La Cina sta creando una società dove robot e umani convivono

Un articolo recentemente pubblicato dal South China Morning Post mostra alcuni aspetti del progetto AI+ che in dieci anni ha l’obiettivo di consentire alla Cina di sfruttare al massimo le proprie tecnologie basate su IA. Così Pechino si prepara a preservare l’autonomia umana in un ecosistema di robot di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Italian Tech – La Repubblica

Un articolo recentemente pubblicato dal South China Morning Post mostra alcuni aspetti non immediatamente percepiti dai commentatori (occidentali) a proposito del progetto AI+: più che “semplici” obiettivi economici, AI+ è un progetto complesso che si prefigge di modificare strutturalmente la società cinese (e di riflesso, probabilmente, anche quella Occidentale). Questo dovrebbe accadere integrando robot e IA in ogni ambito, dalla produzione industriale al supporto alle attività amministrative e, potenzialmente, fino all’impiego domestico come strumenti antropomorfi da compagnia e assistenza.

Un obiettivo del genere non è certo peculiare della Cina, dal momento che un po’ dappertutto, anche in Occidente, visioni del genere sono invocate molto spesso. Tuttavia, ciò che rende interessante l’approccio cinese all’integrazione di macchine autonome nella vita sociale è l’assoluto pragmatismo con il quale viene affrontato il tema.

L’impatto dell’IA sulla società: pragmatismo vs illusioni

Invece di avventurarsi verso improbabili e imbarazzanti discorsi sulla “personalità” dell’AI o sui “diritti dei robot”, o ancora sulla necessità di “convivere con le macchine”, Pechino appare semplicemente consapevole che la trasformazione innescata da AI+ avrà ricadute dirette sull’aumento della disoccupazione, sulla destrutturazione delle strutture familiari, sulle disuguaglianze sociali e —continua l’articolo— sull’incremento di conflittualità generata dalla presenza ubiqua delle macchine.

In altri termini, non sembra che il governo cinese sia troppo interessato alle narrative distopiche di stampo hollywoodiano, ma che invece mantenga saldamente al centro delle proprie scelte politiche, economiche e giuridiche la consapevolezza che robot e IA sono e rimangono strumenti ma che è altamente probabile che le persone non le considerino tali.

Il problema è l’empatizzazione umana verso le macchine

Un esempio delle criticità poste dalla diffusione su larga scala di tecnologie che uniscono robotica e IA è l’innesco nell’utente di processi psicologici di empatizzazione che potrebbero portare l’individuo a perdere di vista la natura meccanicadell’oggetto che sta utilizzando e a pretendere di attribuirgli, contro ogni evidenza, “sensazioni” e “sentimenti”.

In Giappone c’è già un precedente di questo genere che risale a pochissimo tempo fa: Aibo, il robot dall’aspetto e dal comportamento di un cucciolo di cane ha provocato in molti utenti la nascita di un sentimento verso la macchina. Tanto era forte il legame (unilateralmente) costruito che, quando i robot non sono stati più riparabili per via della cessazione del supporto da parte di Sony, molti proprietari hanno chiesto (e ottenuto) di celebrare un funerale in piena regola. Il caso di Aibo non è particolarmente drammatico e, almeno in parte, va interpretato considerando un aspetto peculiare dell’antropologia nipponica. Secondo una visione tradizionale che ruota attorno all’idea di tsukumogami, infatti, alcuni oggetti, a determinate condizioni, possono acquisire una vitalità autonoma.

Non c’è un legame diretto fra la credenza tradizionale sulla vitalità degli oggetti e le reazioni dei proprietari di Aibo ma il caso, insieme ad altri eventi analoghi, è estremamente indicativo di quello che potrebbe accadere al crescere della diffusione di robot (apparentemente) senzienti. Non stiamo parlando, infatti, di un’interazione con un oggetto che sappiamo essere inanimato, non cosciente e incapace di provare sentimenti —è il caso dello psicoterapeuta software sviluppato da Weizenbaum alla fine degli anni 70 del secolo scorso— ma di una relazione costruita unilateralmente dall’individuo e tutta contenuta nella sua mente che lo spinge a empatizzare con la macchina al punto di ritenerla “viva” e di preferirla agli esseri umani.

Ad oggi eventi del genere sono più delle curiosità che dei fenomeni strutturali, ma a quanto pare il governo cinese non vuole attendere che il problema si manifesti, prima di intervenire.

Il doppio binario di AI+

Sulla base di questo ragionamento, è altamente probabile che oltre allo sviluppo tecnologico la strategia nazionale cinese comprenderà “ammortizzatori” e correttiviin grado di prevenire, per quanto possibile, eventi socialmente indesiderabili come quelli segnalati.

Dunque l’obiettivo strategico non sarà “dare diritti ai cyborg” ma fare in modo che le strutture sociali vengano danneggiate il meno possibile dalla diffusione di strumenti percepibili come sostituti degli esseri umani e dunque in grado di minare l’approccio al controllo sociale basato sulla condivisione di riti e valori che rappresentano il tessuto connettivo della società cinese.

Detta in altri termini, la sfida che Pechino si prepara ad affrontare è preservare l’autonomia umana in un ecosistema nel quale robot e computer perdono la loro connotazione esteriore di “strumenti” e vengono elevati al rango di interlocutori paritari.

Messa in questi termini, l’integrazione fra robotica e AI diventa in primo luogo un tema di controllo sociale non solo per la Cina ma anche per gli Stati occidentali dove però si pone in termini diametralmente opposti.

L’impatto sul mondo Occidentale

Se la preoccupazione di Pechino è proteggere i propri modelli sociali dalla loro disarticolazione causata dalla tecnologia, quella dell’Occidente è capire se può ancora consentire — e se sì, fino a che punto — di lasciare che le stesse tecnologie possano essere sviluppate senza alcun controllo in nome della libertà del mercato e dell’individuo, anche se questo implica la distruzione dell’uno e dell’altro.

Dovremmo chiederci se possiamo (vogliamo) passare dall’isolamento dei social network, che ci danno l’illusione di “vivere connessi” ma in realtà ci separano dal resto del mondo, alla desolante solitudine del passare la vita con robot a forma di cane o di essere umano, convinti che in questo modo qualcuno — anzi, qualcosa — potrà occuparsi di noi.

Dalla risposta a questa domanda dipende se continueremo a vivere in una società fatta di persone, o se diventeremo soltanto utenti passivi di un dialogo fra macchine.

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