La visione di Enrico Mattei e la sicurezza nazionale

L’indipendenza tecnologica alla base della sicurezza nazionale ha bisogno di energia altrettanto di indipendente. Non è solo un tema di protezione della rete di trasporto ma di approvvigionamento delle fonti. Si deve riaprire il dibattito sull’opzione nucleare? L’analisi di Andrea Monti, professore di diritto dell’ordine e della sicurezza pubblica all’Università di Chieti-Pescara – Originariamente pubblicato da Formiche.net 

Il 27 ottobre 1962 Enrico Mattei moriva in circostanze ancora non del tutto chiarite e per responsabilità ancora per molti versi oscure. Il 27 ottobre 2020, anniversario della sua scomparsa, l’importanza della sua visione della politica energetica italiana è ancora, se non più, drammaticamente attuale per il sistema tecnologico della sicurezza nazionale.

Il tema non riguarda soltanto la protezione del sistema energia a livello di infrastruttura, ma anche, e soprattutto, quello dell’approvvigionamento delle risorse per garantire il funzionamento dell’imponente complesso tecnologico del comparto sicurezza. L’aumento della digitalizzazione dei processi di gestione delle funzioni essenziali per la sopravvivenza dello Stato attuata per mezzo delle infrastrutture critiche richiede un fabbisogno crescente di energia per far funzionare le reti pubbliche di comunicazione, i data-centre e gli apparati informatici. Proteggere le infrastrutture implica garantirne la continuità operativa e dunque, innanzi tutto, raggiungere l’autonomia energetica.

L’obiettivo sarebbe già ambiziosissimo se ci si limitasse alle sole funzioni essenziali gestite tramite una rete autonoma e non dipendente da quella disponibile al resto della Nazione. Ma diventa un’impresa titanica nel momento in cui la scelta tecnologica ha preso altre direzioni. Il dl 105/19 e i provvedimenti successivi che hanno istituito il perimetro nazionale di sicurezza cibernetica hanno formalizzato la scelta di indirizzo che si traduce nella cogestione con il settore privato della sicurezza nazionale (non solo) cibernetica.

In altri termini, pur con tutti i dovuti distinguo, funzioni essenziali e attività ordinarie insistono sulla stessa infrastruttura digitale utilizzata anche dal settore privato. È una scelta che ha certamente i suoi vantaggi dal punto di vista economico, ma in termini di garanzia di sopravvivenza delle funzioni essenziali c’è da domandarsi se non avrebbe avuto più senso un’approccio diverso.

I grandi data centre e gli operatori di telecomunicazioni sono, evidentemente, già sensibili alle problematiche della resilienza, non solo perché normativamente devono occuparsene, ma anche perché devono farlo in adempimento delle obbligazioni contrattuali che assumono con i loro clienti. Non è detto, tuttavia, che le loro scelte siano sufficienti a supportare la tutela effettiva della sicurezza nazionale se si verificasse una crisi per via di un’attentato su larga scala (è vero, il caso Enel non ha riguardato la rete elettrica ma suscita comunque preoccupazioni) o di una non irrealistica crisi energetica. Il petrolio, infatti, è ancora la fonte primaria (e non disponibile sul suolo nazionale) e in ogni caso è quella che ad oggi consente il funzionamento delle infrastrutture di telecomunicazioni, alimentando generatori e gruppi elettrogeni di CED, BTS e centrali telefoniche.

I (pochi) data-centre italiani Tier (o Rating) IV (la più elevata certificazione di resilienza), garantiscono come da standard almeno novantasei ore di funzionamento in caso di interruzione dell’alimentazione, le centrali danno garanzie analoghe (anche se con modalità progettuali e operative differenziate), le Bts della rete mobile, per quanto altrettanto protette hanno complessivamente una resilienza parametrata su esigenze commerciali. Non ci sono dati pubblici, invece, sull’anello finale della catena, cioè sulle infrastrutture territoriali, dagli apparati di sicurezza a quelli di protezione civile, che potrebbero rappresentare il point of failure della strategia di resilienza. In breve: a poco serve avere il centro che funziona, se la periferia è fuori uso.

Coerentemente, dunque, con la dichiarazione sulla elevata priorità dell’indipendenza tecnologica nell’agenda di governo sarebbe opportuno interrogarsi anche sulla necessità complementare di ottenere un’indipendenza energetica. Quella indipendenza energetica per il cui raggiungimento Enrico Mattei aveva cominciato a pensare all’opzione nucleare e che il referendum del 1987 bloccò grazie all’impatto emotivo dell’incidente di Chernobyl più che per ragioni oggettive.

La resilienza energetica è un tema tanto importante quanto poco dibattuto pubblicamente. In parte perché si tratta di una materia estremamente tecnica e non sono poi molti coloro che possono parlarne a ragion veduta. In parte perché è un argomento “scomodo” del quale si preferisce ignorare l’esistenza, rinviando a data da destinarsi il momento del confronto. L’atteggiamento è simile a quello che ha caratterizzato la (non) gestione della pandemia negli anni successivi alla diffusione della Sars. Non è un tema dell’oggi, ci sono altre priorità, vedremo alla prima occasione.

E poi è arrivato il Covid-19.

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