Il procedimento del Garante per la concorrenza e il mercato sul’integrazione di funzionalità AI nell’interfaccia di Whatsapp arriva in buon ritardo rispetto ad eventi che già da decenni avevano lasciato intendere cosa sarebbe successo con la diffusione orizzontale di software basati su interfacce grafiche, e non coglie il reale problema – di Andrea Monti Inizialmente pubblicato su Italian Tech – La Repubblica
Trent’ anni fa una storica controversia legale fra Apple e Microsoft sulla proteggibilità delle interfacce nota in gergo come “trashcan suit” si basò sull’asserito diritto esclusivo di Apple a utilizzare l’icona del cestino come “metafora” per la cancellazione dei file.
Qualche anno dopo, nel 1999, Neal Stephenson, apprezzato autore di racconti cyber e steampunk, scrive “In the beginning was the command line” dove avvisava —inascoltato— del cambiamento radicale causato al comportamento degli utenti dalle interfacce grafiche. Più o meno nello stesso periodo le autorità USA avevano iniziato ad occuparsi del lock-in tecnologico nell’altrettanto famoso procedimento antitrust contro Microsoft, un’attività che continua ancora oggi con il procedimento in corso contro Google e Apple.
Il filo rosso che lega questi —e altri analoghi— eventi è quello del controllo sull’interfaccia grafica per dare o togliere funzionalità e diritti agli utenti come strumento di protezione della propria “riserva di caccia” commerciale.
A che servono le interfacce
Dunque, il tema legato all’aggiunta di funzionalità di AI a Whatsapp non è tanto l’uso (o l’abuso) di una posizione di vantaggio in uno specifico mercato di riferimento quanto la possibilità di controllare il comportamento e i diritti degli utenti tramite l’interfaccia di un software. Ma l’autorità italiana non sembra averlo compreso realmente.
Come si ebbe a scrivere in tempi non sospetti sulle pagine di Italian Tech, essere in grado di imporre o di diffondere l’utilizzo della propria interfaccia, condiziona innanzi tutto il comportamento delle persone, e la loro possibilità di esercitare i diritti.
Abilitare in Whatsapp —o in qualsiasi altro sistema di messaging— la funzionalità di cancellazione di un messaggio anche sul terminale del destinatario significa avere deciso unilateralmente di dare all’utente la possibilità appunto di eliminare messaggi inviati per errore. La decisione, altrettanto unilaterale, di non farlo condiziona ugualmente il “diritto” dell’utente che deve per forza subire le conseguenze di un messaggio non voluto oppure inviato in modo inconsapevole. Scalando verso l’alto i termini del ragionamento, dunque, è chiaro come il controllo sull’interfaccia consenta di stabilire qual è la sfera di comportamento consentita all’utente senza che qualcun altro possa avere voce in capitolo.
È accettabile che questo sia consentito a Big Tech grazie semplicemente a condizioni contrattuali formalmente non contestabili?
Dove sarebbe l’abuso di Meta?
Il punto è che sfruttare la propria base clienti per aggiungere funzionalità o servizi non è di per sé illecito. Pratiche come il “bundling” —associazione di più prodotti/servizi— oppure lo “upselling” —cercare di vendere al cliente ulteriori servizi rispetto a quelli inizialmente contrattualizzati sono ampiamente consolidate e non solo nel settore delle tecnologie digitali. Di per sé, dunque, aggiungere funzionalità a un software non può essere considerato abusare di una posizione dominante perché non si può impedire ad un’azienda (tecnologica) di migliorare i propri prodotti e l’offerta di servizi agli utenti.
Altro discorso è, nel caso specifico di Meta, il tema della potenziale acquisizione dei dati degli utenti resa possibile dall’integrazione dell’AI in Whatsapp. Questo però non è il tema dell’oggi, salvo che non venga esplorato in futuro grazie al preoccupante protocollo di intesa fra garante dei dati personali e antitrust, da poco firmato.
L’abuso del mercato non è (solo) nelle interfacce
In questo settore, tornando al punto, lo sfruttamento dell’asimmetria contrattuale fra Big Tech e gli utenti assume proporzioni molto più rilevanti dell’essere messi di fronte alla presenza di una nuova funzionalità non richiesta.
