Marte e le tracce della vita: le nuove evidenze dal cratere Jezero

L’astrobiologa Teresa Fornaro e il geologo Alessandro Frigeri, entrambi dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), spiegano l’importanza della scoperta di possibili biofirme individuate dal rover Perseverance, perché servirà riportare i campioni sulla Terra e perché è importante comunicare queste scoperte in modo preciso di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato da MIT Technology Review Italia

La missione Mars 2020 della NASA ha portato una svolta nell’esplorazione del pianeta rosso. Grazie ai dati raccolti dal rover Perseverance è stato possibile identificare tracce di molecole organiche intrappolate nei solfati delle rocce del cratere Jezero, un tempo sede di un antico lago.

La scoperta, pubblicata su Nature e rilanciata dalla NASA, apre una nuova fase della ricerca astrobiologica, rilancia la sfida di comprendere se la vita, almeno microbica, sia mai esistita oltre la Terra, ma ha suscitato anche semplificazioni eccessive dei risultati nei media generalisti.

In realtà, ricorda a MIT Technology Review, Alessandro Frigeri, geologo ricercatore INAF e componente insieme alla Fornaro del team scientifico del rover Rosalind Franklin del programma ExoMars dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), la ricerca scientifica procede con un ritmo più lento e costante di quanto appaia nelle narrazioni mediatiche. L’idea che Marte possa aver ospitato forme di vita non è nuova: le osservazioni astronomiche di Schiaparelli e Lowell di fine 1800 individuarono delle strutture lineari che portarono ad ipotizzare l’esistenza di vita evoluta sul pianeta.

Negli anni ’60 del secolo scorso, i dati delle sonde Mariner smentirono le ipotesi di vita evoluta, ma i nuovi dati fornirono evidenze di un passato geologico ricco di vulcani attivi, acqua e ghiacci, che stimolarono una nuova frontiera di ricerca che circa 10 anni dopo portò al lancio delle due sonde Viking che atterrarono su Marte alla ricerca di forme di vita elementare su Marte.

Da allora, missione dopo missione, la conoscenza del pianeta rosso è cresciuta in profondità e precisione, e l’ultima generazione di sonde e rover su Marte sta puntando gli strumenti su dettagli precedentemente sconosciuti.

Ogni passo di questa esplorazione si fonda su un principio essenziale: la trasparenza e la verificabilità dei dati scientifici. Le scoperte, pubblicate e condivise con la comunità internazionale, alimentano un processo collettivo di conferma o confutazione, che tutela la conoscenza come bene comune, che deve essere accessibile e condivisa per poter progredire.

Dunque, per capire il significato scientifico ed epistemologico della scoperta resa possibile grazie ai dati raccolti dal rover Perseverance, MIT Technology Review Italia ha incontrato la professoressa Teresa Fornaro, astrobiologa dell’INAF-Osservatorio Astrofisico di Arcetri la scienziata italiana che è direttamente coinvolta nell’analisi dei dati raccolti da Perseverance.

Prof.ssa Fornaro, lei fa parte del gruppo di 13 scienziati selezionati dalla NASA per analizzare i dati raccolti dal rover Perseverance nell’ambito della missione Mars 2020. Quali sono gli obiettivi scientifici principali del progetto e, nello specifico, quali aspetti dell’analisi dei dati rientrano nel suo ambito di ricerca?

Il mio gruppo di ricerca presso il Laboratorio di Astrobiologia dell’INAF-Osservatorio Astrofisico di Arcetri a Firenze, si occupa di esperimenti di simulazione dell’ambiente marziano per valutare la preservazione o degradazione di possibili biofirme molecolari nelle condizioni estreme presenti su Marte, in modo da capire che tipo di segnali aspettarci con strumenti come quelli che sono a bordo del rover Perseverance, e in base a questo aiutare ad interpretare i dati acquisiti dal rover. Questo aspetto è fondamentale per la missione Mars 2020, perché uno degli obiettivi principali è quello di cercare tracce di vita passata nelle rocce più antiche di Marte, di cui le biofirme molecolari rappresentano le evidenze più dirette. Grazie agli studi condotti nel nostro laboratorio, siamo riusciti a identificare la presenza di molecole organiche su Marte; nello specifico, idrocarburi policiclici aromatici preservati all’interno dei solfati in rocce analizzate da Perseverance sul fondo del cratere Jezero e sulla sommità del ventaglio deltizio formatosi dove un tempo un antico fiume confluiva nel lago che riempiva il cratere. Questa scoperta, guidata dal nostro gruppo di ricerca, è stata recentemente pubblicata nella prestigiosa rivista Nature Astronomy. In questo momento sono in corso ulteriori studi per chiarire l’origine di questi composti organici, che sembrerebbero derivare da reazioni chimiche tra gas vulcanici e minerali nei pori delle rocce ignee. Tuttavia, dopo aver scoperto potenziali biofirme sul letto prosciugato dell’antico fiume in una regione non molto distante denominata Bright Angel, non possiamo completamente escludere una correlazione tra questi organici, e quindi un’origine biologica. Gli idrocarburi policiclici aromatici, più solubili rispetto al materiale organico rinvenuto a Bright Angel, potrebbero infatti essere stati trasportati dall’acqua fino al ventaglio deltizio e sul fondo del cratere, dove potrebbero essere stati preservati dai solfati precipitati nei pori delle rocce vulcaniche.

Da astrobiologa e da ricercatrice che ha accesso diretto ai dati lei è tra le persone più qualificate per commentare le conclusioni del recente articolo pubblicato su Nature, ripreso lo scorso settembre anche dalla NASA, riguardo alla scoperta di possibili “biosignature” su Marte. Può spiegare in che cosa consistono queste presunte tracce biologiche e perché sono considerate potenzialmente rilevanti?

