GUP Trib. Mantova – Sent n. 332/04

Tribunale di Mantova – Ufficio del Gup – sentenza 17-25 novembre 2004, n. 332
Giudice Bortolato – Pm Mariani – Imputato T.

Motivi

[omissis]

Ciò detto, v’è subito da osservare – in fatto – come sia pacifico che il T. esercitasse, in forma organizzata (seppure con un semplice computer collegato ad un provider ed una macchinetta emettitrice di scontrini), un’attività di raccolta di scommesse accettate “all’estero” (in quanto lo scommettitore è una società inglese di nome “Stanley International Betting” che opera sul mercato europeo mediante collegamenti on line e tramite centri di trasmissione dati situati in tutto il territorio dell’Unione) su competizioni sportive (in gran parte si trattava di 350 incontri settimanali di football) svolgentesi sia all’estero che in Italia. Poiché la raccolta delle scommesse avveniva “per via telematica” non v’è dubbio che il punto di raccolta di esse e di trasmissione dati della Stanley sito in Italia (in forza di contratto di franchising con l’esercizio pubblico “bar”) costituisse in ogni caso quell’attività che, in assenza di concessione e autorizzazione, è vietata dall’articolo 4, comma 4bis, legge 401/89, come successivamente modificata dalla legge 388/00 e dal Dl 336/01 convertito nella legge 377/01.
Il T. non era infatti munito della prescritta concessione Coni né della licenza di Ps ex articolo 88 Tulps ma solo dell’autorizzazione, rilasciata dal Ministero delle comunicazioni nella forma di “silenzio-assenzo”, alla “trasmissione-dati” (ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera a Delibera dell’Autorità per le garanzie delle comunicazioni n. 467/00 ed ai sensi del Dpr 318/97) e che attiene soltanto all’offerta al pubblico di servizi di telecomunicazione e non già pubblica di raccolta e gestione scommesse.

Orbene, la questione posta all’attenzione di questo giudicante coinvolge il delicato tema della compatibilità tra la normativa interna italiana, che vieta l’organizzazione e la gestione di scommesse sulle competizione sportive (ed altro) senza la prescritta concessione rilasciata dallo Stato (o, in sua vece, dal concessionario – esclusivo “monopolista” – Coni), cui deve necessariamente accedere l’autorizzazione o licenza di “pubblica sicurezza” (ex articolo 88 Tulps) e la normativa comunitaria che, viceversa, sancisce il cosiddetto “diritto di stabilimento” (articolo 43 Trattato Ce) e la “libertà di prestazione di servizi” (articolo 49 Trattato Ce). In altre parole ci si deve porre il problema se le restrizioni poste dallo Stato italiano (che subordina l’esercizio delle scommesse a provvedimenti concessori e/o autorizzativi) siano in armonia da un lato con il diritto di ciascun cittadino, persona fisica o giuridica, degli Stati membri di stabilirsi nel territorio di altro Stato membro con la relativa facoltà di costituire e gestire imprese, agenzie, succursali e filiali sul suo territorio, con l’unico limite del regime particolare imposto da motivi “di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica” articoli 45 e 46 Trattato) e, dall’altro, con il diritto (che è una delle quattro libertà fondamentali su cui si fonda la Comunità) del cittadino europeo di esercitare la propria attività a favore di un beneficiario situato in un qualsiasi Stato membro alle stesse condizioni stabilite dalla disciplina vigente nello Stato in cui si trova il destinatario della prestazione e comunque senza discriminazioni e restrizioni non giustificate.

La “prevalenza” del diritto comunitario su quello nazionale implica la possibilità, com’è noto, per il giudice italiano – una volta rilevata l’incompatibilità tra le due discipline – di non applicare il diritto interno (anche, come in questo caso, se di natura “penale”) in favore di quello comunitario e comunque limitatamente alle controversie sottoposte al suo giudizio, in questo caso l’odierno imputato – il quale è privo sia di concessione che di autorizzazione ex articolo 88 Tulps – andrebbe assolto dal reato perché il fatto non costituisce reato.