È il caso, per esempio, dell’obsolescenza programmata di hardware e software o della deliberata riduzione all’inutilità di prodotti pagati profumatamente e che funzionerebbero ancora benissimo se non fossero dichiarati “end of life” —a fine vita— dai produttori. Il che si traduce in inutili costi ulteriori per cittadini, istituzioni e imprese, aumento di rifiuti speciali, alterazioni potenzialmente strutturali del mercato e altri effetti collaterali sistemici dei quali, però, né l’Antitrust italiana né le altre autorità si sono mai preoccupate.
In un contesto del genere limitarsi a sindacare, come fa l’Autorità, addirittura il design dell’interfaccia sostenendo che sarebbe prova dell’abuso appare veramente come la ricerca dell’evangelica pagliuzza rispetto a travi grandi come plinti per fondazioni.
L’impatto del procedimento sullo sviluppo dei servizi digitali
Questo ennesimo “caso Meta” apre un capitolo del tutto nuovo nel cosiddetto “enforcement” dei poteri delle autorità indipendenti che potrebbe avere conseguenze dirette e devastanti sul mercato dei servizi digitali.
Il tentativo di considerare le interfacce grafiche come possibili strumenti per commettere abusi di mercato segna, infatti, un passaggio cruciale: la trasformazione dell’interaction design da spazio di innovazione tecnica a oggetto di sorveglianza regolamentare.
Le conseguenze della regolamentazione dell’interface design
Se le autorità indipendenti continueranno a trattare le interfacce come semplici strumenti commerciali senza comprenderne la reale natura finiranno per compromettere la possibilità stessa di uno sviluppo del software libero, sperimentale e modulare e dei servizi che sul software si basano. Questo è a maggior ragione vero considerando che nel disto-sistema basato sulle piattaforme e sul “cloud”, gli interessi di Big Tech non si esercitano più e solo attraverso il controllo sul software, ma nel modo in cui l’utente interagisce con i servizi, a prescindere dai programmi che li fanno funzionare.
Sulla carta, dunque, è facile concludere che la sfida non è impedire che le interfacce siano progettate in un certo modo, ma impedire che lo siano senza contrappesi, alternative o consapevolezza critica degli utenti. Nella realtà questo è un obiettivo difficilmente realizzabile per ragioni tecniche, economiche ma, soprattutto, politiche.
L’impatto del procedimento Antitrust sui dazi USA/EU
Anche se non sono ancora noti i reali contenuti delle concessioni fatte dagli USA alla UE nella zoppicante e squilibrata trattativa sui dazi, è plausibile ritenere che l’alleggerimento delle pressioni su Big Tech sia uno dei cardini dell’accordo.
Se questo è vero, allora non è impensabile ritenere che nel prossimo futuro iniziative come quelle dell’Antitrust italiana possano volare al di sotto della capacità di rilevamento del radar della controparte statunitense, che non starebbe certo con le mani in mano.
Dunque anche se, in termini formali, le eventuali proteste statunitensi non dovrebbero essere un problema perché l’autonomia delle autorità indipendenti non può essere condizionata dagli interventi di altri Stati, in concreto questo principio di diritto potrebbe non essere così facilmente applicabile.
L’ennesima sfida per la UE
Servirebbe quindi a poco lamentarsi di possibili reazioni politiche in nome della sovranità europea, primo perché non esiste, e secondo perché il diritto non si applica in un laboratorio, ma tramite negoziati, pressioni industriali e compromessi intergovernativi. Fingere che sia tutto neutro e basato sul rule of law sarebbe soltanto un esercizio di pura ingenuità che si scontra con i fondamenti delle dottrine basate sul realismo politico.
Sia come sia, se l’intervento dell’Antitrust italiana —o quello di strutture analoghe italiane o di altri Stati membri, o ancora degli organi UE— provocherà reazioni da parte degli USA, l’unica soluzione sarà quella di trovare un compromesso politico. Il che potrebbe minare la fiducia nella capacità della UE di tutelare l’indipendenza dei watchdog pubblici non solo nel settore del mercato, ma anche negli altri dove il coinvolgimento delle autorità indipendenti è in continua crescita.
