L’Europa, l’Italia e il brevetto sul software

Linux&C n.44

L’Europa, l’Italia e il brevetto sul software
di Andrea Monti

Il 21 e 22 dicembre scorsi la riunione del Consiglio dei ministri europei competenti in materia di caccia e pesca (si, avete letto bene, ministri competenti su caccia e pesca) avrebbe dovuto approvare la “posizione comune” che poi si sarebbe tradotta – praticamente senza più modifiche – nella direttiva comunitaria vera e propria e poi nelle singole normative nazionali di recepimento.
Ma come è possibile, ci si potrebbe chiedere, che una decisione di questa importanza sia presa da chi, con tutto il rispetto, si occupa di quote latte e specie in via di estinzione?
Possiamo solo provare a immaginare le motivazioni che hanno portato a questa scelta, ispirata chiaramente da quelle multinazionali extracomunitarie che moltiplicherebbero, così, di svariati ordini di grandezza i propri introiti. E possiamo ipotizzare che, nei corridoi dei “palazzi del potere” comunitari, aleggiassero intimazioni tipo: “Il software deve essere brevettabile e la direttiva deve passare in fretta: poche storie e non rompeteci l’anima con queste menate dell’open source.” Anche se non in questi termini, qualcosa di molto simile deve essere stato suggerito dai lobbisti nei “corridoi” quando si sono resi conto che i tentativi di far passare il provvedimento per le vie ordinarie erano tutti finiti male. E dunque, qualche esperto di ingegneria parlamentare al loro servizio ha scovato nelle pieghe delle procedure di approvazione delle direttive un escamotage o meglio una “sveltina” per far passare il tutto “sottobanco”: far approvare la posizione comune da un Consiglio dei ministri che non ha competenze in materia di proprietà intellettuale (o che, magari, è più “malleabile” di altri).

Ma il solo fatto che ci si provi in questo modo, in fretta e furia – scrive Manlio Cammarata su Interlex – “la dice lunga sulla coscienza sporca di chi sostiene la tesi della “brevettabilità del software”. Alcuni si sono espressi contro, altri hanno detto che occorre una riflessione più attenta. Esattamente il contrario di quello che si cerca di ottenere con il colpo di mano del COREPER: evitare gli approfondimenti e le discussioni che porterebbero a una profonda riscrittura, se non alla bocciatura del testo. Di fatto la “posizione comune” non esiste, al di là dei sofismi della burocrazia.”.
E, come al solito, l’Italia non perde l’occasione per distinguersi negativamente: in un comunicato del 18 maggio 2004 il Ministro per l’innovazione, Lucio Stanca, prima dichiara che quella in discussione è “una direttiva contraria non solo agli interessi tipici italiani e delle piccole e medie imprese del settore informatico, ma che, in generale, crediamo che più si consente il ricorso al brevetto nel software e più si limita il suo sviluppo” e poi, alla prova dei fatti, invece di votare contro il Governo italiano si astiene (stendiamo un pietoso velo, invece, sul comportamento dell’opposizione).

Non si è tirato indietro, invece, il Governo polacco che, nella persona del Ministro della scienza e dell’informatizzazione, Wlodzimierz Marcinski ha ottenuto un rinvio tecnico della discussione chiedendo maggior tempo per poter formulare una posizione più articolata e sventando, in pratica, il “golpe”.
Questo intervento in “zona Cesarini” ha fruttato alla Polonia la riconoscenza di tutti coloro che desiderano avere una proprietà intellettuale a “misura d’uomo” e non di multinazionale, ma non bisogna abbassare la guardia. La politica è, notoriamente, “arte del possibile” e gli amici di oggi possono diventare gli avversari di domani.

Dunque il “njiet” polacco alla brevettabilità del software potrebbe trasformarsi in una “merce di scambio” riguardo ad altri settori a maggiore priorità per questo paese e dunque trasformarsi, se non in un “si” quantomeno in una astensione o in una “assenza strategica” che al momento opportuno potrebbe far pendere la bilancia a favore dei “proprietari”. E che una prospettiva del genere sia inaccettabile, per il futuro tecnologico e produttivo dell’Europa è fuori di dubbio perchè, come rileva Nicola Palmieri “Gli Stati Uniti hanno attualmente il dominio del software. Finché l’Europa non avrà una “sostanza” di software almeno pari a quella dell’America, essa non avrebbe comunque ragione di favorire gli “inventori” di software americani. Anzi, ha tutto l’interesse a lasciare che gli americani copino le poche “invenzioni” di software europee, e che gli europei copino le molte “invenzioni” di software americane. Ma, come detto sopra, questo è un discorso al quale non si deve neppure arrivare prima che sia stato stabilito se, in base ai principi fondamentali delle leggi sui brevetti, il software possa o no essere brevettato.”.

E infatti, proprio questo è il punto: stabilire se il software possa essere brevettato oppure no.
Se ci si limitasse, come molti purtroppo fanno, a contrastare la brevettabilità del software con i soli argomenti economici (“no al brevetto perchè l’Europa è “infopovera”) si affermerebbe il principio che una volta risolti i problemi di diesguaglianza informatica con gli Stati Uniti, nulla vieterebbe di “rimettere mano” alla questione brevetti.
In altri termini: se dico che il software non va brevettato perchè altrimenti gli USA ne trarrebbero un enorme vantaggio sull’Europa, affermo che l’unica ragione per non brevettare è che “ancora non possiamo permettercelo”. Quindi, una volta che l’Europa fosse diventata una “potenza del software” nulla osterebbe all’imposizione dei brevetti, stabilendo la prevaricazione delle grosse imprese europee nei confronti delle piccole realtà. In pratica, si il conflitto non sarebbe più fra UE e USA, ma fra singoli paesi dell’Unione. E, in ogni caso, nulla vieterebbe poi ad altri paesi (non solo gli USA, ma anche la Cina, per esempio) di “colonizzare” l’ufficio europeo dei brevetti.

Ci sono, al contrario, delle ragioni molto serie per non utilizzare lo strumento del brevetto nei confronti del software e che dipendono dalla natura stessa del software.
Lo sviluppo di una killer-application, di framework, di librerie e via discorrendo non passa necessariamente attraverso gli investimenti miliardari in ricerca e sviluppo che caratterizzano, per esempio, la ricerca farmaceutica o industriale. La storia dell’informatica è piena di software di successo che non sono stati realizzati secondo le logiche produttive classiche dell’industria. Ed è proprio questa la ricchezza economica e commerciale dell’informatica del software: la possibilità di accedere a una base di sviluppatori veramente enorme. Cosa che non sarebbe più possibile una volta che venisse imposto il brevetto, specie perchè questi ultimi sono spesso utilizzati come strumento per frenare, piuttosto che promuovere l’innovazione. Tanto per fare un esempio, se una piccola azienda ha un brevetto vincente rispetto alla tecnologia di un concorrente più forte, quest ultimo può (è accaduto) acquistare il brevetto e poi buttarlo nel dimenticatoio in maniera perfettamente legale. Certo, si può dire che questo è un uso distorto della protezione riservata alla proprietà intellettuale, ma non cambierebbero i termini della questione: non tutti possono permettersi un centro di ricerca e sviluppo, chiunque può prendere un PC e fabbricarsi una chanche di successo.

Perchè a un programmatore dovrebbe essere negata questa opportunità?

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