I giudici hanno risolto in modo semplice e giuridicamente elegante l’annoso problema della pubblicazione delle immagini dei figli sui social network da parte dei genitori: una sentenza banale ma insieme rivoluzionaria di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Italian Tech – La Repubblica
In una controversia fra genitori nella quale ciascuno accusava l’altro di pubblicare foto dei figli su profili social senza autorizzazione, il tribunale civile di Milano pronuncia una decisione tanto semplice quanto rivoluzionaria nella sua banalità: i genitori sono “custodi” delle immagini che realizzano dei propri figli e devono vigilare sul loro utilizzo. Di conseguenza, sia se pubblicano volontariamente contenuti o dovesse scappare loro di mano una foto o un video i genitori saranno egualmente responsabili penalmente.
Il provvedimento richiama espressamente la possibile commissione del reato di trattamento illecito di dati personali e, anche se, non lo dice in modo esplicito, l’articolo 650 del Codice penale secondo il quale: Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 206.
Come nel caso —volendo fare un esempio esagerato— dell’equazione E=MC2 che in cinque caratteri descrive l’equivalenza fra massa ed energia, con poche parole questo provvedimento riassume un intero trattato di diritto e dimostra che non c’è bisogno di emanare nuove leggi per “tutelare i minori” dalla diffusione della loro immagine.
Di chi è la foto di un minore
L’immagine di una persona è tutelata sia dal Codice civile del 1948 (che stabilisce il diritto al risarcimento del danno per le pubblicazioni di immagini di persone senza autorizzazione o in modo da lederne il decoro), sia da quello penale del 1930 (che punisce l’offesa alla dignità e della reputazione comunicando con più persone), sia dalla legge sul diritto d’autore del 1941 (che pone limiti all’utilizzo del ritratto).
Queste regole valgono anche per le foto (e i video) dei figli realizzati dai genitori, i quali potranno anche essere “proprietari” del ritratto secondo la legge sul diritto d’autore ma non possono usare il frutto della loro “content creation” per sfruttare l’immagine del minore (e questo, detto incidentalmente, implica inoltre che, visto lo sfruttamento economico del figlio, il profitto della eventuale monetizzazione dovrebbe essere del minore e non dei genitori, ma questo è un altro discorso).
Quando si può pubblicare la foto del proprio figlio
In modo del tutto condivisibile, il tribunale di Milano evita di fare l’elenco dei casi nei quali è possibile condividere pubblicamente le immagini dei propri figli ma richiama un dovere giuridico generale che grava sulle spalle di chi esercita la potestà genitoriale: proteggere il decoro, la dignità e —si potrebbe aggiungere— la sicurezza del proprio figlio. Quindi spetta ai genitori valutare, caso per caso, l’opportunità di rendere indiscriminatamente disponibili le immagini che ritraggono i propri figli, a prescindere da chi le ha realizzate e dunque a maggior ragione se sono stati loro a produrle.
In estrema sintesi, dunque, il tribunale di Milano nulla ha fatto se non ricordare a tutte le parti coinvolte, pubbliche e private, che ciascuno ha doveri molto precisi e che da questi doveri derivano precise responsabilità.
Un messaggio al legislatore (e alle autorità indipendenti)
Un altro effetto della rivoluzionaria banalità di questo provvedimento è avere dimostrato al legislatore e alle autorità indipendenti come applicando le norme vigenti sia possibile risolvere anche il tema della age verification e della necessità di porre un limite all’accesso da parte dei minori a servizi online.
Se l’obbligo giuridico di controllare i propri figli è di chi esercita la potestà genitoriale, è di questi ultimi la responsabilità per quello che fanno e quello che subiscono i minori sui quali hanno il potere/dovere di vigilare.
Questo richiamo può non piacere a chi è ossessivamente dominato dalla frenesia del desiderio di “esistere” online, ma non tutti i desideri possono diventare diritti, specie se questi desideri possono fare danno a chi non può difendersi.
Una decisione fuori dal tempo?
Si potrebbe obiettare, in termini “sociologici”, che questo provvedimento sia fuori dal tempo perché applica norme del secolo scorso mentre il mondo è andato da un’altra parte. Ma si potrebbe ugualmente rispondere che se il mondo sta seguendo la rotta del Titanic non vuol dire che si debba mantenere il timone verso quella destinazione.
Non è impossibile rispettare le norme sulle quali è basata la decisione del tribunale di Milano, perché fattualmente si può fare, basta volerlo. E dunque basta tornare a una concezione dei rapporti sociali nei quali la parossistica esposizione online del privato (anche di quello altrui, perché il privato del minore non è dei genitori) come forma di “certificato di esistenza in vita” —o come strumento di guadagno— non siano una regola di vita.
Ora, è chiaro che una posizione del genere si espone a critiche basate sulla mancata comprensione delle mutazioni antropologiche indotte dalla diffusione dei social network e dai modelli economici basati sull’economia (della cattura) dell’attenzione. Ed è anche vero che se le norme seguono i fenomeni sociali, al variare di questi ultimi, le prime devono essere modificate. Ma il punto è proprio questo: dobbiamo —o meglio— vogliamo cambiare queste norme?
Il nodo è fra diritto e politica
Dal punto di vista giuridico la scelta è neutra: una volta assunta la decisione politica in un senso o nell’altro, tradurla in regole vincolanti è soltanto una tecnicalità. Quindi, non ci sono preclusioni di principio a stabilire che tutto si può fare con l’immagine di chi non può avere voce in capitolo, che si deve modificare l’età del consenso a seconda del tipo di diritto del quale il minore può disporre, che i contratti l’attivazione di un account su un servizio di piattaforma stipulati dagli infradiciottenni sono totalmente validi.
Il punto è che scelte del genere non possono essere adottate, come invece si sta facendo, in modo disorganico e senza una riflessione più generale su come siamo cambiati e su come stiamo cambiando.
La conseguenza di questo modo di procedere non è il riconoscimento giuridico dell’autonomia che —di fatto— i minori hanno conquistato o la loro tutela sostanziale ma, al contrario, l’agevolazione della loro caduta nel tritacarne maneggiato dal maestro di Another Brick in the Wall.
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