiale attenga a beni contraffatti e commercializzati come se fossero originali (in particolare si ritiene cioè che la ricettazione di materiale informatico possa sussistere solo nel caso in cui il prodotto sia contraffatto e posto in commercio come autentico).
 
In tutti gli altri casi invece considerata la natura di “res immaterialis” del bene informatico (natura che si contrappone invece al concetto di “res corporalis” proprio dell’oggetto della ricettazione), il legislatore ha ritenuto di configurare l’illecito possesso con una semplice violazione di natura amministrativa salvo che il fatto non costituisca concorso in altri reati.
 
Pertanto richiamate tutte le considerazioni della difesa sul punto deve ritenersi che con riferimento alla violazione di cui all’art. 648 C.P. non solo difettino i gravi indizi di colpevolezza richiesti ma altresì manchino i presupposti costitutivi.
 
4) Con riferimento poi alla prospettata violazione dell’art. 171 bis Legge 633/1941 si deve rilevare come in assenza di un esplicitato capo di imputazione, la condotta contestata possa essere inquadrata “nell’abusiva duplicazione, per trarne profitto di programmi per elaboratore … nella distribuzione vendita, e detenzione a scopo commerciale dei suddetti programmi …”.
 
Anche con riferimento a questa seconda ipotesi le argomentazioni della difesa sul punto appaiono convincenti.
 
Risulta infatti circostanza pacifica che il C. abbia ricevuto programmi abusivamente ed illecitamente duplicati, ma non risultano elementi, neanche a titolo indiziario, idonei a ritenere che lo stesso abbia concorso alla loro abusiva duplicazione “per trarne profitto”.
 
Inoltre la norma richiamata, individuando altre condotte penalmente rilevanti, presuppone che la detenzione di tali programmi sia finalizzata a scopo commerciale o imprenditoriale, mentre nel caso di specie la professione svolta dal C. (vedi dichiarazioni da lui rese nel corso dell’udienza camerale e non contestabili in alcun modo dalle risultanze agli atti) appare poco compatibile con l’utilizzo richiesto dalla norma di legge.
 
Ancora deve constatarsi come l’accertamento posto in essere non abbia consentito di chiarire se i programmi ricevuti dal C. siano stati duplicati, in quanto. nessun tipo di indagine sul punto è stata svolta.
 
Deve infine osservarsi come la tesi emersa dalla c.n.r. della sezione di Polizia Postale di Alessandria circa “la possibile distribuzione da parte del soggetto coinvolto di ulteriori copie dei programmi illecitamente duplicati, verso un proprio portafoglio clienti” non risulta in alcun modo suffragata da alcun debole riscontro indiziario.
 
Pertanto anche con riguardo a questa violazione di legge devono ritenersi condivisibili le osservazioni proposte dalla difesa circa la carenza dei presupposti giustificativi all’applicazione della misura reale.
 
P.Q.M.
 
Visto l’art. 324 c.p.p.;
 
revoca
 
il sequestro preventivo emesso dal GIP del Tribunale di Alessandria in data 12.10.2001.
 
Si comunichi.
 
Alessandria, 14 novembre 2001.
 
IL GIUDICE ESTENSORE                                  IL PRESIDENTE
 
Tribunale di Alessandria
Depositato in questa Cancelleria
Oggi 15 novembre 2001

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GdP Milano Sent. 8367/01

Ufficio del giudice di pace di Milano

sez. 7ª

Repubblica italiana

in nome del popolo italiano

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Trib Pescara Sent. n. 720/01

N.6188/97 R.G. notizie di reato
N°1113/01 Reg. SENTENZE
N.720/01 R.G. – Tribunale (stralciato dal n°540/00 R.G.Trib.)

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Cass. Sez. lavoro Sent. n.11445/01

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
 
La s.p.a. Autostrade ha licenziato in tronco T. G. esattore al casello di (omissis), previa rituale contestazione dell’addebito disciplinare di avere utilizzato, per la riscossione dei pedaggi, biglietti “premagnetizzati” della stazione autostradale di (omissis), mai emessi da tale stazione, e non rinvenuti nei suoi documenti di incasso.
L’impugnazione del licenziamento è stata respinta dal Pretore della sezione distaccata di Giulianova, con decisione confermata dal Tribunale di Teramo, con sentenza 22 aprile/1 giugno 1999.
Il Tribunale riteneva provato il fatto contestato, costituente giusta causa di licenziamento, sulla base dei dati risultanti dal sistema informatico della società Autostrade, il cui funzionamento veniva illustrato dai testi escussi, e minuziosamente riportato in sentenza, valutati congiuntamente con circostanze esterne oggetto di prova testimoniale.
 
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il T., con unico motivo.
 