Il procedimento del Garante per la concorrenza e il mercato sul’integrazione di funzionalità AI nell’interfaccia di Whatsapp arriva in buon ritardo rispetto ad eventi che già da decenni avevano lasciato intendere cosa sarebbe successo con la diffusione orizzontale di software basati su interfacce grafiche, e non coglie il reale problema
di Andrea Monti
Trent’ anni fa una storica controversia legale fra Apple e Microsoft sulla proteggibilità delle interfacce nota in gergo come “trashcan suit” si basò sull’asserito diritto esclusivo di Apple a utilizzare l’icona del cestino come “metafora” per la cancellazione dei file.
Qualche anno dopo, nel 1999, Neal Stephenson, apprezzato autore di racconti cyber e steampunk, scrive “In the beginning was the command line” dove avvisava —inascoltato— del cambiamento radicale causato al comportamento degli utenti dalle interfacce grafiche. Più o meno nello stesso periodo le autorità USA avevano iniziato ad occuparsi del lock-in tecnologico nell’altrettanto famoso procedimento antitrust contro Microsoft, un’attività che continua ancora oggi con il procedimento in corso contro Google e Apple.
Il filo rosso che lega questi —e altri analoghi— eventi è quello del controllo sull’interfaccia grafica per dare o togliere funzionalità e diritti agli utenti come strumento di protezione della propria “riserva di caccia” commerciale.
A che servono le interfacce
Dunque, il tema legato all’aggiunta di funzionalità di AI a Whatsapp non è tanto l’uso (o l’abuso) di una posizione di vantaggio in uno specifico mercato di riferimento quanto la possibilità di controllare il comportamento e i diritti degli utenti tramite l’interfaccia di un software. Ma l’autorità italiana non sembra averlo compreso realmente.
Come si ebbe a scrivere in tempi non sospetti sulle pagine di Italian Tech, essere in grado di imporre o di diffondere l’utilizzo della propria interfaccia, condiziona innanzi tutto il comportamento delle persone, e la loro possibilità di esercitare i diritti.
Abilitare in Whatsapp —o in qualsiasi altro sistema di messaging— la funzionalità di cancellazione di un messaggio anche sul terminale del destinatario significa avere deciso unilateralmente di dare all’utente la possibilità appunto di eliminare messaggi inviati per errore. La decisione, altrettanto unilaterale, di non farlo condiziona ugualmente il “diritto” dell’utente che deve per forza subire le conseguenze di un messaggio non voluto oppure inviato in modo inconsapevole. Scalando verso l’alto i termini del ragionamento, dunque, è chiaro come il controllo sull’interfaccia consenta di stabilire qual è la sfera di comportamento consentita all’utente senza che qualcun altro possa avere voce in capitolo.
È accettabile che questo sia consentito a Big Tech grazie semplicemente a condizioni contrattuali formalmente non contestabili?
Dove sarebbe l’abuso di Meta?
Il punto è che sfruttare la propria base clienti per aggiungere funzionalità o servizi non è di per sé illecito. Pratiche come il “bundling” —associazione di più prodotti/servizi— oppure lo “upselling” —cercare di vendere al cliente ulteriori servizi rispetto a quelli inizialmente contrattualizzati sono ampiamente consolidate e non solo nel settore delle tecnologie digitali. Di per sé, dunque, aggiungere funzionalità a un software non può essere considerato abusare di una posizione dominante perché non si può impedire ad un’azienda (tecnologica) di migliorare i propri prodotti e l’offerta di servizi agli utenti.
Altro discorso è, nel caso specifico di Meta, il tema della potenziale acquisizione dei dati degli utenti resa possibile dall’integrazione dell’AI in Whatsapp. Questo però non è il tema dell’oggi, salvo che non venga esplorato in futuro grazie al preoccupante protocollo di intesa fra garante dei dati personali e antitrust, da poco firmato.
L’abuso del mercato non è (solo) nelle interfacce
In questo settore, tornando al punto, lo sfruttamento dell’asimmetria contrattuale fra Big Tech e gli utenti assume proporzioni molto più rilevanti dell’essere messi di fronte alla presenza di una nuova funzionalità non richiesta.