Sul letto prosciugato dell’antico fiume che un tempo sfociava nel lago che riempiva il cratere Jezero, in una regione di colore chiaro denominata Bright Angel, in un ambiente potenzialmente abitabile nel passato di Marte, sono state trovate delle rocce sedimentarie argillose contenenti materiale organico e macchie che solitamente sulla Terra si formano in seguito a reazioni chimiche promosse da batteri ferro-riduttori e solfato-riduttori. Questa scoperta è particolarmente rilevante perché tali macchie non sono mai state trovate prima dai rover precedenti, e rappresentano un’evidenza mineralogica che si somma all’evidenza organica e geologica, corroborando fortemente l’ipotesi biologica.

Dai dati raccolti da Perseverance sembra emergere che il materiale analizzato potrebbe essere il risultato di processi compatibili sia con un’origine biologica sia con meccanismi puramente geochimici.

Ci sono, allo stato attuale, elementi concreti che permettano di privilegiare una delle due ipotesi? Quali indizi risultano più convincenti e quali restano ancora ambigui?

L’ipotesi biologica sembra essere al momento la più plausibile perchè, sebbene ci siano processi puramente geochimici in grado di produrre quei particolari minerali rinvenuti nelle rocce di Bright Angel, generalmente questi processi avvengono ad alta temperatura o a pH acido, e attualmente non abbiamo alcuna evidenza che queste rocce si siano formate in tali condizioni. Anzi, la granulometria molto fine delle rocce indica una bassa cristallinità, incompatibile con processi ad alta temperatura.

I media generalisti hanno titolato, in modo spesso semplificato, “Su Marte indizi di vita passata” o addirittura “Scoperta la prova più evidente dell’esistenza di vita su Marte”. Può chiarire quali sono i limiti di queste interpretazioni e quale sia, invece, la reale portata scientifica di questa scoperta?

Sicuramente, questa è la più convincente potenziale biofirma mai scoperta sul pianeta rosso finora. Servono tuttavia ulteriori investigazioni scientifiche per capire se processi abiotici possano produrre quelle macchie nelle varie condizioni che hanno interessato quell’area di Marte nel passato. E soprattutto serve riportare i campioni sulla Terra per effettuare studi molto più approfonditi nei nostri laboratori terrestri. La strumentazione che può essere messa a bordo di un rover è ovviamente molto limitata rispetto a quello che potremmo fare qui sulla Terra nei nostri laboratori d’avanguardia. La missione per recuperare i campioni raccolti da Perseverance e portarli sulla Terra è la più lunga e complessa mai elaborata prima dalla NASA e dall’ESA, l’Agenzia Spaziale Europea. Attualmente è a rischio per i tagli dell’amministrazione Trump al budget della NASA. La parte della missione finanziata dall’ESA, tuttavia, procede a pieno regime e ci auguriamo che il preziosissimo carico di campioni raccolti da Perseverance venga alla fine portato sulla Terra per permettere a generazioni di futuri scienziati di rispondere a domande fondamentali riguardanti questo pianeta.

L’idea che Marte possa aver ospitato forme di vita, almeno microscopiche, è presente nella ricerca scientifica fin dalle prime osservazioni delle calotte polari. Quali sono oggi gli elementi più solidi che sostengono l’ipotesi di una vita passata o potenziale su Marte? E in che modo le nuove analisi stanno modificando il quadro rispetto alle precedenti missioni?

Le attuali scoperte si inseriscono perfettamente nel quadro tracciato dalle precedenti missioni che hanno dimostrato che nel passato c’era acqua allo stato liquido sulla superficie di Marte, e condizioni abitabili, cioè che avrebbero potuto supportare la vita, come appunto acqua liquida, materiale organico, energia chimica, temperature più miti e un campo magnetico più forte che proteggeva dalle radiazioni dannose. Lo step successivo è appunto quello di verificare se la vita si è mai sviluppata in tali ambienti abitabili nel passato di Marte. La scoperta recente di Perseverance va proprio verso questa direzione.

Guardando al futuro, quali aspetti scientifici e tecnologici ritiene prioritari per rendere possibile un’esplorazione umana di Marte? Quali rischi biologici o di contaminazione devono essere valutati con maggiore attenzione nel progettare missioni con equipaggio?

La scoperta di Perseverance riguarda potenziali tracce di vita estinta. Oggigiorno Marte è un pianeta ostile alla vita a causa della mancanza di un’atmosfera spessa e di un campo magnetico, che fa sì che radiazioni dannose possano raggiungere la superficie e sterilizzarla, inducendo la formazione nel suolo di sostanze ossidanti molto reattive che degradano la materia organica. Pertanto non ci aspettiamo rischi di contaminazioni biologiche sulla superficie di Marte. Nella sottosuperficie, però, in un ambiente più preservato, potrebbero essere sopravvissuti microorganismi estremofili. Per missioni con equipaggio umano saranno evitati tutti quei siti ritenuti rilevanti da un punto di vista astrobiologico, atterrando invece in luoghi dove non ci si aspetta di trovare vita né passata né presente.

Infine, da un punto di vista epistemologico, cosa rappresenterebbe per la scienza la conferma anche solo di una forma di vita microbica estinta su Marte? Come cambierebbe il nostro modo di intendere la biologia e la posizione dell’umanità nell’universo?

Sicuramente la nostra percezione dell’unicità della vita sulla Terra verrebbe completamente stravolta. Sapere di non essere unici nell’Universo avrebbe implicazioni filosofiche e sociali profondissime.

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