La società intimata si è costituita con controricorso, resistendo.
 
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 C.P.C.
 
MOTIVI DELLA DECISIONE
 
Con unico motivo di ricorso il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2712, 2729 cod.civ. (art. 360, n. 3 c.p.c.); omesso esame di un punto decisivo della controversia, motivazione insufficiente e contraddittoria in ordine a punti decisivi della controversia (art. 360, n. 5 c.p.c.), censura la sentenza impugnata per aver fondato la propria decisione sull’elaborato informatico del computer centrale operante presso la sede di Firenze, di cui contestava la valenza probatoria.
 
Il ricorso non è fondato.
 
L’art. 15, comma 2, Legge 15 marzo 1997, n. 59 prevede che gli atti, dati e documenti formati dalla pubblica amministrazione e dai privati con strumenti informatici o telematici, i contratti stipulati nelle medesime forme, nonché la loro archiviazione e trasmissione con strumenti informatici, sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge, e che i criteri e le modalità di applicazione di tale nuova norma sono stabiliti, per la pubblica amministrazione e per i privati, con specifici regolamenti da emanare entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge. Il D.P.R. 10 novembre 1997, n. 513, emanato su tale base, ha disciplinato la valenza formale e probatoria dei vari tipi di documenti informatici.
Intanto esso definisce il documento informatico come la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridici. Pertanto, le informazioni fornite dal sistema informatico centrale della società Autostrade costituiscono documento informatico rappresentativo delle operazioni di incasso svolte dai vari esattori ai numerosi caselli autostradali.
La dottrina distingue tra i documenti elettronici in senso stretto, e cioè quei documenti memorizzati in forma digitale e non percepibili se non per il tramite degli elaboratori, e i documenti elettronici in senso ampio, intesi come prodotti normalmente cartacei formati tramite l’elaboratore.
La distinzione fondamentale operata dal Regolamento citato, ai fini della presente causa, è tra: a) documento informatico sottoscritto con firma digitale a doppia chiave asimmetrica (artt. 4, 5, 10), il quale integra il requisito legale della forma scritta, anche ai fini dell’art. 1325 n. 4 e 1351 cod.civ., ed ha conseguentemente l’efficacia probatoria della scrittura privata ai sensi dell’art. 2702 cod.civ.; b) documenti informatici, come quello rilevante in causa, privi di firma digitale, i quali hanno l’efficacia probatoria prevista dall’art. 2712 cod.civ. (art. 5, comma 2), come già ritenuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza, nel senso che essi vanno ricondotti tra le riproduzioni fotografiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica (ed ora elettronica) di fatti e di cose, le quali formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime.
Nella interpretazione ed applicazione di tale norma, occorre tenere presente il consolidato insegnamento di questa Corte, secondo cui il disconoscimento della conformità di una delle riproduzioni menzionate nell’art. 2712 cod.civ. ai fatti rappresentati non ha gli stessi effetti del disconoscimento previsto dall’art. 215, comma secondo, cod. proc. civ., della scrittura privata, perché, mentre quest’ultimo, in mancanza di richiesta di verificazione e di esito positivo di questa, preclude l’utilizzazione della scrittura, il primo non impedisce che il giudice possa accertare la conformità all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni (Cass. 12 maggio 2000 n. 6090, in tema di copie fotostatiche; Cass. 26 gennaio 2000 n. 866 e Cass. 5 febbraio 1996 n. 940, in tema di copie fotografiche, Cass. 22 dicembre 1997 n. 12949 in tema di tabulati informatici riepilogativi di retribuzioni, Cass. 8 luglio 1994 n. 6437 in tema di dischi cronotachigrafi; Cass. 10 settembre 1997 n. 8901 sugli oneri probatori dell’utente che contesti la corrispondenza al proprio traffico telefonico delle risultanze del misuratore di centrale).
