Nel patto con gli Usa, l’Ue tiene fuori Big Tech e diritti. E rimette in discussione le norme sulla sovranità digitale e i diritti degli utenti di Andrea Monti – inizialmente pubblicato su Italian Tech – La Repubblica
Come era ampiamente prevedibile, nella guerra dei dazi l’unica arma che la UE non ha utilizzato per arrivare alla tregua con gli USA siglata ieri in Scozia è stata il più volte invocato “bazooka” —la tassazione di Big Tech.
Niente più IVA sul pagamento dei servizi in dati personali?
Dopo il “vedo” di Trump sul bluff di von der Layen, dunque, la “web tax” dovrà uscirà dalle agende della Commissione e degli esecutivi nazionali. Ma allora c’è da chiedersi se verranno ridimensionati anche l’attivismo delle autorità nazionali di protezione dei dati e —per quanto riguarda l’Italia —quello dell’agenzia delle entrate e della Procura della Repubblica di Milano — sul modo in cui Big Tech raccoglie e capitalizza i dati degli utenti.
Per capire l’enorme importanza del tema della patrimonializzazione dei dati bisogna pensare che la questione non riguarda soltanto l’IVA ma anche le tasse sul reddito di impresa.
Se il valore dei dati è soggetto al pagamento dell’IVA, allora questi dati contribuiscono anche a formare il patrimonio di un’azienda e quindi dovrebbero essere parte dell’imponibile sul quale calcolare le tasse dovute all’erario.
Visti i numeri in campo, e se consideriamo che l’accertamento del mancato pagamento delle tasse sarebbe retroattivo, stiamo parlando di somme da capogiro da richiedere, in teoria, a Big Tech —ma anche a tutti quelli che basano il proprio modello operativo sulla monetizzazione dei dati. Dunque il costo indiretto del “rilassamento” della morsa fiscale su Big Tech per via dell’accordo con la Commissione UE potrebbe essere molto pesante da sopportare, anche se non immediatamente percepito.
Lo stop alle normative anti Big Tech
Le conseguenze di questa mano di poker mal giocata non si fermano qui.
L’impegno ad aumentare gli acquisti di beni e servizi USA preso dalla Commissione per conto degli Stati membri significa, infatti, anche revisione del complesso sistema di regolamenti e direttive che sono stati pensati per contrastare lo strapotere tecnologico USA.
Dunque, non stupirebbe se in un prossimo futuro ci trovassimo di fronte a una revisione formale o a una disapplicazione sostanziale non solo delle norme sulla protezione dei dati personali ma anche di quelle sui servizi digitali che impongono responsabilità alle grandi piattaforme (e cioè a Big Tech), di quelle sul mercato digitale che stabiliscono limiti alle strategie commerciali dei grandi produttori di hardware (cioè a Big Tech) e di quelle sull’intelligenza artificiale che impediscono il radicamento nella UE della AI company (cioè di Big Tech).
La fine della sovranità digitale UE e dell’open source come strumento politico di indipendenza?
Se, come appare estremamente probabile, non solo non verrà ridotta la dipendenza tecnologica dagli USA ma sarà addirittura incrementata anche tramite l’ostracismo imposto dalla strategia USA per l’AI verso tecnologie cinesi, allora sarà abbastanza difficile per i singoli Stati e per la UE perseguire una politica di sovranità digitale basata sull’autonomia tecnologica.
La conseguenza diretta è che le architetture normative basate su open source e creazione di un mercato tecnologico europeo per istituzioni e imprese dovranno essere modificate per recepire il mutato quadro politico. Mentre gli effetti collaterali riguarderanno, per esempio, l’impatto sui conti pubblici e privati dell’obsolescenza programmata e dunque del rinnovo del parco hardware e software secondo i tempi stabiliti da Big Tech e non dalle necessità degli utenti o l’innalzamento di barriere all’ingresso di aziende italiane ed europee nel mercato digitale.
Il vero fallimento è avere accettato la negoziabilità dei diritti
È doveroso premettere, adottando una chiave di lettura propria del realismo politico, che nelle relazioni internazionali conta principalmente la forza. Di conseguenza non ci si può lamentare più di tanto se la parte più debole di un negoziato—specie se, come nel caso della UE, non ha una soggettività politica autonoma— accetta condizioni sfavorevoli o deve fare marcia indietro su posizioni che, in precedenza o al proprio interno, aveva sempre dichiarato non negoziabili.
Ciò non toglie, tuttavia, che le condizioni accettate dalla Commissione europea per evitare i dazi USA implicano necessariamente il sacrificio di diritti che, fino ad ora, erano considerati sacri e in nome dei quali sono state imposte agli operatori (USA) dell’ecosistema digitale regole draconiane e sanzioni milionarie. Dunque, di fronte alla deregolamentazione prossima ventura —di fatto o diritto poco importa— sarà abbastanza difficile convincere cittadini e imprese degli Stati membri che in nome della “ragione di Stato” (ma di quale Stato?) nel prossimo futuro bisognerà accettare una sostanziale limitazione di prerogative che la UE ha sempre dichiarato di mettere alla base delle proprie scelte.
Cassandra e il gattopardo tecnologico
Per quanto importanti, tuttavia, questi cambiamenti futuri saranno poco percepibili dai più.
Di conseguenza non è realistico immaginare che da questo fronte la Commissione von der Layen possa subire critiche da osservatori e avversari politici.
D’altra parte, si tratta semplicemente di lasciare le cose come stanno, visto che la dipendenza tecnologica (non solo) dagli USA è un fatto già acquisito al quale tutti, chi più chi meno, siamo stati abituati dal passare degli anni senza che, nonostante dichiarazioni e iniziative, nulla cambiasse.
E dire che oltre vent’anni fa qualche Cassandra aveva anche avvertito il governo in carica —e come nella storia della Cassandra originale, sappiamo già come potrebbe andare a finire.
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