La questione è stata più volte affrontata in giurisprudenza dopo che la Corte di giustizia europea, con la sentenza Gambelli del 6 novembre 2003, in analoga questione, ha affermato – in sede di rinvio pregiudiziale ex articolo 234 Trattato da parte di un giudice italiano – che: “una normativa nazionale contenente divieti penalmente sanzionati di svolgere attività di raccolta, accettazione, prenotazione e trasmissione di proposte di scommessa, relative, in particolare, a eventi sportivi, in assenza di concessione o autorizzazione rilasciata dallo Stato membro interessato, costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi previste, rispettivamente, agli articoli 43 e 49 Ce. Spetta al giudice del rinvio verificare se tale normativa, alla luce delle sue concrete modalità di applicazione, risponda realmente ad obiettivi tali da giustificarla e se le restrizioni che essa propone non risultino sproporzionate rispetto a tali obiettivi”.

[Omissis]

Dopo tale decisiva pronuncia in sede europea la Corte di cassazione si è trovata a dover esaminare la questione e lo ha fatto nella sua massima autorevole espressione con la decisione delle Sezioni unite del 26 aprile 2004, Gesualdi, che, preso atto della sentenza Gambelli della Corte di Lussemburgo e del contrasto giurisprudenziale sul punto all’interno delle stesse sezioni della Suprema corte italiana (o dei giudici di merito) ha affermato il seguente principio: “la normativa italiana in materia di gestione delle scommesse e dei concorsi pronostici, anche se caratterizzata da innegabile espansione dell’offerta, persegue finalità di controllo per motivi di ordine pubblico che, come tali, possono giustificare le restrizioni che essa pone ai principi comunitari della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi”.

[Omissis]

Ciò detto, il Giudice italiano si trova di fronte al dilemma seguente: applicare il diritto comunitario così come interpretato dalla Corte di giustizia europea e dunque ritenere la normativa penale incompatibile con i precetti comunitari (con conseguente disapplicazione della normativa interna ed assoluzione dell’imputato) ovvero adeguarsi (stante la finzione di indirizzo “nomofilattico” riconosciuta alla Cassazione) alla pronuncia della Suprema Corte interna allo Stato, nella sua massima rappresentanza (Sezioni unite) e, dunque, alla luce di questa, ritenere la norma italiana perfettamente compatibile col diritto comunitario e dunque applicare la sanzione penale.

Va premesso che il collegamento tra fonti comunitarie e fonti interne ha avuto soluzione attraverso un lento e graduale processo evolutivo che ha visto protagonisti, in una sorta di dialogo a distanza, sia la Corte costituzionale che la Corte di giustizia e che, alla fine, ha visto affermarsi il principio, orami da nessuno più messo in discussione, del “primato” del diritto comunitario secondo cui ogni giudice nazionale deve “applicare integralmente il diritto comunitario ed i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti delle legge interna, sia anteriore che successiva” (sentenza Simmenthal del 9 marzo 1978, in causa C-106/77; sentenza Costa/Enel del 15 luglio 1964; da ultimo sentenza Larsy del 28 giugno 2001, causa C-118/00).
Sul punto la Corte costituzionale (sentenza 170/84) ha affermato a sua volta la preminenza sulle norme interne del diritto comunitario “così come interpretato dalla Corte di giustizia” con il conseguente obbligo per il giudice dello Stato di disapplicare la norma lasciando il passo, nel caso singolo, all’applicazione diretta della norma comunitaria. Pur riferendosi questa pronuncia ai Regolamenti tuttavia la successiva sentenza 113/84 la Corte Costituzionale ha espressamente esteso la gerarchia delle fonti e tutto il diritto comunitario immediatamente applicabile ivi incluse, oltre naturalmente alle norme del Trattato (che sanciscono le cosiddette “quattro libertà fondamentali”), le stesse sentenze interpretative della Corte di giustizia che risultimo comunque “dichiarative” del diritto comunitario (Corte costituzionale, 389/89).