Questa Corte ha altresì precisato che le norme del codice civile sul disconoscimento della conformità all’originale di copie fotostatiche non autenticate di una scrittura si applicano solo quando questa sia fatta valere come negozio per derivarne direttamente e immediatamente obblighi, e non anche quando il documento sia esibito al solo fine di dimostrare un fatto storico da valutare nell’apprezzamento di una più complessa fattispecie, restando in tal caso il giudice libero di formarsi il proprio convincimento utilizzando qualsiasi circostanza atta a rendere verosimile un determinato assunto, come qualsiasi altro indizio, purché essa appaia grave, precisa e concordante (Cass. 25.1.1999 n. 659).
Infine le norme poste dal codice civile in materia d’onere della prova e di ammissibilità ed efficacia dei vari mezzi probatori, attinenti al diritto sostanziale, vanno correlate con quelle processuali relative al giudizio di, Cassazione; poiché la loro violazione dà luogo ad “errores in iudicando”, e non in “in procedendo”, il ricorrente interessato a fa valere nel giudizio di Cassazione la violazione di dette norme ha l’onere di indicare dettagliatamente gli elementi necessari per la valutazione delle censure mosse al riguardo, specificando il contenuto delle prove poste dal giudice “a quo” alla base della sentenza impugnata e i motivi della loro inidoneità legale a fornire il supporto probatorio alla decisione adottata, specificando le ragioni della contestazione – disconoscimento della sottoscrizione, contestazione della conformità della copia all’originale, ecc. – nonché del modo e dell’occasione della medesima, ai fini della valutazione della sua fondatezza, ritualità e tempestività (Cass. 4 febbraio 2000 n. 1247).
Questa Corte ha più volte ritenuto corrette le decisioni di giudici di merito, affermative della legittimità del licenziamento disciplinare di lavoratori dipendenti, che presupponevano, in maniera espressa o implicita, la questione della valenza probatoria di sistemi informatici (Cass. 24 maggio 1999 n. 5042 e Cass. 11 febbraio 2000 n. 1558, relative ad esattori della società Autostrade, per inadempienze accertate con le registrazioni informatiche; (Cass. 20 gennaio 1998 n. 476, in tema di inadempienze di dipendente bancario risultanti dal sistema informatico). In tali occasioni questa Corte ha ribadito il proprio insegnamento secondo cui la prova per presunzioni è dalla legge considerata come prova completa, ed è utilizzabile anche per considerare assolto l’onere probatorio in tema di motivi del licenziamento, sempre che sia fondata su un fatto notorio ovvero acquisito alla causa con i normali mezzi istruttori (Cass. 20 gennaio 1998 n. 476 cit., 2428/1971, 419/1983, 3198/1987, 1843/1995).
Nel caso di specie il Tribunale non ha basato la propria decisione solo sul documento informatico risultante dall’elaborato centrale, dotato peraltro di un programma di autodiagnosi continua, ma su una serie di circostanze esterne di riscontro, riferite da numerosi testi, tra le quali, con valore assorbente e decisivo, quelle che nella stazione di presunta emissione dei biglietti premagnetizzati, (omissis), erano stati sottratti 150 biglietti, dei quali 34 risultati incassati dal T.; che nel tempo presumibilmente occorrente per percorrere la distanza tra il casello di (omissis) e quello di (omissis), dove operava il T., distante pochi chilometri, non risultavano emessi tali biglietti; che le irregolarità contabili afferivano esclusivamente al T., seguendolo nei vari turni e sulle varie piste o porte alle quali era addetto.
La scrupolosa istruttoria (con puntigliosa ricostruzione del modo di funzionamento del sistema informatico centrale della società Autostrade e con audizione di numerosi testi su di esso e sulle circostanze esterne ad esso) e motivazione del giudice del merito non merita le generiche censure del ricorrente (vedi Cass. 4 febbraio 2000 n. 1247 cit. supra) e va confermata, perché coerente con il principio di diritto enunciato nel corso della motivazione, e che si può riassumere nei seguenti termini: in tema di licenziamento per giusta causa, i dati forniti da un sistema computerizzato di rilevazione e documentazione possono costituire, ai sensi dell’art. 2712 cod.civ., e dell’art. 5, comma 2; D.P.R. 10 novembre 1997, n. 513, prova del fatto contestato, ove sia accertata la funzionalità del sistema informatico e le risultanze di esso possano assurgere a prova presuntiva congiuntamente a circostanze esterne ad esso, altrimenti provate.
 
