Negli Stati Uniti il potere politico sta usando le piattaforme private come braccio armato per bypassare i limiti dello Stato di diritto. Aprendo a nuovi scenari di controllo nella società digitale di Andrea Monti – inizialmente pubblicato su La Repubblica-Italian Tech
ICE Block e la rimozione dagli store
L’otto dicembre il New York Times ha pubblicato la notizia secondo la quale lo sviluppatore di ICE Block, un app per gli smartphone Apple che consentiva agli utenti di indicare i luoghi dove erano stati visti degli agenti dell’immigrazione statunitense, ha fatto causa al Department of Justice contestando la richiesta dell’amministrazione Trump di rimuovere il software dallo store dell’azienda di Cupertino e da quello di Android.
Sicurezza pubblica o pressione politica?
La materia del contendere non è tanto il merito della questione (se sia lecito “mappare” la localizzazione delle forze dell’ordine) quanto il modo in cui l’esecutivo ha ottenuto il risultato di bloccare la diffusione dell’app.
In termini sostanziali, le preoccupazioni espresse dal Department of Justice sono condivisibili: il tracciamento privato degli operatori di polizia da un lato consente ai malintenzionati di muoversi con maggiore “privacy” e, dall’altro, rischia di trasformare gli operatori in “bersagli mobili”. Va anche rilevato, d’altro canto, che il controllo pubblico diffuso sulle attività di polizia — per esempio per documentare la presenza o l’assenza di controllo sul territorio — è un’attività difficilmente contestabile perché riguarda l’esercizio dei diritti politici del cittadino.
Una storia che si ripete: da PGP alle app di oggi
Questa (nemmeno troppo) apparente contraddizione non è nuova perché si è manifestata già a partire dai primi anni ’90 con la diffusione di PGP, il software scritto da Phil Zimmermann che regalò la crittografia forte alle masse e il cui autore finì sotto processo per esportazione di armi da guerra.
Nel corso dei decenni, e con sempre maggiore accelerazione, i software prima e poi le app —che poi sempre software sono— hanno riproposto questa contraddizione apparentemente insanabile. Email anonime, software crittografici, applicazioni e piattaforme per comunicazioni “sicure” sono diventate l’incubo delle forze dell’ordine e bersaglio di azioni per ridurne la diffusione fra gli utenti. Nello stesso tempo, tuttavia, sono ampiamente utilizzate anche da chi il potere lo detiene e lo gestisce. In mezzo, si trovano singoli sviluppatori e Big Tech, che diventano oggetto di decisioni contraddittorie e, a volte, poco in linea con lo Stato di diritto.
Così, per esempio e rimanendo ai giorni nostri, dal 2020 India e Cina hanno adottato restrizioni significative all’uso di software come Whatsapp, nel 2024 la Francia ha ottenuto un accesso privilegiato agli utenti Telegram a seguito dell’arresto di Pavel Durov, fondatore dell’azienda, e la Commissione Europea sta nuovamente cercando di imporre la perquisizione preventiva e sistematica dei device in nome “della tutela dei minori” tramite il regolamento chat control. Di recente, come detto, la Russia ha dichiarato di voler bloccare Facetime.
La guerra delle app come questione di Stato di diritto
Il tratto comune a queste decisioni è che, ad ogni latitudine, non sono state prese per ordine di un giudice, dopo un’analisi sul bilanciamento degli interessi coinvolti e dei fatti specifici, ma sulla base di decisioni politiche assunte dagli esecutivi in nome della “prevenzione” e della “sicurezza nazionale”, cioè principi che per loro natura sono difficilmente associabili a fatti specifici e che, dunque, sono sempre a sospetto di applicazione per finalità di (geo)politiche e non di tutela dei diritti individuali.
Questo pone le democrazie occidentali di fronte a una contraddizione strutturale. I Paesi a “democrazia variabile” possono permettersi di non andare troppo per il sottile anche rispettando delle vuote forme giuridiche. Quelli occidentali, invece, soffrono il freno della legge e, come nel caso di ICE Block, ricorrono alle pressioni informali, invece che a strumenti giuridici dei quali, pure, hanno la piena disponibilità. A dimostrazione che questo atteggiamento è indipendente dal colore politico, basta ricordare l’ammissione da parte di Mark Zuckerberg che durante il COVID i post su Facebook vennero censurati su richiesta del potere esecutivo, non di quello giudiziario.
Dunque, tornando alle cronache, Apple e Android scoprono grazie alla segnalazione del US DoJ che ICE Block lede i termini contrattuali per la pubblicazione dei software sul proprio store e quindi lo rimuovono. In altri termini, non serve vietare per legge: basta invocare i termini di servizio, così le piattaforme diventano l’estensione informale del potere statale.
Il problema è il limite (se esiste) al diritto di protestare
Il caso di ICE Block è paradigmatico anche di un altro problema: quello dell’uso politico della tecnologia. È chiaro che, a differenza di FourSquare o altri software che funzionano sul principio del geolocalizzare cose e persone, ICE Block nasce con un intento dichiaratamente politico: quello di contrastare le politiche migratorie del governo USA. Quindi, il punto non è la tecnologia in sé ma il dichiarato obiettivo che persegue chi la utilizza e la volontà del potere di impedire il raggiungimento di questo obiettivo.
Se è così, allora è evidente che stiamo tutti pattinando su un ghiaccio estremamente sottile. A prescindere dal merito della questione specifica, limitare il diritto al dissenso anche tramite strumenti tecnologici è una scelta esistenziale per la democrazia di uno Stato ed è una decisione che non può essere assunta, se proprio deve esserlo, senza un serio dibattito pubblico e un rigoroso controllo giurisdizionale.
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