La AI-generated Art è la fine della creatività. Ma non nel senso di cui tutti parlano

Pochi giorni fa, in Colorado (Usa), una persona avrebbe vinto un concorso artistico partecipando con un’immagine generata da – manco  a dirlo – una “intelligenza artificiale”. Non è certo il primo caso di “opere d’arte” create senza l’intervento umano – basta pensare al Next Rembrandt – e ai tanti esempi di text-to-image utilizzati per dimostrare l’efficienza di algoritmi e piattaforme. Anche in questo caso, i commenti sono stati ispirati dalla sindrome di Frankenstein, il terrore che la “creatura” si rivolti contro il suo “padrone”. In altri termini, si teme per la “morte della creatività” e, più prosaicamente, per la perdita di posti di lavoro nel settore della grafica, della fotografia e dell’arte. La preoccupazione è senz’altro fondata, ma l’incubo che presagisce non è colpa dell’intelligenza artificiale di Andrea Monti – inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech

Già software e plugin per il digital painting e le piattaforme che offrono fotografie e illustrazioni in stock a prezzi modici – o addirittura gratis, come fa Unsplash –  avevano dato un bel colpo al settore. Immagini pittoriche o quasi-pittoriche, grafiche stilizzate o fotografie iper-realistiche sono già una presenza consolidata nel mercato dell’immagine (più o meno) artistica.

E poi, perché pagare la foto scattata da un professionista per illustrare una notizia, quando si possono prendere le orribili immagini verticali scattate con telefonini che, absit injuria verbis, “rivaleggiano con le reflex”, diffuse su qualche profilo social? A che serve un “autore”, se non si è disposti a pagare il frutto dell’impegno e della sensibilità di una persona perché le “creazioni” sono diventate una commodity, e ciò che conta è accompagnare (o meglio, scompagnare) un testo e un’immagine?

Le applicazioni di text-to-image si inseriscono perfettamente in questo contesto dove non sono necessarie competenze tecniche o cultura artistica per realizzare il prodotto finito. Basta avere una fantasia fervida o descrivere scenari paradossali, aspettare che il software faccia il lavoro muscolare e poi esporre l’opera in attesa che qualcuno la trovi “bella” o che qualche giornalista scriva l’ennesimo pezzo su quanto è brava – o pericolosa – l’intelligenza artificiale.

Ma, come dovrebbe essere oramai chiaro, non sono le applicazioni di text-to-image a rappresentare un pericolo per la creatività. Ciò che la mette a rischio è, invece, la trasformazione dell’atto creativo in prodotto da scaffale e la trasformazione dell’artista in produttore. Servono oggetti di pronta disponibilità, ad alto tasso di obsolescenza e da consumare rapidamente, in modo da sostituirli con il prossimo nella lista, senza farsi troppi problemi o porsi chissà quali domande.

Anticipando la conclusione di questo articolo, in realtà l’industrializzazione dei contenuti non è un problema in quanto tale. Se – come pure alcune correnti critiche teorizzano – l’opera d’arte si oggettivizza rispetto al suo creatore, ciò che conta è solo ed eslcusivamente la relazione diretta fra la creazione e lo spettatore. Citando Nino Frassica, non è bello ciò che è bello, ma che è bello che è bello che è bello… Quindi è del tutto irrilevante il “come” sia stata realizzata un’opera perché l’unica cosa che conta è se piace a chi fruisce del quadro, della musica, del testo.

Questo approccio, non privo di fondamento, è il presupposto della prevalenza del copyright sul diritto d’autore, cioè dello sfruttamento economico di un oggetto sulle ragioni che hanno spinto l’artista a realizzarlo. Una volta sganciata l’opera dalle ragioni che ne hanno motivato la creazione, tutto può andare, anche le immagini prodotte in modo del tutto automatizzato.

Al netto delle esagerazioni intellettualistiche e radical-cafon-chic che portano a dare valore (economico) a delle semplici “croste”, un’opera d’arte ha senso perché è il frutto del travaglio interiore dell’artista. Queste opere non saranno mai sostituite da un procedimento automatizzato e avranno sempre una propria dignità autonoma rispetto a esercizi meccanici e meccanizzati. Tuttavia, non c’è nulla di male nel riconoscere valore estetico a concettualizzazioni o all’attribuzione di senso a un’immagine che, intrinsecamente, non ne ha.

Se, infatti, ciò che conta non è l’opera in sé ma i criteri individuali sulla base dei quali la si considera “arte”, è chiaro che, come il “bello”, il problema del text-to-image è nell’occhio – o meglio, nella cultura – di chi la guarda.

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