Senza coordinamento tra Stati e una strategia unitaria, i fondi UE da soli non rendono competitiva la ricerca di Andrea Monti – Inzialmente pubblicato su LaRepubblica-Italian Tech
La UE stanzia 200 miliardi per sviluppare l’AI ma l’infrastruttura tecnologica che serve per farlo è sostanzialmente in mani straniere, e il sistema normativo—regolamento AI, ma anche GDPR, regolamento sui dati e via discorrendo— è una zavorra che paralizza il settore.
Le necessità di rinforzo della capacità difensiva degli Stati membri sono soddisfatte con un finanziamento di 800 miliardi, ma la difesa richiede soprattutto soldati adeguatamente addestrati e numerosi —verrà ripristinata la leva?— oltre che strutture logistiche funzionali —riapriamo e costruiamo caserme?— il che non è un particolare irrilevante.
Gli USA sono diventati, improvvisamente, un luogo inospitale per i ricercatori e dunque si apre uno spazio per attirarli nella UE con uno stanziamento di 500 milioni di Euro. Ma accademicamente i Paesi UE non sono tutti uguali e non è detto che questi immigrati di talento si distribuiscano in modo equo, mentre è probabile che privilegino invece quelle sedi dove possono lavorare con maggiore efficacia. Il che sarebbe un problema per l’Italia, dove il sistema universitario soffre della storica incapacità di relazionarsi in modo efficace con il mercato (che a sua volta è soffocato, per limitarci alla tecnologia, dalla pressione degli USA).
Per fare ricerca europea serve l’Europa
La coazione a ripetere che guida le scelte della Commissione UE, evidenzia un approccio strutturale basato sull’idea che bastano i soldi per risolvere i problemi, ma trascura il fatto che, in questo come in altri casi, il problema fondamentale è l’inesistenza dell’Europa come soggetto politico.
È certamente vero che il supporto economico è fondamentale per promuovere le attività di ricerca e rendere quella europea sufficientemente competitiva, ma anche in questo settore —come nella vita— i soldi non sono tutto. Dovremmo, infatti, chiederci prima di tutto se esista qualcosa che possiamo considerare “ricerca europea”.
Certo, ci sono molti luoghi della scienza nel nostro Paese e in quelli dell’Unione Europea —non solo centri di ricerca ma anche laboratori universitari— ma ogni nazione fa storia a sé. Questo significa concorrenza intracomunitaria per accaparrarsi i migliori cervelli e duplicazione di linee di ricerca (il che peraltro, non è di per sé un male per le scoperte si basano sulla verificabilità indipendente degli esperimenti). Ma significa anche apertura relativamente limitata alla cooperazione visto che in determinati settori la ricerca di base e quella applicata hanno un valore strategico e dunque non possono, peraltro giustamente, lasciare il territorio nazionale.
Il condizionamento delle politiche nazionali e la libertà dei dati
Il che ci porta al secondo punto: le differenze in termini di scelte politiche sul “cosa” ricercare. L’esempio paradigmatico è l’energia nucleare. La scelta di non avere centrali in Italia ha limitato gli studi in questo settore. Certo, esperimenti se ne fanno e come, ma le ricadute in termini di trasferimento tecnologico sul mercato interno sono risibili.
Dopo del “cosa” parliamo del “come”. La ricerca moderna è basata sulla disponibilità di dati e della possibilità di utilizzarli nel modo più libero possibile perché la serendipity — la dea delle “scoperte per caso”— è fra le più importanti nell’Olimpo della scienza.
In altri termini: non si possono porre limiti, per di più astrusamente burocratici come quelli del GDPR e ora dei regolamenti sull’AI e sui dati, agli studi scientifici, perché i risultati possono arrivare nei modi più inaspettati. In Italia, volendo fare un esempio locale, il cigno nero è l’articolo 8 del disegno di legge sull’intelligenza artificiale approvato al Senato che cerca risolvere questo problema “liberando” l’uso secondario dei dati per la ricerca. Ma per quanto apprezzabile e rivoluzionaria nella sua semplicità, questa norma da sola non rimuoverà le pastoie che bloccano scienza e tecnologia.
I limiti del ricorso a incentivi economici
Infine, occupiamoci del “chi”.
I ricercatori hanno ovviamente diritto a una retribuzione adeguata al lavoro che svolgono, dunque il tema di quanto vengono pagati è sicuramente rilevante. Ma chi si occupa di scienza è, per vocazione, nomade: va dove lo porta la possibilità di fare il proprio lavoro in condizioni logistiche ed economiche adeguate. Dunque, al netto di casi individuali e scelte personali, in un contesto del genere, è abbastanza ingenuo pensare che basti incrementare le retribuzioni non tanto per attirare, quanto per mantenere un ricercatore all’interno della UE. Soprattutto perché non c’è soltanto l’Unione Europea a contendersi questi talenti, visto —per esempio— l’attivismo degli Emirati Arabi o dell’Arabia Saudita contro i quali, se la gara è a chi spende di più, non abbiamo speranze.
La geopolitica della conoscenza
A monte di questi ragionamenti pratici, tuttavia, ce n’è uno che sta a metà fra il politico e il filosofico, vale a dire “se” (consentire di o voler) fare ricerca in un determinato luogo.
Non è detto, infatti, che la “semplice” disponibilità materiale di laboratori, mercati e opportunità sia sufficiente a generare un flusso in ingresso di ricercatori e non è detto, al contrario, che sia desiderabile accogliere tutti i ricercatori.
I livelli complessivi di libertà nei Paesi della UE sono, evidentemente, fra i più elevati al mondo ma le necessità di posizionamento geopolitico possono rendere l’Europa meno attraente per ricercatori dell’area indopacifica o, dall’altro lato, precludere l’accesso a persone provenienti da determinati Paesi, come è già avvenuto in USA. Per quanto si possano condannare iniziative del genere in nome della “fratellanza universale della scienza”, il “divieto di accesso” alla conoscenza è un tema geopolitico molto serio. In altri termini, il vantaggio strategico su un Paese o su un’area, si mantiene anche facendo in modo di rallentare l’avanzamento della ricerca non solo con sanzioni sugli strumenti necessari a condurre esperimenti, ma anche impedendo l’accesso alle conoscenze necessarie per progettarli. Questo significa che la UE non può permettersi una reale politica di “porte aperte”, nemmeno se devono essere attraversate da scienziati.
L’assenza di interesse per i Paesi emergenti
Un altro aspetto della strategia franco-UE appena annunciata che presta il fianco alla critica è la mancanza di attenzione per i Paesi in via di sviluppo che, invece, potrebbero essere una fucina di cervelli. È vero che nel caso specifico siamo di fronte a una scelta di tipo tattico destinata (almeno in teoria) ad avere effetti sul breve periodo. Ma è anche vero che in termini strutturali diventare, anche solo per ragioni di prossimità geografica, il baricentro della formazione di nuovi scienziati può avere effetti di lungo periodo che avvantaggerebbero tutte le parti coinvolte. Questo, ovviamente, a condizione che i Paesi già presenti nell’area, dopo essersi presi quello reale, non abbiano già colonizzato anche questo metaforico territorio.
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