Il figlio usa lo smartphone per registrare atti osceni. I giudici indagano il padre

La vicenda di Sulmona è precedente che mette alla prova il concetto di responsabilità genitoriale nell’età dei social. Ed è un tema nuovo in fatto di giustizia di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su La Repubblica – Italian Tech

È notizia di oggi che nelle prossime settimane il giudice per l’udienza preliminare del tribunale penale di Sulmona dovrà decidere sulla fondatezza dell’accusa di corruzione di minori mossa dal pubblico ministero della città peligna nei confronti di un padre colpevole, a dire dell’accusa, di non avere controllato l’uso dello smartphone da parte del figlio tredicenne. In sintesi, dunque, il padre è considerato responsabile delle azioni del figlio pur non avendo avuto alcun ruolo.

Il ragazzo, secondo quanto riportato dagli organi di stampa, avrebbe sottratto il telefono al padre e lo avrebbe utilizzato, insieme a un compagno di scuola, per mostrare i propri genitali a una coetanea durante una videochiamata.

Genitori colpevoli penalmente per le azioni dei figli?

A prescindere dal merito della vicenda e dalla possibilità di configurare una responsabilità penale diretta del genitore per i fatti commessi dal figlio —questione che sarà, si presume, oggetto del processo— questa vicenda è un ulteriore indizio che qualcosa stia cambiando nel dibattito sul ruolo, sui doveri e sulle responsabilità dei genitori che consentono ai propri figli l’uso indiscriminato di strumenti di comunicazione senza esercitare il dovuto controllo.

I precedenti su social network e responsabilità genitoriale

Già lo scorso giugno 2025 la sezione famiglia del tribunale di Milano aveva emesso un provvedimento basato sul dovere di protezione dei genitori nei confronti dei figli minori. In quel caso l’oggetto della causa era la pubblicazione fuori controllo delle immagini della figlia di una coppia nell’ambito di una controversia familiare, ma il filo rosso che lega le due vicende è, appunto, il fatto che i genitori non possono abdicare ai propri obblighi né attivamente, né passivamente.

La fuga dalle responsabilità individuali

In questo dibattito i convitati di pietra sono due: la trasformazione del minore in “utente” (o meglio, “cliente”) e l’incapacità dei genitori di limitare o controllare l’utilizzo di smart device e piattaforme come pure la legge imporrebbe loro di fare.

La consumerizzazione del minore

I minorenni sono bersaglio dell’industria dei consumi da ben prima che social network, piattaforme di content sharing e sistemi di messaggistica diventassero onnipresenti nella vita di ciascuno di noi. Basta guardare l’evoluzione della pubblicità che, inizialmente, “parlava” loro in modo da spingerli a “convincere” i genitori all’acquisto e che poi, sempre di più, ha iniziato a considerarli soggetti autonomi con i quali interagire direttamente.

Di certo, questo è il segno dei tempi e non è realistico pensare che un adolescente di oggi sia lo stesso di un suo “antenato” di trent’anni fa. Rimane però il fatto che la trasformazione del minore in consumatore ha implicato che, legge o non legge, egli dovesse avere “diritto di fatto” all’autonomia dai propri genitori.

L’abdicazione alla responsabilità genitoriale

Dall’altro lato, il passaggio dalla televisione al babysitter 2.0, lo smartphone, e la legittimazione del ruolo delle interazioni tecnologicamente mediate come pratica della socialità hanno consentito ai genitori di autoassolversi per non essersi preoccupati degli strumenti che stavano mettendo nelle mani dei propri figli. “Così fan tutti”, “mio figlio usa il computer meglio di me”, “alla fine è solo un telefono”… questi sono solo alcuni degli argomenti che periodicamente vengono riproposti quando si parla di famiglia e tecnologia.

Il tema è, ovviamente, molto più complesso di quanto queste poche righe possono descrivere ma, in termini generali, la questione rimane tal quale: se proprio non si vuole seguire un dettame etico, va ricordato che la legge impone ai genitori responsabilità precise dalle quali non ci si può chiamare fuori solo perché il figlioletto è un “nativo digitale”.

Age verification: la soluzione sbagliata a un problema reale

Pur di non riconoscere che il re è nudo e, dunque, pur di non richiamare i genitori ai propri doveri giuridici rischiando di perdere consenso elettorale, nel corso dei decenni l’unione europea e i governi degli Stati membri hanno preferito evitare di occuparsene proponendo di imporre per legge alle piattaforme l’adozione di meccanismi di age-verification.

In realtà, una regola del genere non sarebbe necessaria perché, sintetizzando l’argomento giuridico, secondo le norme vigenti —e sottolineiamo vigenti— il minore non può stipulare contratti (e se lo fa possono essere annullati). Quindi spetta all’interlocutore (la piattaforma) essere certo dell’età di chi si registra e al maggiorenne —il genitore— fare in modo che il minore non possa farlo “a propria insaputa”, perché anche se “gratis” l’uso di una piattaforma è sempre e solo possibile, appunto, tramite un accordo giuridicamente vincolante.

Il ruolo dell’autorità giudiziaria e l’impatto sulla società virtualizzata

Se, dunque, non c’è bisogno di una legge che impone il controllo sulle attività del minore e di una legge che obbliga a verificare l’età di chi utilizza un servizio online, è certamente da salutare positivamente il fatto che l’autorità giudiziaria abbia iniziato a richiamare i genitori agli obblighi e alle responsabilità associate alla scelta di avere messo al mondo un figlio.

Senza nascondersi dietro un dito, è chiaro che questa linea —se dovesse diventare strutturale— provocherebbe reazioni veementi in chi nonostante tutto rifiuta di occuparsi del modo in cui soggetti deboli formano la propria personalità tramite le interazioni online. Inoltre, le dinamiche familiari potrebbero essere fortemente condizionate e le sezioni dei tribunali che si occupano di questioni di famiglia potrebbero essere sommerse dai picchi di contenzioso.

Infine, è realistico pensare che Big Tech non prenderebbe troppo bene le possibili conseguenze dell’esercizio del controllo genitoriale sui propri clienti minori. Addio foto, video, stories, reel, geolocalizzazione, post —insomma tutto quel patrimonio di dati che rappresenta la moneta di scambio per l’utilizzo delle piattaforme.

Riprendere il controllo delle relazioni personali

In definitiva, i casi di Milano e Sulmona trasmettono un messaggio molto chiaro: è fondamentale riprendere il controllo delle relazioni personali rifiutando di continuare ad essere parte del capitalismo della solitudine che si nutre della rottura dei legami individuali e collettivi.

Il punto non è smettere di utilizzare i social network, ma farlo in modo consapevole specie quando siamo noi a dover decidere per chi, secondo legge e biologia, non è ancora nella capacità di farlo con piena consapevolezza.

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