Coerentemente, anche la Corte di cassazione ha più volte affermato detto primato (cfr. Cassazione, sezione prima, 5235/85) anche con efficacia retroattiva (Cassazione, sezione lavoro, 7105/98; Cassazione, sezione terza, 17656/03).
È escluso infine il nuovo ricorso alla Corte di giustizia ogniqualvolta la questione sollevata sia analoga ad altra già decisa dalla Corte di giustizia di talché appare superfluo rimettere nuovamente la questione in via pregiudiziale alla medesima Corte di giustizia potendosi procedere alla disapplicazione della norma (Cassazione, sezione lavoro, 3914/02).

Di fronte all’affermazione così netta del principio di supremazia appare a questo giudicante doveroso fare una immediata e diretta applicazione del diritto comunitario, così come interpretato (rectius dichiarato) dalla Corte di giustizia – con efficacia non limitata al caso singolo (peraltro perfettamente analogo a quello all’esame di questo Giudice) – nella sentenza Gambelli, anche se tale applicazione comporti il non adeguarsi al principio di diritto così autorevolmente affermato dalle Sezioni unite con la sentenza del 26 aprile 2004.

In primo luogo deve osservarsi come il principio affermato dalla Suprema Corte non sia vincolante, a norma dell’articolo 627, comma 3, Cpp, se non per il giudice del rinvio, mentre le norme comunitarie (e tanto più, come nel caso di specie, le norme del Trattato di immediata applicazione in quanto attribuenti ai singoli facoltà connesse all’esercizio di libertà fondamentali: articoli 43 e 49) sono norme di diritto, al pari della legge interna, e dunque cogenti per il Giudice. Nella gerarchia delle fonti dunque la norma di legge (come questa di fonte comunitaria) prevale sulla pronuncia – non vincolante – della Cassazione, ancorché a Sezioni unite. Né si deve dimenticare la funzione interpretativa liberamente attribuita in ogni caso al giudice nazione di merito, “primo” giudice comunitario.
Ciò dato, le motivazioni addotte dalle Sezioni unite non sembrano condivisibili almeno sotto due profili che qui si andranno motivatamente ad illustrare.

1) In primo luogo la deroga tassativa enunciata dal Trattato all’articolo 46 (ordine pubblico) presuppone una minaccia reale o concreta di aggressione ad un interesse fondamentale della collettività e mai può avere finalità “economiche” (v. Corte di giustizia, 26 aprile 1988, Bond van Adverteerders). Secondariamente, ma su questo convengono anche le Sezioni unite, la possibilità per gli Stati di garantire che gli utile dei giochi d’azzardo siano devoluti a scopi di utilità generale non costituisce un’esigenza imperativa suscettibile di giustificare eventuali restrizioni alla libera prestazione di servizi ma, casomai, un mero accessorio.
Ma ciò che sembra determinante è che uno Stato membro non può da un lato promuovere esponenzialmente il gioco d’azzardo e la scommessa, sebbene ufficialmente organizzate, e, dall’altro, limitare la prestazione di servizi “canalizzando” gli sviluppi della domanda – che è virtualmente illimitata – verso le casse statali (ed in questo senso si richiamano le conclusioni dell’Avv. Generale Fenelly nella causa 20 maggio 1999, Zenatti, che ha sostenuto la compatibilità della normativa nazionale in materia di scommesse solo se l’obiettivo perseguito dallo Stato non sia di natura economica ma se lo Stato persegua, viceversa, un’autentica riduzione delle opportunità di gioco). La sentenza della Corte di giustizia del 21 settembre 1999, Zenatti, ha invero statuito che le disposizioni del Trattato sulla libera prestazione di servizi non ostano ad una normativa che riservi a determinati enti il diritto di esercitare scommesse su eventi sportivi solo però ove tale normativa “sia effettivamente giustificata da obiettivi di politica sociale tendenti a limitare gli effetti nocivi di tali attività”.

