Costruire delle repliche animate dall’AI di un defunto è l’archetipo dell’egoismo individualista del nostro tempo e della progressiva autocondanna alla solitudine di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su La Repubblica-Italian Tech
Lo scorso 8 maggio 2025, in un processo per omicidio celebratosi in Arizona, negli USA, i parenti della vittima chiedono alla corte —e ottengono il permesso— di visualizzare un’animazione della vittima costruita con i dati del defunto, per rivolgersi all’imputato e “perdonarlo” per le sue azioni.
Nessuno, a partire dai diretti interessati, ha pensato che questo significasse “resuscitare” la persona deceduta, ma proprio per questa ragione averne costruito una riproduzione digitalizzata è il sintomo della relazione tossica con le tecnologie generative.
Il “perdono” accordato all’omicida è stato deciso, nelle forme e nei contenuti, dai parenti della vittima e non dalla vittima stessa. Nessuno può dire se la vittima avrebbe condiviso una scelta del genere, né se avrebbe usato quei toni oppure no. Dunque, è fattualmente falso che la vittima abbia perdonato il suo omicida. Eppure, persino testate autorevoli come il New York Times titolano Reincarnated by AI, Arizona Man Forgives His Killer — Reincarnato dall’AI, un uomo dell’Arizona perdona il proprio omicida, a dimostrazione dell’equivoca natura della percezione di questi fenomeni.
La vittima non è “reincarnata”, il clone non è la vittima, e non ha “perdonato” nessuno. Eppure questa è la percezione che viene trasmessa.
Già limitandosi agli aspetti relativi al processo, dovremmo chiederci se sia ammissibile utilizzare strumenti del genere in un processo vista la loro estrema capacità di influenzare giudici e giuria parlando alla parte non razionale della coscienza. Dibattito ozioso nel sistema giudiziario statunitense che fin dal 1998 consente l’ingresso in aula di ricostruzioni digitalizzate della scena del crimine e del modo in cui sarebbe —il condizionale è d’obbligo— stato commesso, ma per oggi, non è questo il punto.
Quanto accaduto nell’aula di giustizia dell’Arizona è la manifestazione di una delle tante forme che può assumere uno dei comportamenti più tossici slatentizzati dalla possibilità di creare deep fake (più o meno) interattivi: praticare la digital resurrection.
Questo termine definisce un servizio che, utilizzando i dati di una persona defunta —scritti, immagini, video, suoni e via discorrendo— costruisce un avatar o un chatbot che interagisce con chi è rimasto.
È chiaro, giova ripeterlo, che non si tratta di una “resurrezione” vera e propria perché, sarà ovvio ma va detto, il risultato dell’elaborazione dei dati del caro estinto è un oggetto inanimato, privo di coscienza e consapevolezza, ma soprattutto non è il soggetto trapassato che ritorna ad una diversa forma di vita, come il padre di Hiroshi Shiba, il protagonista dell’anime Jeeg robot d’acciaio.
Dunque, la “resurrezione digitale” serve esclusivamente a chi rimane e non a chi è partito per l’ultimo viaggio, e rappresenta una condanna a (ri)vivere il dolore della perdita tutte le volte che ci si illude di avere di fronte la persona amata.
Ci si potrebbe chiedere cosa ci sia di male, in fondo, in un servizio del genere. Alla fin fine, il culto dei morti è sempre stato celebrato prima con oggetti simbolici e poi con effigi, immagini e video, con gli schermi hanno preso il posto degli altari. Perché, dunque, non si dovrebbe compiere anche questo ulteriore passo visto che la tecnologia lo consente?
Ci sono diverse ragioni che suggeriscono di non percorrere questa strada.
Uno dei primi studi sull’argomento pubblicato nel 2023 evidenzia che le persone non accettano di buon grado l’idea che i propri dati possano essere usati, dopo la morte, per costruire questi cloni e rileva che questo dovrebbe essere consentito solo se, in vita, questa volontà era stata chiaramente espressa. Dunque, in assenza di una decisione esplicita non si potrebbe utilizzare un servizio di replica digitalizzata del defunto. C’è, poi, il tema di chi dovrebbe essere autorizzato a richiedere il servizio: soltanto gli eredi oppure anche parenti, collaterali, affini e amici?
Per quanto complessi, gli aspetti giuridici della questione sono meno rilevanti rispetto all’impatto personale e collettivo di servizi del genere. L’elaborazione del lutto è un momento fondamentale nella vita di ciascuno di noi e la capacità di “storicizzare” un evento traumatico è un modo per cicatrizzare la ferita e, magari, cambiare atteggiamento rispetto alle priorità individuali e al rapporto con le altre persone. Al contrario, illudersi di avere ancora con sé una persona estinta, di poterci interagire e di ricevere conforto rischia di paralizzare la persona in un eterno presente, bloccato nel giorno della prima interazione con il chatbot.
Non tutti reagiscono allo stesso modo di fronte alla morte e non è detto che questa (finta) resurrezione digitale causi danni psicologici all’individuo e alle sue relazioni. Rimane il fatto, però, che sta crescendo la tendenza a umanizzare irrazionalmente oggetti tecnologici che, pur inanimati, sembrano comportarsi come se veramente ci riconoscessero. Paradigmatico, in questo senso, è il comportamento di molti proprietari di AIBO, il cane robotico sviluppato da SONY, che sono arrivati al punto di celebrare un rito religioso per la “dipartita” —cioè la rottura non riparabile— di quello che per loro non era più un giocattolo.
In realtà, la vicenda di AIBO è molto più complessa. Non può essere liquidata come una “estrosità” né, al contrario, elevata a paradigma antropologico. Insieme a fenomeni analoghi, tuttavia, essa è indice della prevalenza della forma sulla sostanza, e dell’apparenza rispetto all’oggettività. Se un oggetto appare senziente e si comporta come un senziente allora non fa differenza se sia un chi oppure un cosa. Ciò che conta è che serva allo scopo che, nel caso specifico, è anestetizzare il dolore confinando la persona in un recesso sempre più profondo —e pieno di solitudine— della propria coscienza.
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