È il caso, per esempio, dell’obsolescenza programmata di hardware e software o della deliberata riduzione all’inutilità di prodotti pagati profumatamente e che funzionerebbero ancora benissimo se non fossero dichiarati “end of life” —a fine vita— dai produttori. Il che si traduce in inutili costi ulteriori per cittadini, istituzioni e imprese, aumento di rifiuti speciali, alterazioni potenzialmente strutturali del mercato e altri effetti collaterali sistemici dei quali, però, né l’Antitrust italiana né le altre autorità si sono mai preoccupate.
In un contesto del genere limitarsi a sindacare, come fa l’Autorità, addirittura il design dell’interfaccia sostenendo che sarebbe prova dell’abuso appare veramente come la ricerca dell’evangelica pagliuzza rispetto a travi grandi come plinti per fondazioni.
L’impatto del procedimento sullo sviluppo dei servizi digitali
Questo ennesimo “caso Meta” apre un capitolo del tutto nuovo nel cosiddetto “enforcement” dei poteri delle autorità indipendenti che potrebbe avere conseguenze dirette e devastanti sul mercato dei servizi digitali.
Il tentativo di considerare le interfacce grafiche come possibili strumenti per commettere abusi di mercato segna, infatti, un passaggio cruciale: la trasformazione dell’interaction design da spazio di innovazione tecnica a oggetto di sorveglianza regolamentare.
Le conseguenze della regolamentazione dell’interface design
Se le autorità indipendenti continueranno a trattare le interfacce come semplici strumenti commerciali senza comprenderne la reale natura finiranno per compromettere la possibilità stessa di uno sviluppo del software libero, sperimentale e modulare e dei servizi che sul software si basano. Questo è a maggior ragione vero considerando che nel disto-sistema basato sulle piattaforme e sul “cloud”, gli interessi di Big Tech non si esercitano più e solo attraverso il controllo sul software, ma nel modo in cui l’utente interagisce con i servizi, a prescindere dai programmi che li fanno funzionare.
Sulla carta, dunque, è facile concludere che la sfida non è impedire che le interfacce siano progettate in un certo modo, ma impedire che lo siano senza contrappesi, alternative o consapevolezza critica degli utenti. Nella realtà questo è un obiettivo difficilmente realizzabile per ragioni tecniche, economiche ma, soprattutto, politiche.
L’impatto del procedimento Antitrust sui dazi USA/EU
Anche se non sono ancora noti i reali contenuti delle concessioni fatte dagli USA alla UE nella zoppicante e squilibrata trattativa sui dazi, è plausibile ritenere che l’alleggerimento delle pressioni su Big Tech sia uno dei cardini dell’accordo.
Se questo è vero, allora non è impensabile ritenere che nel prossimo futuro iniziative come quelle dell’Antitrust italiana possano volare al di sotto della capacità di rilevamento del radar della controparte statunitense, che non starebbe certo con le mani in mano.
Dunque anche se, in termini formali, le eventuali proteste statunitensi non dovrebbero essere un problema perché l’autonomia delle autorità indipendenti non può essere condizionata dagli interventi di altri Stati, in concreto questo principio di diritto potrebbe non essere così facilmente applicabile.
L’ennesima sfida per la UE
Servirebbe quindi a poco lamentarsi di possibili reazioni politiche in nome della sovranità europea, primo perché non esiste, e secondo perché il diritto non si applica in un laboratorio, ma tramite negoziati, pressioni industriali e compromessi intergovernativi. Fingere che sia tutto neutro e basato sul rule of law sarebbe soltanto un esercizio di pura ingenuità che si scontra con i fondamenti delle dottrine basate sul realismo politico.
Sia come sia, se l’intervento dell’Antitrust italiana —o quello di strutture analoghe italiane o di altri Stati membri, o ancora degli organi UE— provocherà reazioni da parte degli USA, l’unica soluzione sarà quella di trovare un compromesso politico. Il che potrebbe minare la fiducia nella capacità della UE di tutelare l’indipendenza dei watchdog pubblici non solo nel settore del mercato, ma anche negli altri dove il coinvolgimento delle autorità indipendenti è in continua crescita.
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