Già con la sentenza Schindler (24 marzo 1994) la Corte europea aveva affermato, tra l’altro, che le limitazioni poste (in quel caso dalla normativa britannica) al principio della libera prestazioni di servizi erano legittime “solo in quanto trovassero giustificazione in ragioni di ordine sociale, di necessaria prevenzione della criminalità nonché nella necessità di evitare di stimolare la domanda nel settore dei giochi d’azzardo i cui eccessi hanno conseguenze nocive”.
Orbene, la Corte italiana ha, a nostro sommesso avviso, omesso di considerare che lo scopo di perseguire la possibile degenerazione criminale da un lato non può essere l’unico a legittimare una restrizione sotto il profilo “ordine pubblico” – che, invece, come si è visto nell’interpretazione della Corte di giustizia, deve avere prevalenti connotati “sociali” di attenuazione degli effetti nocivi del gioco sui singoli e sulle famiglie prima ancora della repressione di eventuali forme criminali di gestione – e, dall’altro, è comune a tanti altri settori (da quello del credito, a quello dei lavori pubblici e degli appalti, dall’assunzione al lavoro, a quello ambientale, dalla circolazione delle merci, a tanti altri) per i quali viceversa non è previsto alcun sistema concessorio né tanto meno autorizzatorio ex articolo 88 Tulps (licenza di pubblica sicurezza). In tanti altri settori economici permeabili alla criminalità ben più di quello delle scommesse (si pensi al settore del riciclaggio dei rifiuti solidi, all’esportazione di capitali, al credito bancario, alle società finanziarie, alle intermediazioni, all’edilizia) non viene richiesta alcuna licenza di Ps ed il controllo soggettivo sull’idoneità morale, laddove vi sia, viene attuato attraverso interventi pubblici ben più pregnanti di una semplice licenza di polizia peraltro oggi di natura meramente “autocertificativa” (rilasciata nella forma di silenzio-assenzo dal Questore).

Nessuna specifica norma di settore è prevista invece per controllare l’idoneità morale del concessionario alla raccolta di scommesse (di cui basta verificare la solidità finanziaria) tranne appunto la licenza ex articolo 88 Tulps. È ben vero, come osserva la Cassazione, che l’articolo 11 Tulps vieta il rilascio della licenza a chi abbia riportato condanne a pene superiori ai tre anni ed ai delinquenti abituali (e secondo l’articolo 92 non può essere data a chi sia stato condannato per reati contro la moralità pubblica e il buon costume e per giochi d’azzardo o per reati concernenti l’ubriachezza e gli stupefacenti) e ne consente il diniego a chi abbia riportato condanne per delitti contro l’ordine pubblico e contro la persona (ma non ad esempio a chi abbia riportato condanne per truffa o altri reati contro il patrimonio non commessi con violenza), ma è altrettanto vero che il controllo di tali requisiti si fonda su una mera autodichiarazione e non sulla allegazione di un certificato penale o di carichi pendenti o altri più penetranti accertamenti di polizia. Tra l’altro è previsto che all’atto della presentazione della dichiarazione (cui viene allegata solo la concessione, un documento identificativo e la planimetria dei locali) venga rilasciato un visto che autorizza fin da subito, salva revoca successiva, l’esercizio dell’attività di scommesse e che e verifiche sui precedenti penali e sui procedimenti in corso del richiedente, soprattutto nelle grandi città, vengono effettuate solo a campione.

Si noti, viceversa, che l’odierno imputato, per ottenere la speciale autodichiarazione dal Ministero delle comunicazioni per la trasmissione dati per via informatica (ex articolo 3, comma 1, lettera a Delibera dell’Autorità per le garanzie delle comunicazioni n. 467/00) ha dovuto allegare un certificato di iscrizione alla Camera di commercio comprensivo di nulla-osta antimafia e certificato penale che la società estera Stanley, che svolge da 50 anni l’attività di bookmaker – e per conto della quale l’imputato opera in franchising – è soggetta a rigorosissimi controlli nel paese in cui è stabilità, di ordine pubblico e di pubblica sicurezza, fiscali e societari (Auditors e Inland Revenues e Custom and Excise del Regno unito).

