Dati, tra il feticcio della privacy e regole antidiluviane

“Saremo lieti di cooperare, non appena ci verrà notificato il prescritto provvedimento, come per legge”. Questa è la frase che, per oltre quindici anni, ho utilizzato quando lavoravo per uno storico (e non più attivo) operatore di telecomunicazioni rispondendo alle richieste di acquisizione dati provenienti da svariati uffici di polizia. “Per urgenti indagini” inviavano prima semplici fax e poi email, Pdf senza firma digitale ma, soprattutto, senza alcun provvedimento di pubblici ministeri o giudici per le indagini preliminari di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech

La risposta, “saremo lieti ecc. ecc.” provocava reazioni abbastanza scomposte. Alcuni “preannunciavano” (come peraltro sarebbe stato loro dovere) di “venire di persona”, altri si stupivano di una risposta del genere “perché solo voi fate tutte queste storie” altri ancora — nel corso del tempo, sempre di più a dire il vero — cominciavano a inviare le richieste rispettando alla fine le regole del codice di procedura penale. 

La tendenza ad acquisire dati in modo abbastanza spiccio “perché non abbiamo tempo da perdere” non si è fermata. Ogni tanto, specie quando ci sono incidenti di un qualche rilievo, arrivano richieste di informazioni su “traffico anomalo” proveniente da un determinato IP o sulla dinamica di fatti per i quali non è stata presentata querela e dunque sui quali non si possono fare indagini, nemmeno di iniziativa.

Vista da questa parte dell’Atlantico, quindi, fa sorridere di un riso amaro lo sdegno delle “vestali della privacy” provocato dalla notizia secondo la quale Google e Amazon potrebbero consegnare alle forze di polizia, in casi di emergenza, dati provenienti dai loro device.

Ai sostenitori no matter what del diritto a bloccare le indagini di polizia in nome dei “diritti individuali” va ricordato che in una democrazia occidentale i processi penali offrono garanzie precise sul rispetto dei diritti delle persone. Non c’è privacy che tenga quando si tratta di assicurare un colpevole alla giustizia o scagionare un innocente dall’accusa di avere commesso un crimine e, in ogni caso, non tutti gli strumenti “invasivi” sono utilizzabili per ogni tipo di indagine. Che poi, nella pratica, non sia sempre così è un altro discorso, ma non cambia la sostanza del ragionamento.

Ecco perché da avvocato difensore non posso arretrare di un millimetro di fronte alla richiesta di raccogliere dati — o elementi di prova di qualsiasi altro tipo — senza il rispetto delle regole procedurali. Si chiama giusto processo ed è in Costituzione, altro che privacy.

Allo stesso tempo, da giurista, non posso biasimare il carabiniere o l’agente di polizia sulle cui spalle si ferma il barile della necessità investigativa sottoposta a regole antidiluviane che rendono complesso e costoso acquisire correttamente i dati. Stretti, schiacciati fra la necessità di ottenere il risultato e la burocrazia delle forme si arrangiano come possono. A volte va loro bene, a volte no. Tanto, poi, se ne parlerà al processo.

La reazione pavloviana dell’invocare l’attentato alla privacy è sbagliata e pericolosa perché distrae dalle questioni reali. Invece di portare in processione il feticcio della privacy ogni volta che ci sono dei dati di mezzo, sarebbe piuttosto il caso di chiedersi cosa non va — oggi — nelle regole delle indagini criminali e cosa si può fare per renderle adeguate ai tempi e al rispetto dei diritti nel processo.

Questi si, veramente, fondamentali.

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