Il ricorso va pertanto respinto.
 
Le spese processuali seguono la soccombenza e vengono liquidate in L. 50.000 oltre L. tre milioni per onorari di avvocato.
 
PER QUESTI MOTIVI
 
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del presente giudizio liquidate in L. 50.000 oltre L. tre milioni per onorari di avvocato.
 
Depositata in Cancelleria il 6 settembre 2001.
 

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Trib. Spoleto Sent. n. 154/01

N.B. l’originale della sentenza è leggibile conmolta difficoltà quindi la trascrizione potrebbe contenere errori o omissioni che, però non limitano la comprensione del testo

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Trib. Monza Ord. 26 maggio 2001

TRIBUNALE DI MONZA

ORDINANZA 26 MAGGIO 2001

dott. Danilo Galletti
Cybersearch. / Francesca Sansone

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Cass. Sez.VI Penale Sent. 21206/01

(Presidente P. Trojano – Relatore G. Ambrosini
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Tribunale di Bologna con ordinanza 4.12.2000 annullava l’ordinanza 21.10.2000 del G.I.P. del Tribunale di Modena applicativa degli arresti domiciliari a G. R. limitatamente al reato di cui all’art.416 c.p. e la confermava relativamente ai reati di cui agli artt.3 e 4 L.20.2.1958 n.75.
“Medio tempore” – tra l’ordinanza applicativa della misura cautelare (21.10.2000) e la decisione di annullamento parziale relativa al solo reato associativo (4.12.2000) – con ordinanza 20.11.2000 il G.I.P. disponeva la liberazione del G. per tutti i reati contestatigli, essendo venute meno le esigenze cautelari relative all’inquinamento probatorio.
Il G., secondo l’originaria accusa, era indagato:
a) di concorso esterno nell’associazione diretta all’agevolazione all’ingresso clandestino di stranieri nel territorio nazionale, di riduzione in schiavitù, di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione e altri reati, per le consulenze prestate (oltre l’attività professionale legale), agli associati ad essa;
b) di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione di C. F., per aver fatto da mediatore per l’acquisto di un immobile che i suoi mandanti (i fratelli G. S. e G. S.), sfruttatori della donna, intendevano destinare all’esercizio del suo meretricio, e per aver consigliato agli stessi sfruttatori di far allontanare temporaneamente la donna dalla città, perché raggiunta da foglio di via obbligatorio (con relativa espulsione dallo Stato).
L’ordinanza impugnata respinge preliminarmente l’eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche in quanto estranee all’attività professionale del G. e comunque effettuate sull’utenza del suo interlocutore, l’indagato G. S.
Per quanto concerne il concorso esterno nel reato associativo esclude la sufficienza di indizi nel senso che gli apporti professionali dati a ciascun associato non consentono di verificare un comportamento unitario volto a favorire la struttura criminale.
Per quanto concerne i reati di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione fonda gli indizi essenzialmente sul tenore delle telefonate intercettate.
Ricorre il P.M. per manifesta contraddittorietà e illogicità dell’ordinanza e violazione dell’art.416 c.p. per quanto concerne l’elemento soggettivo del reato.
Ricorre la difesa dell’indagato, ai soli fini di cui all’art.314 c.p.p., per violazione di legge essendo stata esclusa dal Tribunale la rilevanza di fatti sopravvenuti e non essendosi valutato, una volta escluso il reato associativo, il permanere di esigenze cautelari; per violazione degli artt.103, c.5, e 271, c.2, c.p.p. in relazione alle intercettazioni telefoniche; per mancanza di motivazione in ordine ai sufficienti indizi di colpevolezza; per violazione dell’art.104, c.4, c.p.p. in relazione al divieto di comunicare con il difensore.

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Trib Monza Sez. staccata Desio Ord. 14 maggio 2001

… omissis …

1. – Sulla carenza di legittimazione attiva
I convenuti hanno eccepito il difetto di carenza di legittimazione attiva della ricorrente, osservando che il marchio “Doctor Glass” risulta essere stato registrato non dalla Doctor Glass Group s.r.l., bensì dalla “Vetri Auto Piacenza di Ivan Rossi & C. s.a.s.”.
L’eccezione è stata superata dalla ricorrente producendo il contratto col quale la “Vetri Auto Piacenza di Ivan Rossi & C. s.a.s.” in data 22 gennaio 1998 ha concesso in licenza esclusiva d’uso alla Doctor Glass Group s.r.l. il marchio in questione.
Nessun pregio ha l’ulteriore eccezione dei convenuti, secondo i quali il contratto di cessione di marchio dovrebbe considerarsi nullo in quanto non accompagnato dalla cessione dell’azienda. Come è noto, infatti, il d.lgs. 4 dicembre 1992, n. 480 ha modificato il disposto dell’art. 15 Legge Marchi rendendo possibile la cessione del marchio separatamente dall’azienda e ponendo come unica condizione che tale cessione non comporti inganno nei caratteri dei prodotti o dei servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico. Inganno che nel caso di specie è stato solo ventilato dai convenuti in sede di discussione orale, ma non è supportato da alcuna circostanza di fatto idonea a suffragarlo.

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Sentenza TAR Lazio 28-2-01 – Tedeschini vs CNR

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Trib Roma Sent. 15 febbraio 2001

TRIBUNALE PENALE DI ROMA
GIUDICE MONOCRATICO
DR. G.FRANCIONE SENTENZA

– art. 425 c.p.p.- 

MOTIVI DELLA DECISIONE

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Sent. Tribunale di Roma 15-2-01 (Stato di necessità e vendita di software abusivo)

Per gentile concessione di Sententiae

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Ord. Tribunale di Roma 18-01-2001

Tribunale Ordinario di Roma
Ordinanza del 18 gennaio 2001

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