La licenza di polizia italiana attiene infatti, in via generale, agli “esercizi pubblici” ed è volta, a ben vedere, alla tutela dell’interesse collettivo all’incolumità nei luoghi ove si raccoglie il pubblico, interesse connesso al fatto che le scommesse vengono raccolte in esercizi pubblici quali le tabaccherie ed i bar (con conseguente esigenza di contenimento del flusso dei scommettitori in idonei locali). Tant’è vero che tale licenza, pur rilasciata alla persona, è “limitata ai locali in essa indicati” (articolo 93).

Cos’abbia a che fare una semplice licenza di Ps – peraltro rilasciata nelle forme del silenzio-assenzo – con la nozione, di ben più ampia portata e valenza, dell’ordine pubblico “sociale”, come dichiarato dalla Corte di giustizia, non è dato dunque vedere.

La normativa italiana in materia di scommesse, in contrario, è volta a disegnare un vero e proprio monopolio fiscale – del tutto scevro da esigenze di contenimento della propensione al gioco – verso la cui salvaguardia tutta la legislazione in materia, ivi compresa quella penale, appare orientata. Lo scopo perseguito dallo Stato membro è, più o meno dichiaratamente, di natura economica, volto a tutelare l’interesse, precipuo, al prelievo fiscale. Di talché appare stridente il contrasto tra finalità economica da un lato (con conseguente attività di promozione pubblicitaria e di qualsiasi parossistica incentivazione mercé il moltiplicarsi) delle lotterie e lo stimolo continuo della domanda) e, dall’altro, l’esigenza sociale di “ordine pubblico” in realtà comune a molteplici altre attività viceversa non sottoposte a licenza di Ps. Detta esigenza non sarebbe comunque salvaguardabile di fatto mediante il rilascio di detto provvedimento di polizia che ha tutt’altri, ben più limitati, fini. In altre parole lo Stato da un lato incentiva il gioco, non riduce ed anzi ne moltiplica le opportunità, né tende a moderarne gli effetti dannosi sui singoli e sulla società (e ciò allo scopo di conseguire generosi introiti fiscali) e, dall’altro, sottopone a restrizioni la stessa attività (con il sistema concessorio e di licenza) al solo scopo di prevenire una degenerazione criminale che, dunque, riconosce come plausibile. Lo Stato, dunque, incrementa, a fini economici, un settore che, avendo a che fare con ingenti flussi di denaro e con un vasto pubblico, non può non essere insensibile a forme di approfittamento illecito: ma se l’attività è potenzialmente pericolosa per l’ordine sociale allora dovrebbe essere, coerentemente, vietata (come era in passato) e non addirittura favorita. Appare in ogni caso singolare che un’attività a rischio di forte degenerazione criminale, nonché di fatto volta a depauperare i singoli e le famiglie dei propri risparmi, sia addirittura riservata allo Stato e sottoposta al regime della concessione statale: viceversa, se essa rientra nell’attività di mercato, potenzialmente libera nell’Unione come qualsiasi altra prestazione di servizi lecita, deve essere permessa a chiunque senza restrizioni.
Non sembra dunque che le giustificazioni di “ordine pubblico”, come dichiarate dalla pronuncia delle Sezioni unite, possano trovare accoglimento in una pratica espansiva dello Stato con cui viene di fatto incentivata l’attività di scommessa (ed anche quella di pura alea quale la lotteria) e dove il percolo di degenerazione criminale p risolto soltanto mediante la “canalizzazione” dei numerosissimi gestori (si considera che le concessioni sono attualmente un migliaio) in un regime di monopolio avente mere finalità fiscali. L’ordine pubblico non può essere preso dallo Stato a pretesto per dissimulare un sistema autorizzatorio “chiuso” in cui lo Stato riserva a sé un’attività potenzialmente attrattiva di fenomeni delinquenziali e laddove il requisito unico per ottenere la concessione è la “solidità finanziaria” e cioè soltanto l’aspettativa di solvibilità del debito fiscale.

2) Il secondo motivo per il quale si ritiene di non condividere la pronuncia della Cassazione a sezioni unite riguarda la discriminazione degli operatori esteri.
La Corte ha affrontato il problema risolvendolo con l’annotazione – meramente formale – che i requisiti di partecipazione ai bandi sono stati recentemente modificati con la legge finanziaria 289/02 secondo cui alle procedure concorrenziali possono partecipare ora anche le società di capitali e che, a partire dal 1° gennaio 2004, la riforma del diritto societario italiano ha perfezionato la parificazione giuridica del regime delle società italiane a quello delle altre società europee “aperte” e dunque in nessun caso può dirsi che queste ultime siano svantaggiate rispetto alle prime nel concorso per le concessioni.

Sul punto giova fare una breve premessa.

Il citato intervento legislativo era stato necessitato da una procedura di infrazione risalente al 1999 (n. 99/5353) della Commissione contro lo Stato italiano proprio sulle modalità di affidamento in Italia della gestione del servizio di esercizio delle scommesse che non rispettava i principi del Trattato Ce sotto il profilo: 1) della trasparenza in tutti i casi in cui le concessioni erano state prorogate, rinnovate o attribuite in via provvisoria al di fuori di una procedura di messa in concorrenza ai vecchi concessionari all’Unire (agenzie ippiche) e 2) della proporzionalità, posto che la restrizione appariva sproporzionata rispetto al raggiungimento del legittimo obiettivo perseguito, con ciò violando le regole del Trattato in materia di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi nonché il principio generale di trasparenza e l’obbligo di pubblicità che ne deriva.
La Commissione europea con comunicazione 18 luglio 2001 aveva messo in mora lo Stato italiano in quanto la concessione “di servizi” (che è tale poiché i gestori vengono remunerati con una percentuale degli introiti ottenuti dall’esercizio delle scommesse) doveva rispettare i principi del Trattato ed invece operava un’inammissibile chiusura del mercato interno agli operatori comunitari attuata attraverso i regolamenti ed i bandi di gara (ne erano infatti escluse le società di capitali).

Con legge finanziaria per il 2003 l’Italia si è adeguata (soltanto apparentemente come vedremo) a tali principi rimuovendo l’ostacolo che aveva precluso anche a Stanley (e promuovente la procedura) l’accesso al mercato italiano in condizioni paritetiche con gli altri aspiranti; ora alle procedure concorrenziali di affidamento delle concessioni possono partecipare le società di capitali (articolo 22, comma 11, legge 289/02) e dunque anche la Stanley.
Senonché gli ultimi bandi che hanno incrementato le precedenti 330 concessioni (limitate alle scommesse ippiche) alle attuali 1000 sono del 1999 (le concessioni sono andate a regime tra il 2000 ed il 2001) ed i provvedimenti (le concessioni sono andate a regime tra il 2000 e il 2001) ed i provvedimenti hanno durata sessennale ed automaticamente rinnovabili per ulteriori sei anni: in altre parole i prossimi bandi, ai quali potrà legittimamente partecipare anche la Stanley, si terranno grossomodo nel 2012.

Sembra dunque doversi condividere in pieno il rilievo della difesa dell’imputato secondo cui lo Stato italiano ha bensì adeguato la propria normativa in contrasto con le regole comunitarie ma se ne è di fatto assicurato l’ultrattività per il successivo decennio. Esso ha, in buona sostanza, perpetuato un regime protezionistico illegittimo, perché incidente sui diritti di stabilimento e di libera prestazione di servizi, senza disporre la correzione in autotutela dei provvedimenti emessi illegittimamente pur essendogli nota la contrarietà col diritto comunitario quantomeno dal 1999 (allorché iniziata la procedura di infrazione).

Di fatto gli operatori esteri (unico interessato attualmente sembra proprio l’allibratore britannico Stanley) sono concretamente svantaggiati rispetto agli operatori italiani che già hanno ottenuto le concessioni, che rinnoveranno automaticamente all’incirca nel 2007 per un altro sessennio, concessioni destinate a saturare il mercato (non è previsto un incremento delle già numerose 1000 concessioni) e dunque se ne riparlerà fra circa otto anni allorché verranno bandite le prossime gare.

Spetta, come ha ricordato la Corte di giustizia, al giudice del rinvio stabilire se i requisiti di partecipazione ai bandi siano fissati in termini tali da poter essere soddisfatti, “in pratica”, più facilmente dagli operatori italiani che non da quelli stranieri poiché in tal caso non sarebbe rispettato il criterio della non discriminazione.

Ed invero non sembra che tale soluzione possa dirsi rispettosa dei principi comunitari che esigono immediata applicazione, tanto che alcuni giudici di merito hanno già rinviato pregiudizialmente alla Corte di giustizia la questione (v. Tribunale di Teramo, ordinanza 23 luglio 2004, in atti) chiedendone di interpretare i precetti comunitari alla luce della temporanea deroga stabilita dalla legge italiana che, per almeno 6-12 anni, ha inteso sospendere il regime di libertà di stabilimento e di prestazione di servizio nell’ambito dell’Unione.
Perseguendo coloro che operano in collegamento con quei soggetti, abilitati a tale attività nello Stato membro di origine, esclusi dalla precedente gara in base ad una preclusione poi rimossa e non procedendo alla revoca delle concessioni rilasciate sulla base di un precedente regime normativo dichiarato illegittimo in sede comunitaria (ma anche solo basterebbe escludere l’automatico rinnovo alla prima scadenza sessennale), lo Stato italiano si pone chiaramente in contrasto con il diritto comunitario vigente, assicurando di fatto l’ultrattività di un regime protezionistico riconosciuto dallo stesso Stato illegittimo perché contrario alle libertà fondamentali fissate in sede comunitaria. Del resto è la stessa Corte del Lussemburgo che impone l’esame delle “concrete modalità di applicazione” della normativa dello Stato al fine di verificarne la non contrarietà ai principi comunitari, la proporzionalità e l’adeguatezza (sentenza Gambelli).
La discriminazione, rimossa in forma solo apparente, resiste tuttora operando in danno delle società estere in forma indiretta e dissimulata, a fronte viceversa di un’applicazione immediata di norme comunitarie del più elevato livello (Trattato) che, fissando libertà “fondamentali”, non possono in nessun caso essere derogate dal singolo Stato membro con disposizioni di fatto preclusive.

Anche il sistema di rilascio delle concessioni tutto in una volta e non con un graduale avvicendamento dei gestori secondo cadenze programmate si pone in contrasto con le norme comunitarie che viceversa combattono regimi protezionistici e monolitici in settori di mercato “aperti” e per i quali, s’è visto, non sono coerentemente invocabili ragioni di “ordine pubblico” al fine di adottare regimi restrittivi.
Ciò detto questo Giudice ritiene di doversi discostare dall’interpretazione fornita dalla sentenza più volte citata delle Sezioni unite in ordine alla compatibilità della normativa repressiva italiana con il diritto comunitario, alla stregua dei criteri forniti dalla stessa Corte di giustizia in soggetta materia, che devono trovare, al pari delle norme comunitarie di rango “legislativo”, immediata e diretta applicazione.

Per l’effetto questo giudice si trova a dover “non applicare”, limitatamente al caso al suo esame, la norma penale che sottopone a sanzione repressiva la condotta del gestore, per conto di un operatore estero già autorizzato nel suo paese d’origine all’attività in parola, di un Centro Trasmissione Dati (peraltro già debitamente autorizzato ai sensi del Dpr 318/1997 dal competente Ministero delle Comunicazioni anche sotto il profilo, come si è visto, della sua idoneità morale) che, in territorio italiano, provveda alla raccolta, per via telematica, di scommesse “accettate all’estero” su competizioni sportive di qualsiasi genere in quanto privo di concessionario (che mai avrebbe potuto ottenere fino al 1° gennaio 2004 e che di fatto oggi non può ottenere quantomeno fino al 2012) oltreché di licenza di polizia ai sensi dell’articolo 88 Tulps.

La non applicazione della norma incriminatrice comporta di conseguenza l’assoluzione dell’imputato con la formula “il fatto non costituisce reato”.

S’impone il dissequestro dei beni e la loro restituzione all’imputato.

PQM

Visto l’articolo 530 Cpp assolve l’imputato dal reato ascrittogli perché il fatto non costituisce reato.
Ordina il dissequestro e la restituzione all’avente diritto dei beni sequestrati.

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